Alvise,lo sperimentAtore

Più sfaccettata e inquieta la figura di Alvise. Formatosi nella bottega e al seguito del padre e, con particolare attenzione, dello zio Bartolomeo,

egli mostra sin dagli esordi una certa insofferenza nei confronti dei moduli affermati dall’impresa famigliare anche se è indubbio che le sue prime prove denunciano chiaramente le loro radici: Andrea Mantegna innanzi tutto, anche se il mantegnismo di Bartolomeo appare tuttavia liberato dall’eccesso di durezze grafiche e volumetriche troppo forzate, che ora lasciano il posto a una sottolineatura patetica insistita e sognante in forma di figure allungate e flessuose, disarticolate e languide. Ne è un esempio eloquente il San Giovanni Battista della collezione Tyssen a Madrid. 

Ma anche il Polittico di Montefiorentino (1476, Urbino, Galleria nazionale), il Cristo portacroce dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia e il Cristo passo-Uomo dei dolori di recente rinvenimento presso l’Istituto della Pietà a Venezia dimostrano la personalità marcata e originale di Alvise. Egli era nato alcuni anni prima o alcuni dopo il 1450 e aveva iniziato a firmare appunto nel 1476 (polittico francescano di Montefiorentino, nelle Marche) ma è in questi anni a ridosso del 1480 che egli ha già messo le basi e le ha consolidate per una propria personalissima affermazione. 

Accanto alla lezione di Mantegna mediata dall’esempio dello zio, in Alvise lavorano altre suggestioni e altre importanti acquisizioni culturali: esse si possono riassumere nel magistero di Antonello da Messina (a Venezia, come s’è visto, nel 1475-1476) e nell’esempio luminoso della pittura di Giovanni Bellini che veniva in questi anni articolando e arricchendo le sue esperienze e portando ai livelli più alti di maturità e consapevolezza il suo pensiero e la sua arte.


Alvise Vivarini, Santo vescovo tra Lodovico di Tolosa e san Francesco (1478-1480 circa); Bergamo, Accademia Carrara.


Alvise Vivarini, San Giovanni Battista (tardi anni Settanta del XV secolo); Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

Pur suggestionato e conquistato da queste contiguità e da questi confronti, Alvise appare tuttavia in grado di resistere alla tentazione - che dovette essere assai forte - di farsi seguace del grande Giambellino per proseguire la sua ricerca su un piano per certi versi alternativo, anche se non contrapposto, al terreno belliniano e alla sua straordinaria lezione atmosferica e coloristica di pittura tonale. 

Non c’è dubbio che il più alto capolavoro di questa prima importante fase della sua produzione sia la pala per la chiesa di San Francesco di Treviso, una delle opere più raffinate ed enigmatiche di tutta la pittura dell’ultimo quarto del Quattrocento. Potremmo accostare questa pala ad alcuni dei capolavori di Bartolomeo come il polittico di Santa Maria Formosa o la stessa Pala di San Nicola a Bari per misurare tutta la distanza che in appena tre o quattro anni si è interposta tra la pittura dello zio e quella del nipote, che pur non rinnega i caratteri della scuola e della bottega di famiglia. 

Infatti la stessa cifrata preziosità del disegno, le stesse parlanti anatomie di ascetici digiunatori, le sublimi espressioni estatiche di monache e anacoreti, le mani affusolate e nervose, le occhiaie scavate, le capigliature a bioccoli corposi e morbidi, le barbe a ciuffi magnificamente disegnati; soprattutto la linea forte, marcata, spesso ripassata in nero attorno alle figure: tutto ciò rappresenta quasi la negazione programmatica, ribadita nel concreto delle tavole, della pittura atmosferica, dell’incipiente tonalismo belliniano (e, poi, giorgionesco). 

La pala francescana di Treviso può considerarsi il punto più alto della parabola artistica di Alvise nella sua prima maniera - con la sua straordinaria concentrazione estetica, etica e spirituale, con l’impareggiabile distillazione linguistica, con scelte cromatiche sobrie e velate di estrema eleganza -: se tutto questo, quindi, traccia in termini incontestabili un risultato clamoroso oltre che in piena sintonia con la particolare tensione riformatrice e ascetica del mondo dell’osservanza mendicante, Alvise pare possedere piena coscienza dell’impossibilità di procedere “oltre” su questo piano, quindi della evidente indifferibilità del suo cambio di rotta. I quattro santi francescani (Francesco, Antonio, Bernardino e Ludovico da Tolosa) e la Sacra famiglia allargata (Vergine e putto, Anna e Gioacchino) sono disposti sullo sfondo di un pesante tendone verde cupo oltre il quale, con indubbio effetto di scenograficità teatrale, si apre una bifora da cui si scorge un cielo parzialmente nuvoloso. Nello spazio centrale di questa parete si alza, fino a superare la centinatura delle finestre, il trono della Vergine poggiato su un doppio basamento in marmo. Lo schienale del trono minuziosamente lavorato e dotato di un tipico fastigio mistilineo è una esplicita citazione scultorea e architettonica lombardesca.


