Grandi mostre. 3
A Genova, i capolavori del Detroit Institute of Arts

TRa cRisi
e bellezza

A volte le circostanze impongono delle scelte difficili. Alla città di Detroit è accaduto di dover scegliere tra privarsi di un patrimonio di opere d’arte messo insieme nel corso di un secolo o trovare altre strade per uscire da una gravissima crisi finanziaria. La scelta della città ha salvato il museo, e una parte di quelle opere è ora in Italia a testimoniare l’avvedutezza di chi quella collezione l’ha costruita e di chi l’ha difesa.

Claudio Pescio

Ache servono le vituperate mostre che si intitolano da... a...? Spesso solo a fare da vetrina a capolavori messi in fila lungo un percorso privo di senso. A volte, però, come in questo caso - la mostra si intitola Dagli impressionisti a Picasso -, servono a riflettere su come e perché nasce una collezione, a che cosa pensavano coloro che l’hanno messa insieme, che impatto ha avuto sulla cultura del luogo in cui è stata costituita, come è vissuta e come ha evitato di morire. Quest’ultima impresa è la più recente e forse la più impegnativa tra quelle affrontate dal museo di Detroit. E qualche volta - è ancora il caso di questa mostra - servono a richiamare l’attenzione su un ruolo scomparso dalle nostre società, quello del filantropo.

Attraversando le sale di Palazzo ducale, a Genova, se non ci si fa distrarre dalla bellezza dei Picasso, Matisse, Renoir, Degas, Cézanne, Dix, Kirchner, Modigliani, Bonnard, Van Gogh, Monet, si può riflettere su tutte queste cose e ripercorrere una storia affascinante.

Nel 2013 la città di Detroit, Michigan, fa bancarotta. Il debito dell’amministrazione pubblica sfiora i venti miliardi di dollari. La città che nel 1904 mise al mondo la Model T progettata da Henry Ford, la “Motown” di General Motors e Chrysler, quella con la maggiore crescita industriale degli Stati Uniti, la città della Motown Records, del blues e di Madonna, è ormai stremata e spopolata da decenni di crisi dei consumi e dell’auto in particolare, dalla criminalità organizzata e dalle tensioni sociali. I servizi pubblici hanno smesso di funzionare, le ambulanze sono un terzo del necessario, un terzo dei cittadini vive sotto la soglia di povertà.

Che fare? Qualcuno, fra le autorità, si guarda intorno e vede la soluzione: il commissario straordinario propone di vendere le opere della collezione del Detroit Institute of Arts, il DIA. Sessantamila pezzi - molti dei quali difficili anche da stimare a prezzi di mercato - tra Van Eyck, Rembrandt, Rodin, Van Gogh (l’Autoritratto che vediamo alla mostra di Genova è valutato tra i cento e i centocinquanta milioni di dollari, è il primo autoritratto dell’artista che sia stato acquistato da un museo), Renoir, Picasso, Matisse, Moore...

Era stata proprio e soprattutto la vocazione filantropica degli imprenditori americani a dare inizio e poi consistenza alle collezioni


Fortunatamente per il museo (e in seguito alle proteste dei cittadini), la soluzione è arrivata da altre fonti: investimenti statali, incentivi all’immigrazione - soprattutto della American Alliance of Museums, cui il DIA appartiene, secondo le quali non è consentito pagare debiti pubblici vendendo pezzi delle collezioni.

Edgar Degas, Ballerine nella stanza verde (1879 circa).


Pierre-Auguste Renoir, Bagnante seduta (1903-1906).

Come ci racconta uno dei curatori della mostra - Salvador Salort-Pons, da poco diventato direttore del museo -, a evitare altri agguati sono intervenute alcune associazioni filantropiche che hanno messo a disposizione trecentotrenta milioni di dollari, pagando così una parte dei debiti dell’amministrazione cittadina sul fronte pensionistico e ottenendo di mettere in salvo il museo trasformandolo in un’inattaccabile fondazione non-profit indipendente. Altri fondi sono arrivati dal “fund raising” e dall’amministrazione pubblica, con una tassa temporanea sulle abitazioni, e la situazione appare ora stabilizzata.


