Il fiorire degli studi sull’alchimia, soprattutto negli ultimi anni, ha generato una sterminata mole di scritti che, nonostante tutti gli sforzi, non sono ancora riusciti a esaurire la complessità interpretativa della materia(1). È risaputo inoltre quanto il fascino esercitato dall’“Arte” abbia contagiato anche i grandi nomi della storia: celebri sono le annotazioni alchemiche di Newton; visionari gli scritti del premio Nobel William Butler Yeats dedicati all’arte della trasmutazione; acute e inquietanti le ricerche condotte da Jung sugli archetipi alchemici. La lista potrebbe essere lunghissima e anche nel campo delle arti figurative si spazia da nomi come Lorenzo Lotto e Parmigianino a Mantegna, tutti in qualche modo accomunati dalla stessa esoterica passione.
Non stupisce dunque che anche Jeroen Anthoniszoon van Aken, meglio conosciuto come Hieronymus Bosch (1450 circa - 1516) potesse in una certa misura rimanervi imbrigliato. L’esasperata visionarietà e l’uso ridondante del simbolismo rendono le sue opere complesse quasi quanto un testo alchemico e perfettamente passibili di un’interpretazione psicanalitica. Accanto al problema del male, filo conduttore di molti suoi lavori, che si materializza con l’impatto visivo suscitato dalle metamorfosi mostruose dei soggetti, si dipana anche quello della ricerca ermetica. Bosch gioca con l’alchimia in modo ambiguo, sia condannandola apertamente, sia facendoci partecipi delle sue conoscenze in modo più distaccato e neutro, disseminando comunque in molte opere (Trittico del giardino delle delizie, Trittico degli eremiti, Trittico del Giudizio di Bruges, Trittico del Giudizio di Vienna) concetti chiave dell’arte alchemica come l’uovo filosofico (simbolo della materia o del vaso in cui si pone per lavorarla), l’unione degli opposti principi, gli incendi (fuoco per la cottura) o le navi (allegoria della ricerca).
Per comodità di analisi mi soffermerò sulle sue due opere più rappresentative.
Nel Trittico degli eremiti (1495-1505 circa) e in particolare nella tavola centrale con san Girolamo, l’antagonismo fra la dottrina cristiana e quella esoterico-alchemica appare evidentissimo: al santo in meditazione davanti al crocifisso è contrapposta la meditazione dell’alchimista sulla (o meglio “nella”) sua opera. L’identificazione con un “athanor”(2) del curioso oggetto cilindrico presente sulla sinistra della tavola non lascia dubbi, soprattutto considerando l’aiuto interpretativo fornitoci dall’artista con la raffigurazione del Sole e della Luna (opposti fisici e filosofici) contemplati dall’alchimista genuflesso. Ciò che se ne ricava è un dualismo ambiguo: quale delle due meditazioni può considerarsi corretta? E se fossero complementari? Oltretutto il rilievo del trono raffigura un uomo che si getta in un alveare: il miele, tenendo conto del messaggio esplicitato da Bosch con l’immagine dell’alchimista, è facilmente assimilabile al mercurio e all’idea dell’unione mistica del filosofo con la sua opera. Perché san Girolamo pregherebbe proprio sopra una tale immagine?