Grandi mostre. 1
Giorgio de Chirico a Ferrara

segni di
profetica follia

Tra il 1915 e il 1918 de Chirico è a Ferrara, per lui crogiolo di antiche culture esoteriche e oracolari, occasione per cogliere gli indizi dell’assurdità di quel primo conflitto mondiale proprio nelle cose più ordinarie. Per la prima volta Palazzo dei diamanti, come ci racconta qui uno dei curatori della mostra in corso, espone i capolavori del periodo ferrarese a confronto con le avanguardie del secolo scorso.

Paolo Baldacci

La mostra in corso a Palazzo dei diamanti è la prima in senso assoluto dedicata solo al periodo ferrarese di de Chirico, che va dalla fine di giugno del 1915 alla fine di dicembre del 1918. Sono gli anni di guerra, che egli trascorse senza essere inviato al fronte, ma vedendo nella frenesia distruttiva che aveva preso l’intera Europa la più grande prova della mancanza di logica che governa le cose del mondo.

Pur tributando un tiepido omaggio di facciata al nazionalismo del fratello Alberto Savinio e a quello ancor più estremista degli amici italiani Ardengo Soffici e Giovanni Papini, de Chirico si rinchiuse nelle sue piccole stanze di scritturale (questa la sua mansione durante il conflitto) e diede vita a un pittura molto diversa da quella del precedente periodo parigino, tutta concentrata a individuare negli oggetti più comuni le tracce di quella «grande pazzia, […] che non appare a tutti [e che] esisterà sempre e continuerà a gesticolare e a far dei segni dietro il paravento inesorabile della materia».

Fatalità, non-senso e mancanza di logica non caratterizzano solo la vita del cosmo e il linguaggio dell’uomo, come indicavano le grandi composizioni metafisiche parigine, ma si annidano fin nelle ultime pieghe e anfratti della materia, ed è questo il motivo per cui la pittura ferrarese è così realistica e minuziosa.


È come se Ferrara diventasse per de Chirico la metafora di un mondo misterioso popolato da forze oscure


Gli “interni metafisici”, che caratterizzano la sua opera fino all’agosto del 1917, sono ambienti angusti e protettivi nei quali si ergono strane costruzioni di assicelle di legno, di squadre, gambe di tavoli, scatole con carte geografiche, tavole anatomiche, ammassi di frattaglie indecifrabili, piani colorati sui quali sono incollati pezzi di dolci, biscotti, cioccolatini e cannoli dalle forme più varie che ingannano l’occhio per il loro croccante realismo. Queste costruzioni misteriose, che avranno un seguito nei cosiddetti Trofei degli anni Venti, sono in realtà delle sculture dipinte. Formalmente hanno un precedente diretto negli assemblaggi lignei di Picasso, oggi distrutti, che Apollinaire pubblicò su Les Soirées de Paris nel febbraio del 1914 e che de Chirico vide anche dal vero. Ma quelli che per Picasso erano pretesti formali - una squadra di legno, un pomolo tornito, una maniglia, un’etichetta di rhum o di curaçao - de Chirico li trasforma in segni carichi di valore simbolico e psichico: vocaboli di un linguaggio magico e scaramantico basato sulla psicologia weiningeriana delle forme geometriche, il triangolo, il cerchio, la retta.

Il grande metafisico (1917).


L’angelo ebreo (1916), New York, Metropolitan Museum of Art.


Il sogno di Tobia (aprile-agosto 1917).

Da queste “sculture dipinte” di de Chirico, che culmineranno nel 1917 nel Grande metafisico, ambientato nello spazio aperto di una grande piazza ferrarese, derivano a loro volta gli assemblaggi dadaisti fatti di materiali di scarto e soprattutto le costruzioni Merz di Kurt Schwitters. Il movimento dadaista, col quale de Chirico e Savinio furono in contatto, muove i primi passi in quegli anni a Zurigo, ma, al di là delle apparenze, si distingue radicalmente dalla Metafisica, che alla visione pessimista, schizofrenica e distruttiva del dadaismo oppone una contemplazione intellettuale, classica, ironica e distaccata, del caos dell’universo e lancia un messaggio “evangelico” di redenzione che si realizza attraverso la poesia e l’arte. Molti titoli di opere ferraresi alludono a questo riscatto: le due Nature morte evangeliche del 1916 e del 1917, L’angelo ebreo del 1916 e Il sogno di Tobia (aprile-agosto 1917). È come se Ferrara diventasse per de Chirico la metafora di un mondo misterioso popolato da forze oscure i cui messaggi gli giungono dalle vetrine dei piccoli negozi del ghetto, dai cimiteri israelitici e dai bassorilievi istoriati con animali araldici e motti indecifrabili, dalle simbologie zodiacali di Schifanoia e dalle torri del Castello estense, testimoni di antiche tragedie ma anche sede ospitale dell’osservatorio del famoso «astronomo Bongiovanni», un meteorologo che divenne un protagonista simbolo della “mitologia ferrarese” di de Chirico, che paragonava lo studio del pittore metafisico alla «cabina del portolano» o all’«osservatorio astronomico» dove si scrutano le nuove costellazioni.

