Grandi mostre. 1 
Architettura e Art Brut a Losanna

specie
di spazi

L’architettura è il tema centrale dell’edizione in corso della Biennale de l’Art Brut di Losanna. Un’occasione per riflettere sul rapporto creativo che gli artisti “outsider”, non professionisti, non convenzionali intrattengono con la casa, lo spazio e l’ambiente.

Elisa Fulco

Fino al prossimo 17 aprile la Collection de l’Art Brut di Losanna ospita la seconda edizione della Biennale de l’Art Brut dal titolo Architectures, quest’anno dedicata al tema, appunto, dell’architettura. Dopo la prima edizione del 2013, in cui le macchine e i mezzi di trasporto sono stati il filo conduttore della mostra, adesso sono i palazzi, le facciate, i ponti, i tunnel, le mappe, le vedute prospettiche delle città e le installazioni ambientali a guidarci in un viaggio fantastico, sospeso tra invenzione e utopia, in cui l’architettura diviene pretesto per immaginare spazi di vita diversi e uscite di fortuna dal quotidiano. «Il filo rosso dell’architettura ci ha permesso di selezionare circa duecentocinquanta opere di cinquantuno autori che provengono esclusivamente dalle collezioni del museo. Solo sette autori sono donne; segno che la costruzione resta un tema prevalentemente maschile. La Biennale è un’occasione per presentare i lavori storici alla base della collezione - costituita nel 1976 dall’artista Jean Dubuffet, inventore dello stesso termine Art Brut nel 1945 - che spaziano da Adolph Wölfli a Raphaël Lonné, ad Augustin Lesage, Joseph Moindre, Auguste Merle; sino alle ultime acquisizioni, effettuate tra il 2012 e il 2015, tra cui i disegni di Yuri Titov, e opere di John Devlin, Royal Robertson e Diego», afferma Sarah Lombardi, dal 2013 direttrice del museo di Losanna. Sua l’idea di raccontare tematicamente la collezione per valorizzare un patrimonio di circa sessantamila opere di mille artisti che non ha uguali al mondo, dando visibilità a opere e ad autori che spesso non sono mai stati mostrati al pubblico. 

In un momento storico in cui c’è un interesse crescente, sia artistico che di mercato, verso questo tipo di produzioni, rimaste a lungo ai margini del sistema dell’arte, si rivela giusta la scelta di presentare le opere senza ordine cronologico, componendo dei racconti per immagini in cui gli universi fantastici e ossessivi degli autori dialogano liberamente tra loro.


Ferdinand Cheval, il Palazzo ideale di Hauterives, in Francia (1879-1912).


Patrick Gimel, Senza titolo (1981); come le opere delle pagine successive si trova a Losanna, Collection de l’Art Brut.

La scelta è di presentare le opere senza ordine cronologico, componendo dei racconti per immagini


Una creatività strabordante, che ha trovato accoglienza nella Biennale di Venezia del 2013 che, non a caso, si è lasciata ispirare dal Palazzo enciclopedico di Martino Auriti per evocare la capacità dell’arte di generare nuovi mondi. Non sorprende che sia proprio la casa, l’architettura, nell’universo dell’Art Brut, un motivo ricorrente e suggestivo, proprio per il suo carattere di impossibilità e di desiderio, eternamente frustrato, di trovare un luogo, uno spazio, dove gli autori possano sentirsi realmente accolti. La storia degli artisti outsider parla spesso di costrizione, di reclusione, di marginalità, dove lo spazio detentivo e la strada sono gli argini all'interno dei quali si consumano vite all’insegna dell’esclusione sociale. Ed ecco che per molti di loro lo spazio diventa il luogo in cui esercitare e rivendicare la propria libertà, dando vita a costruzioni, a tratti babeliche, fatte di rigori geometrici o instabili cromie, di prospettive rigorose e visioni bidimensionali, o di installazioni “site specific”, mappando con precisione strade realmente percorse, o spostando nel tempo e nello spazio l’edificazione di palazzi ideali che rimandano ad antiche culture, o a nuovi mondi. 