Alvise Vivarini, Cristo passo- Uomo dei dolori (1478-1480); Venezia, Istituto Santa Maria della Pietà. La tela si presenta oggi come un lavoro composito. La figura centrale di Cristo è sicuramente di Alvise. A questa parte sono state successivamente aggiunte alla metà del Cinquecento le due ali con le figure degli angeli ed è stato rimaneggiato il braccio della croce e i chiodi. Ciò per restaurare e integrare un dipinto gravemente deteriorato. Chi ha fatto la scoperta dell’opera ha di recente proposto come autore dell’integrazione, basandosi su ragioni interne ed esterne al dipinto, il giovane Jacopo Tintoretto (Sandro Sponza, 2001).

Alvise Vivarini, Polittico di Montefiorentino (1476); Urbino, Galleria nazionale delle Marche.


Alvise Vivarini, Cristo portacroce (anni Ottanta del XV secolo); Venezia, Santi Giovanni e Paolo.

Ma le novità del capolavoro francescano di Alvise sarebbero risultate ancor più clamorose; le analisi riflettografiche eseguite dalla Soprintendenza hanno rivelato infatti che le due finestre a fianco del trono non erano così incongruamente tagliate e ridotte a poco più che lunette, come oggi ci appaiono, ma scendevano in basso a sfondare con clamore inusitato la parete di fondo aprendo su un paesaggio i cui caratteri possiamo solo immaginare, ma i cui effetti, sul piano pittorico, sarebbero stati di ineguagliata e rivoluzionaria originalità. Situazione che possiamo vedere realizzata, su altra scala, nella Madonna adorante Gesù Bambino della chiesa della Bragora. 

Il volto della Vergine nella Pala di San Francesco ha evidenti caratteri antonelleschi e belliniani ed è atteggiato a pacata e quasi sofferta accettazione del provvidenziale, benché doloroso, disegno divino, oltre che dalla consapevolezza della sua stessa e somma prerogativa di grande mediatrice di salvezza. 

Quanto agli equilibri compositivi, si deve osservare che al braccio destro della Vergine corrisponde quello sinistro di Francesco, mentre quello destro di Francesco appare simmetrico al destro di Antonio. Ma è, più in generale, il gioco delle mani elegantissimo e sapiente a tracciare la trama di una impaginazione complessa e ritmata come un balletto: dalla destra di Gioacchino che si toglie con deferenza il berretto alla destra di Antonio che regge il giglio con delicatezza incomparabile (gesto che ritroviamo, pressoché identico, nella tavoletta devozionale del Museo Correr); da Bernardino, che mostra il tradizionale trigramma, alle mani giunte e materne di Anna, a quelle inguantate e liturgiche di Ludovico si misura l’impareggiabile lezione di quel che è forse, qui, il più aristocratico ed etereo dei pittori del nostro primo Rinascimento.


Alvise Vivarini, Pala di San Francesco a Treviso (Sacra conversazione) (1480); Venezia, Gallerie dellÕAccademia.


Alvise Vivarini, Madonna adorante Gesù Bambino (metà anni Ottanta del XV secolo); Venezia, San Giovanni in Bragora.

L’affermazione di questo dipinto è assoluta, ma Alvise sa rinunciare anche ai caratteri più qualificanti e fondativi della sua arte di fronte alla bruciante esperienza di quel che viene elaborato o portato a Venezia dai maestri di una generazione estranea e lontana dal crogiolo della cerchia famigliare della sua bottega. Alcuni nomi già li abbiamo evocati, altri non possono essere sottaciuti: Lorenzo Lotto prima di ogni altro, tanto da far ipotizzare un suo alunnato vivariniano. Ancor più consistenti le contiguità con Jacopo de’ Barbari, suo presunto allievo, e con Marco Basaiti, che di certo gli è accanto cosi che la grande e monumentale Pala di sant'Ambrogio per l’altare della cappella dei Milanesi nella basilica dei Frari dichiara fin nel cartiglio la doppia paternità. 