Pablo Picasso, La bottiglia di Anis del Mono (1915).


Amedeo Modigliani, Ritratto di donna (1917-1920).


Vincent van Gogh, Autoritratto (1887).

La soluzione è in realtà strettamente imparentata con la costruzione del museo stesso. Infatti era stata proprio e soprattutto la vocazione filantropica degli imprenditori americani (vocazione, va detto, molto facilitata dalla favorevole legislazione fiscale statunitense) a dare inizio e poi consistenza alle collezioni, che vanno dall’arte egizia al contemporaneo. Il museo era nato nel 1885 dalla scelta di alcuni facoltosi cittadini di dotare Detroit di un museo d’arte sul modello di quelli delle città europee; l’intento era di far conoscere agli americani le ultime novità dell’arte del Vecchio continente; una grande innovazione, se si tiene conto che i musei dell’epoca avevano l’obbligo di non acquistare opere che avessero meno di settantacinque anni.

Nel 1919 l’istituzione passa alla città di Detroit e nel 1927 si trasferisce in una nuova sede nella Woodward Avenue. Nel 1932-1933 (in piena Grande depressione; e proprio in reazione alla crisi, nel nome del New Deal che puntava a creare lavoro tramite opere pubbliche) alcune pareti del museo furono rivestite dai grandiosi murales di Diego Rivera dedicati alla Detroit Industry, criticatissimi al tempo per la visione marxista dei rapporti interni alla produzione industriale ma sostenuti e pagati da un industriale amante dell’arte, Edsel Ford. Nel corso del tempo, le donazioni sono arrivate da altri magnati del ramo auto, come Firestone e Dodge, del commercio come Robert Tannahill o della carta stampata come James Scripps. E la qualità degli acquisti è stata garantita da studiosi e consulenti illuminati come Clyde Borroughs e Willem Valentiner.

Una selezione di cinquanta di quelle opere, fino al 10 aprile prossimo, ha trovato posto in Palazzo ducale, a Genova, e ha assunto, per scelta dei curatori e grazie alla lunga durata della mostra, l’aspetto di un allestimento museale, un museo che in Italia non c’è.

Un museo dove possiamo vedere, in un’ideale “sala degli impressionisti”, tre Renoir tra i quali la Donna in poltrona del 1874 e la Bagnante seduta del 1902- 1906, Ballerine nella stanza verde di Degas (1879 circa), Madame Cézanne di Cézanne (1886 circa). Di Van Gogh, oltre al citato Autoritratto del 1887, La sponda dell’Oise a Auvers (1890), una delle sue ultime opere, ormai decisamente oltre l’impressionismo. Matisse è presente, tra l’altro, con il notissimo La finestra (1916) e i Papaveri (1919 circa). Tre sono i ritratti di Modigliani. Importante la componente espressionista: l’incisivo Autoritratto di un giovane Otto Dix (1912), un Paesaggio di montagna al chiaro di luna di Ernst Kirchner (1919), i Girasoli di Emil Nolde (1932). Infine Picasso, con un Arlecchino (1905), La bottiglia di Anis del Mono (1915), la Donna seduta (1960), opera di un artista già quasi ottantenne.


Otto Dix, Autoritratto (1912).

Dagli impressionisti a Picasso.
Capolavori dal Detroit Institute of Arts

a cura di Salvador Salort-Pons e Stefano Zuffi
Genova, Palazzo ducale
fino al 10 aprile
orario 9.30-19.30, lunedì 15-19, venerdì e sabato 9.30-21
telefono 010-9280010; www.impressionistipicasso.it
www.palazzoducale.genova.it
Catalogo Skira

ART E DOSSIER N. 328
ART E DOSSIER N. 328
GENNAIO 2016
In questo numero: DAGLI IMPRESSIONISTI A PICASSO Capolavori dal Detroit Institute of Arts in mostra a Genova. COME TI VESTI DIAVOLO? L'inferno cinese, in frac e cilindro, demoni latini, le corna apotropaiche, il lato oscuro di Giovanni Gastel. IN MOSTRA De Chirico, Lam, El Greco. Direttore: Philippe Daverio