«Un tratto comune che caratterizza tutte le opere esposte», prosegue Sarah Lombardi, «è la ricerca continua di un altrove. Anche se solo un terzo dei lavori è tridimensionale; per la maggior parte sono disegni, dipinti, arazzi, un dato che lascia ipotizzare che prima ancora di essere disegnata l’architettura è soprattutto pensata. È un fatto mentale. Anche se non mancano eccezioni di autori che hanno dato vita a delle vere installazioni ambientali, basti pensare a Simon Rodia, alle sue torri nella periferia di Los Angeles, che raggiungono gli oltre trenta metri, o alle “anarchitectures” di Richard Greaves in Canada, sorta di capanne che sembrano uscite dai racconti dei fratelli Grimm. O al bizzarro Palazzo ideale in pietra costruito dal postino Ferdinand Cheval a Hauterives, in Francia.


Gregory L. Blackstock, The Huts (2013).

Tutta questa parte è restituita in mostra attraverso fotografie, video, documentari e materiale d’archivio». 

Per molti degli autori l’edificazione della casa è una chiamata. Come accade a Augustin Lesage i cui disegni hanno un’origine medianica e sono la risposta a una voce che profeticamente annuncia: «Diventerai pittore». 

O al più contemporaneo Royal Robertson che si firmerà «Il profeta», inventore di città intergalattiche. In altri casi, la rappresentazione architettonica sembra riannodarsi all’antica arte mnemotecnica in cui ai luoghi è associata la capacità di ricordare. Come avviene nelle opere di John Devlin, in cui la ricostruzione esatta dei palazzi della Cambridge University tiene in vita la sua esperienza giovanile in quella sede, prima che problemi di salute lo costringessero ad abbandonarla. Ugualmente, è attraverso la riproposizione dei luoghi abitati che Yury Titov trattiene la memoria della moglie morta. 

«In generale si tratta di un’architettura principalmente evocata», prosegue Sarah Lombardi, «anche se gli autori si dividono in due grandi categorie: quelli le cui opere sono state ispirate da architetture esistenti che prendono spunto dalla realtà per poi piegarla alle proprie visioni, come Emile Ratier che si rifà alla torre Eiffel riproducendola in legno, o Willem van Genk che propone vedute delle città da lui visitate, o Tsujii Yuii che ripropone graficamente su carta la città fotografata dall’alto, dando vita a precise vedute aeree. La seconda categoria, invece, è rappresentata dagli artisti in cui l’architettura è espressione di desiderio, di proiezioni, che danno vita a rappresentazioni totalmente fantastiche: è il caso di Adolf Wölfli, di Scottie Wilson, di Magali Herrera, di Victorien Sardou e di Paul End, solo per citarne alcuni». 

Per testimoniare la necessità di contaminare l’Art Brut con altre discipline, il 19 marzo - in occasione di una giornata di studio organizzata dalla Collection de l’Art Brut e dal Forum dell’architettura di Losanna -, architetti ed esperti di installazioni ambientali d’Art Brut dialogheranno insieme, cercando punti di contatto tra i diversi creatori di spazi, con la convinzione che la stessa architettura sia una questione di visioni, se non di fantasie, che dal foglio si trasmettono allo spazio costruito.


Helmut Nimczewski, Senza titolo (1991).

Jacqueline Fromenteau, Senza titolo (senza data).


Marie-Rose Lortet, Maison de fils: auvent, (1984).


Émile Ratier, Senza titolo (senza data).

Biennale de l’Art Brut. Architectures

a cura di Pascale Marini-Jeanneret
Collection de l’Art Brut
Losanna, 11 avenue des Bergières
fino al 17 aprile 2016
orario 11-18, lunedì chiuso
telefono 0041 213152570
www.artbrut.ch

ART E DOSSIER N. 330
ART E DOSSIER N. 330
MARZO 2016
In questo numero: VENEZIA DOCET Un pittore per il re d'Etiopia; La maniera veneta; Il libro e la pittura; L'oriente di Zecchin. PALMIRA I ritratti sopravvissuti allo scempio. IN MOSTRA Schiavone, Manuzio, Giardini, Art Brut.Direttore: Philippe Daverio