La vita e la produzione pittorica di Alvise si fanno allora più concitate, la committenza ereditata a bottega chiede nuove performance e appare disposta ad accettare le novità tutt’altro che scontate che portano l’artista verso spiagge sconosciute, verso un linguaggio quasi ascetico, scavato, intellettualistico, sommamente cifrato. Egli ribadisce il suo credo antonellesco anche allorché recupera dal proprio bagaglio giovanile la cifra mantegnesca e la fa convivere con una accentuazione della più elegante delle formalizzazioni pre-manieriste (come nei Due santi, Matteo e Giovanni Battista, delle Gallerie dell’Accademia provenienti dalla chiesa domenicana di San Pietro Martire di Murano) ovvero con riprese forse meno ispirate e quasi svogliate dei modi della bottega (come nel ritardatario Polittico della Pentecoste di Berlino) ovvero in certi polittici dall’aria rétro per committenti del territorio bergamasco. 

Poi Alvise imprime un’accelerazione apparentemente impensabile alla sua ricerca e al suo linguaggio: il gruppo di opere “finali” della carriera dell’artista dà vita a una straordinaria galleria di capolavori. 

Problematici, affascinanti, discontinui, addirittura inquietanti essi hanno costituito per la critica d’arte da un secolo e mezzo a questa parte un enigma di difficile soluzione. Nel magma inquieto di Alvise, mentre viene abbandonata quella ieraticità contemplativa e contemplante che aveva informato di sé la pittura della bottega muranese, confluiscono e vengono assimilati un nuovo interesse per Antonello e Giovanni Bellini, come nella Pala di Belluno (già a Berlino e distrutta alla fine della seconda guerra mondiale), ovvero come nei - pochi - ritratti di matrice decisamente antonellesca; la ricerca eccentrica di de’ Barbari; le anatomie alla maniera classica di Perugino; spunti dal paesaggismo cimesco e forse un’attenzione alla pittura di soggetto religioso di Carpaccio. I due testi capitali dell’Alvise “secondo” restano tuttavia il Cristo risorto della chiesa della Bragora e la Sacra conversazione di Amiens.


Alvise Vivarini, San Giovanni Battista e san Matteo (fine anni Settanta del XV secolo); Venezia, Gallerie dell'Accademia.


Alvise Vivarini, Cristo risorto (1497-1498); Venezia, San Giovanni in Bragora.

Per il Risorto si è sempre - e a ragione - parlato di un esplicito influsso peruginesco nel linguaggio del nostro Alvise, e non è chi non veda relazioni e contiguità tra questo “atleta” e alcuni Sebastiani e Battesimi e Risorti e Flagellazioni (agli Uffizi, al Louvre, Washington e così via) dell’umbro. Anatomie morbidamente e classicamente modellate, torsioni delle anche e del capo, postura delle gambe, dinamismo esplicitato e quindi trattenuto. D’altra parte, come ben si sa, la presenza di Perugino a Venezia è certa e documentata, visto che egli fu ingaggiato per una delle tele nella Scuola di San Giovanni Evangelista realizzata nel 1495-1497, purtroppo andata distrutta dal fuoco. Ancora una volta, dopo Antonio e Bartolomeo, un Vivarini mostra attenzione del tutto particolare per l’attività degli artisti toscani e centro-italiani e recepisce e mette in circolo aspetti non marginali di quelle scuole anche a Venezia e nei territori della Repubblica o ad essa legati (come l’Abruzzo e la Puglia). 

Se molta della pittura di Antonio Vivarini era stata protagonista quasi assoluta della prima fase del toscanismo tra Padova e Venezia, come s’è visto, mutati i tempi e i protagonisti, tale attitudine è fatta propria da Alvise tanto che il Cristo risorto della chiesa della Bragora ne è indubbiamente più che una tappa, forse addirittura il provvisorio punto d’arrivo. 

Al di là del modellato del corpo e di una originale e cristallina luminosità aurorale, vi è in questa tavola la rottura esplicita della a-storicità delle sacre conversazioni o, se si preferisce, l’irruzione di un tempo narrativo, cioè di una storia colta nel suo farsi che riesce a scuotere i vincoli e i limiti della stessa compitezza del linguaggio pittorico. Siamo quindi andati al di là delle barriere invisibili ma tenaci delle sacre conversazioni per giungere quasi al dinamismo concitato e teatrale di una rappresentazione sacra. I due soldati in atto di fuga e di auto-protezione dalla abbacinante luminosità del Risorto ne sono la più efficace ed esplicita enunciazione: il loro agitarsi spontaneo, i loro volti scorciati, le mani protese e i capelli al vento sullo sfondo di un tipico paesaggio alvisiano con le anse del fiume, le colline e il nucleo abitato di Gerusalemme. Qui e ora si srotola il tempo storico dell’evento sovrannaturale ed entra in relazione e si contamina con la storia degli uomini.