Dentro Ferrara, nella sua storia e nella sua cultura, de Chirico vede convergere e convivere le antiche culture esoteriche e oracolari mediterranee che dai caldei agli egizi, da Israele agli etruschi e ai romani avevano affinato la sensibilità degli individui superiori capaci di dominare le forze fatali e inconoscibili dell’universo.


Salvador Dalí, Gradiva ritrova le rovine antropomorfe (fantasia retrospettiva) (1931-1932), Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

L’“uomo”, nella sua breve vita, è sottoposto a un destino incontrollabile che lo rende simile a uno strumento della grande pazzia dell’universo


Le muse inquietanti, arcaici simulacri che inalberano i segni della follia profetica, sono le vestali che si ergono a guardia dello scrigno misterioso rappresentato dalla città sul fondo.

Ma prima di suggellare con questo capolavoro, nel maggio del 1918, la sua esperienza ferrarese de Chirico aveva dipinto la serie dei grandi manichini che ha contribuito a fissare perennemente la sua immagine nell’immaginario collettivo: Il trovatore, Ettore e Andromaca e Il grande metafisico. Con questi quadri egli ha voluto fissare per sempre una sua concezione del mondo e del rapporto tra l’uomo e la realtà. Il “mondo”, rappresentato attraverso la metafora della città di Ferrara (Le muse inquietanti), è un insieme di “cose” dominate da una fatalità illogica, un mistero inquietante sorvegliato da controllori severi che solo la poesia può interpretare e penetrare.


L’“uomo”, nella sua breve vita, è sottoposto a un destino incontrollabile che lo rende simile a un automa, a uno strumento della grande pazzia dell’universo: lo straziante addio del soldato alla sua donna è una condizione perenne che si ripete dal profondo del tempo e ormai fissata nell’immagine del mito (Ettore e Andromaca). Solo l’arte col suo canto poetico capace di affrancarsi dal tempo vedendo con chiarezza nel passato e nel futuro può riscattare l’uomo dal suo destino (Il trovatore). L’artista metafisico è l’uomo del futuro dotato di una spiritualità multipla e multiforme, un uomo «smisuratamente grande […] foggiato dal groviglio di tutto ciò che il mondo che vive […] potrà fornirgli di più tagliente nella sua passione, e nel suo mistero»(*), dotato di una chiaroveggenza che lo libera dalla fede e dal dolore (Il grande metafisico).

Le ragioni della mostra non si esauriscono tuttavia nell’indagine dell’opera di de Chirico. Essa offre infatti il più ampio confronto mai tentato con l’opera metafisica di Carrà, presente nelle sale quasi al completo, e con importantissimi capolavori di Morandi, di Dalí e di Magritte.

Ettore e Andromaca (1917).



Carlo Carrà, Solitudine (1917).

(*) A. Savinio, La realtà dorata, in “La Voce”, febbraio 1916.

De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardia

a cura di Paolo Baldacci e Gerd Roos
Ferrara, Palazzo dei diamanti, corso Ercole I d’Este 21
fino al 28 febbraio
catalogo Fondazione Ferrara Arte Editore
www.palazzodiamanti.it

ART E DOSSIER N. 328
ART E DOSSIER N. 328
GENNAIO 2016
In questo numero: DAGLI IMPRESSIONISTI A PICASSO Capolavori dal Detroit Institute of Arts in mostra a Genova. COME TI VESTI DIAVOLO? L'inferno cinese, in frac e cilindro, demoni latini, le corna apotropaiche, il lato oscuro di Giovanni Gastel. IN MOSTRA De Chirico, Lam, El Greco. Direttore: Philippe Daverio