La Sacra conversazione di Amiens rovescia a sua volta un altro caposaldo; anzi, scardina in radice gli equilibri e i generi pittorici. Un gruppo di persone si dispone attorno al Bambin Gesù in una sorta di moto circolare sullo sfondo di un paesaggio pedemontano; ogni personaggio appare intento a stabilire un proprio ed esclusivo rapporto con l’infante: Pietro gli porge le chiavi del Regno, Girolamo in primo piano, immerso in una lettura assorta e disvelatrice delle Scritture, scorge in esse l’annuncio del destino salvifico del fanciullo; Maria Maddalena offre il flacone dorato dell’unguento che verserà sui piedi di Gesù e in cui si prefigura la sua morte e resurrezione. Il santo vescovo, infine, fissa intensamente il suo sguardo in quello del Bambinello: in questo sguardo è probabilmente rinserrato il mistero del dipinto. Infatti l’ordine monastico del vescovo (che veste appunto l’abito di una famiglia religiosa) ci rivelerebbe a ben vedere la committenza e, quindi, l’origine dell’opera. Se si tratta, come è assai probabile, di Agostino - che assumerebbe qui una raffigurazione fisiognomica piuttosto insolita ma che significativamente veste sotto il piviale ricamato l’abito nero degli agostiniani - ne uscirebbe ribadito il legame tra l’atelier Vivarini e quest’ordine, già ben presente in Antonio e Giovanni d’Alemagna a partire dalle storie di santa Monica per la chiesa veneziana agostiniana di Santo Stefano. Il dipinto è sconcertante nella sua audacia compositiva: è vero che la Vergine occupa, secondo tradizione, il vertice della ideale piramide centrale, ma è altrettanto vero che la disposizione dei comprimari è insolita - e soprattutto di Girolamo e della Maddalena - così come sorprende l’atteggiamento ludico del capo degli apostoli. Insomma: pare di trovarsi di fronte più a una sorta di sacro “déjeuner sur l’herbe” o, al più, di un affollato riposo (dalla fuga in Egitto) che a una sacra conversazione, anche se, come si è detto, tutta una serie di indizi portati dai santi schierati inducono a leggere, in linea con il metodo allegorico, il rebus cifrato delle prefigurazioni davanti a Gesù infante del suo futuro destino nel disegno di salvezza.
Al di là dei simboli, ci troviamo davanti a una pittura di sorprendente qualità e freschezza, capace di morbidità di linee, di intrecci tra le figure, di molteplicità di sguardi e di scorci inediti: e ciò senza che Alvise rinunci a nessuna delle caratteristiche della sua scrittura. Volumi, luci, trattamento plastico delle anatomie e delle masse, pienezza cromatica: egli poteva ben a ragione sottoscriversi e presentarsi come un maestro nella sua generazione.
Un altro dato a suo modo sorprendente può essere letto nel gusto di Alvise per il paesaggio. E non si tratta del celeberrimo e giustamente decantato vedutismo paesistico dei sublimi fondali di Giambellino o di Cima da Conegliano e dello stesso Giorgione, impreziositi dalle ricorrenti e talvolta misteriose comparse di brani ritagliati dal vero dei colli pedemontani tra Asolo e Castelfranco, tra le colline attorno a Conegliano e le prime balze del Cadore. I paesaggi di Alvise si sviluppano secondo percorsi della memoria, secondo “visioni” in cui la precisione del dettaglio conferisce credibilità a plaghe sognate in cui le anse dei fiumi, il luccichio delle acque, qualche filare di vigna, macchie d’alberelli, tracce di mura diroccate rimbalzano stati d’animo, ne sottolineano la sofferenza, ne amplificano l’eco, s’ergono in rocce scoscese e digradano in pianure luminose con ritmo lento, sinuoso, ammiccante e sognante, in lacrime di una pena pacata e liquida, sorpresa di sé e della sua non contenibile effusione.