Alvise Vivarini, San Girolamo nel deserto (1476-1477 circa); Bergamo, Accademia Carrara. è uno dei dipinti giovanili di Alvise di maggior qualità e fascino. Gli elementi che lo compongono sono tasselli di straordinaria intensità resi in una pittura raffinata, precisa, quasi miniaturistica. Ma è il paesaggio a imporsi su tutto: la valle e il fiume a perdita d’occhio sono un brano di pura poesia che risente delle conquiste di Giambellino ma a sua volta influenzerà non pochi dei pittori immediatamente successivi, a cominciare dal Lotto.

La Sacra conversazione di Amiens rovescia a sua volta un altro caposaldo; anzi, scardina in radice gli equilibri e i generi pittorici. Un gruppo di persone si dispone attorno al Bambin Gesù in una sorta di moto circolare sullo sfondo di un paesaggio pedemontano; ogni personaggio appare intento a stabilire un proprio ed esclusivo rapporto con l’infante: Pietro gli porge le chiavi del Regno, Girolamo in primo piano, immerso in una lettura assorta e disvelatrice delle Scritture, scorge in esse l’annuncio del destino salvifico del fanciullo; Maria Maddalena offre il flacone dorato dell’unguento che verserà sui piedi di Gesù e in cui si prefigura la sua morte e resurrezione. Il santo vescovo, infine, fissa intensamente il suo sguardo in quello del Bambinello: in questo sguardo è probabilmente rinserrato il mistero del dipinto. Infatti l’ordine monastico del vescovo (che veste appunto l’abito di una famiglia religiosa) ci rivelerebbe a ben vedere la committenza e, quindi, l’origine dell’opera. Se si tratta, come è assai probabile, di Agostino - che assumerebbe qui una raffigurazione fisiognomica piuttosto insolita ma che significativamente veste sotto il piviale ricamato l’abito nero degli agostiniani - ne uscirebbe ribadito il legame tra l’atelier Vivarini e quest’ordine, già ben presente in Antonio e Giovanni d’Alemagna a partire dalle storie di santa Monica per la chiesa veneziana agostiniana di Santo Stefano. Il dipinto è sconcertante nella sua audacia compositiva: è vero che la Vergine occupa, secondo tradizione, il vertice della ideale piramide centrale, ma è altrettanto vero che la disposizione dei comprimari è insolita - e soprattutto di Girolamo e della Maddalena - così come sorprende l’atteggiamento ludico del capo degli apostoli. Insomma: pare di trovarsi di fronte più a una sorta di sacro “déjeuner sur l’herbe” o, al più, di un affollato riposo (dalla fuga in Egitto) che a una sacra conversazione, anche se, come si è detto, tutta una serie di indizi portati dai santi schierati inducono a leggere, in linea con il metodo allegorico, il rebus cifrato delle prefigurazioni davanti a Gesù infante del suo futuro destino nel disegno di salvezza. 

Al di là dei simboli, ci troviamo davanti a una pittura di sorprendente qualità e freschezza, capace di morbidità di linee, di intrecci tra le figure, di molteplicità di sguardi e di scorci inediti: e ciò senza che Alvise rinunci a nessuna delle caratteristiche della sua scrittura. Volumi, luci, trattamento plastico delle anatomie e delle masse, pienezza cromatica: egli poteva ben a ragione sottoscriversi e presentarsi come un maestro nella sua generazione. 

Un altro dato a suo modo sorprendente può essere letto nel gusto di Alvise per il paesaggio. E non si tratta del celeberrimo e giustamente decantato vedutismo paesistico dei sublimi fondali di Giambellino o di Cima da Conegliano e dello stesso Giorgione, impreziositi dalle ricorrenti e talvolta misteriose comparse di brani ritagliati dal vero dei colli pedemontani tra Asolo e Castelfranco, tra le colline attorno a Conegliano e le prime balze del Cadore. I paesaggi di Alvise si sviluppano secondo percorsi della memoria, secondo “visioni” in cui la precisione del dettaglio conferisce credibilità a plaghe sognate in cui le anse dei fiumi, il luccichio delle acque, qualche filare di vigna, macchie d’alberelli, tracce di mura diroccate rimbalzano stati d’animo, ne sottolineano la sofferenza, ne amplificano l’eco, s’ergono in rocce scoscese e digradano in pianure luminose con ritmo lento, sinuoso, ammiccante e sognante, in lacrime di una pena pacata e liquida, sorpresa di sé e della sua non contenibile effusione.


Alvise Vivarini, Madonna in trono (1483); Barletta, Sant’Andrea.

Quale sarebbe stata l’evoluzione del percorso di Alvise se egli avesse potuto continuare il suo lavoro ancora per qualche lustro, è difficile dire. Certo non nel senso della linea Bellini-Giorgione-Tiziano, viste le premesse e le decise scelte della stagione di cui si è ragionato. 

Creighton Gilbert abbozza nel suo stimolante saggio del 1956 Alvise e compagni una sorta di proiezione futura per il magistero di Alvise Vivarini: da Jacopo de’ Barbari a Marco Basaiti, da Bartolomeo Montagna addirittura a Cima da Conegliano ma, soprattutto, a Lorenzo Lotto e Girolamo Savoldo. Il ragionamento del critico non è né lineare né forse del tutto coerente (anche perché il tono colloquiale rivela che ci troviamo di fronte a una infelice trascrizione di una conferenza) e procede per paradossi e qualche azzardo attributivo; ma getta, sul tema di Alvise e dei suoi presunti allievi e seguaci, uno sguardo in avanti balenante come una rivelazione e ardimentoso come una sfida e contiene più verità e suggerimenti di quanto potrebbe a prima vista apparire. Soprattutto sembra volersi e potersi sottrarre, con una sorta di arguta “mossa del cavallo”, alla costrizione dell’alternativa secca Bellini/Vivarini, tutta a favore dei primi, che destinava l’apparente dimensione conservatrice dei secondi a una sparizione assai repentina: teoria che «attrae per la sua semplicità, ed è stata anche simpatica, penso, nei tempi positivisti [...] per la suggestione che contiene di un progresso continuo verso il presente». In questo senso il magistero di Alvise Vivarini - tra balzi in avanti e arretramenti, ripensamenti e rinunce - non solo rivela l’influsso esercitato su coetanei e seguaci di grande e grandissima statura e qualità, ma addita l’apertura a strade diverse e non meno ricche di possibilità e di sviluppi rispetto alla linea vincente del tonalismo belliniano-giorgionesco impostosi, di fatto, nella pittura veneziana del primo Cinquecento. Insomma: è esistita, se pur non tematizzata e ancor meno organizzata in corrente, una alternativa robusta e tormentata alla marcia trionfale della pittura del Cinquecento veneto: «gli alviseschi», dice Creighton Gilbert con arguzia, «non entrano in casa né dell’uno [Antonello] né dell’altro [Tiziano]. Conservatori ostinati, insistono senza tregua sulla figura, indipendente, separata, eroe [= eroica]. Però non sono nemmeno semplici ritardatari. Capiscono bene i valori del nuovo e fresco mondo». La componente lombarda (aleggiando su di loro anche il magistero inattingibile di Leonardo) appare forse una delle ragioni esplicative di tale declinazione ostinata, realistica e sorprendentemente vitale dell’alvisismo «che sarà ereditata da Caravaggio». Affermazione spericolata e provocatoria, ma Gilbert ha però avuto il merito di sapersi sottrarre alla marea montante della ammorbante critica di regime (quello dell’arte veneta) e alle lusinghe di una letteratura artistica troppo spesso emozionale, retorica e fumosa. 

Stroncato da morte improvvisa (come recitava l’iscrizione latina apposta da Marco Basaiti - che completò l’opera - alla Pala di Sant'Ambrogio ai Frari) Alvise lascia però interrotto il suo percorso e senza risposta le nostre domande sulle sue possibili - misteriose - scelte future.


Alvise Vivarini (e Marco Basaiti), Pala di sant’Ambrogio (1503); Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari.


Alvise Vivarini, Sacra conversazione (1500); Amiens, Musée de Picardie.

I VIVARINI
I VIVARINI
Giandomenico Romanelli
Un dossier dedicato ai Vivarini. In sommario: Antonio, il capostipite; Bartolomeo, l'affermazione di una scuola; Alvise, lo sperimentatore. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.