GLI ARTISTI

«Uno dei segni che distinguono questi primi passi del secolo che stiamo vivendo è sicuramente il suo carattere interdisciplinare, ovvero lo scambio e il dialogo costante tra discipline diverse, architettura, arte, musica, televisione, cinema, teatro».

Il quadro delineato da Francesco Bonami per descrivere la scena culturale all’alba del terzo millennio è la chiave per leggere l’arte contemporanea, dominata dall’interdisciplinarità, all’interno di una scena complessa e articolata, dove i primi a mettere in discussione il loro stesso status sono gli artisti, ormai protagonisti di un sistema dell’arte globalizzato, dove ai grandi musei pubblici si affiancano potenti fondazioni private, mentre si moltiplicano le fiere, aumenta ogni anno il numero delle biennali e le case d’asta registrano record di vendita sempre più alti. «L’arte contemporanea ufficiale è diventata un fenomeno economico ben più complesso di quello che poteva essere due decenni fa. I musei sono piccole se non addirittura medie imprese, le gallerie più importanti hanno introiti annuali simili a quelli di una discreta azienda e gli artisti sono le nuove celebrità, i nuovi aristocratici che competono con il successo dei calciatori o con quello degli attori o delle attrici»(12) spiega Bonami.


Pawel Althamer, Balloon (1999-2007), particolare dell’installazione esposta alla mostra One of Man; Milano, Fondazione Nicola Trussardi (7 maggio - 5 giugno 2007).


Olafur Eliasson, The Weather Project (2003); Londra, Tate Modern.

Artistar
«In questo secolo c’erano Picasso e Duchamp. Io apro la strada al nuovo secolo»(13). Con queste parole Jeff Koons rivendica il suo ruolo di artistar del XXI secolo: erede incontrastato di Andy Warhol, incarna in maniera perfetta il modello dell’artista superstar, conteso dai collezionisti ma noto anche al grande pubblico. L’arte di Jeff Koons combina elementi di “readymade”, procedimento inventato da Marcel Duchamp, ed elementi pop in una dimensione ludica ravvisabile in sculture come Puppy (1992) - un cane di dimensioni monumentali ricoperto di fiori che accoglie i visitatori all’ingresso del Guggenheim Museum di Bilbao - e nelle opere iconiche in acciaio inossidabile quali Rabbit (1986) e Balloon Dog (Orange) (1994-2000). Quest’ultima è stata battuta per 58,4 milioni di dollari - una cifra da record - da Christie’s a New York nel 2013. Se Koons può essere considerato un protagonista del gusto globalizzato del XXI secolo, espresso con opere gioiose e sensuali, Damien Hirst punta invece su sentimenti come la paura, l’orrore e la provocazione. Caratteristiche riassunte nella sua opera più nota, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991): un grande squalo bianco in formalina all’interno di una teca bianca. Un animale temuto dall’essere umano talmente tanto da rappresentare per l’artista il simbolo di un terrore totale e atavico, capace però di attirare l’attenzione del pubblico, come già era accaduto nel 1975 con il film Jaws(14). Una suggestione che appartiene all’intera opera di Hirst, incentrata sull’analisi del rapporto tra vita, morte e malattia, a partire da mucche, pecore e agnelli sezionati in pezzi alle pillole medicinali colorate disposte in vetrine dai ripiani a specchio (Infinity, 2001). Una ricerca che ha raggiunto uno dei suoi momenti più spettacolari con For the Love of God (2007): un teschio umano ricoperto di platino e tempestato con 8601 diamanti, che risorge a nuova vita grazie al suo impressionante valore economico.

Anish Kapoor, Cloud Gate (2006); Chicago, Millennium Park, AT&T Plaza.

La dimensione simbolica, intesa in un’accezione quasi enciclopedica, è l’anima del lavoro di Matthew Barney, uno degli artisti più originali e complessi della scena contemporanea globale, impegnato per anni nella realizzazione di The Cremaster Cycle (1994-2002), una saga che riassume l’immaginario dell’artista in una stratificata rete di riferimenti storici, geografici, sessuali ed esoterici, che ha preso corpo in cinque film e altrettante mostre. Al termine del ciclo l’artista ha ripreso un altro ciclo di opere, intitolato Drawing Restraint e dedicato al rapporto tra l’allenamento sportivo e l’impegno creativo, indagato attraverso situazioni estreme, dove il corpo dell’artista-atleta viene sottoposto a sforzi enormi. Se Barney si rivolge espressamente alla creazione di mondi artificiali, il danese Olafur Eliasson ricostruisce invece fenomeni naturali all’interno di mostre e musei in tutto il mondo: fa scorrere torrenti, provoca piogge torrenziali, simula aurore boreali e costruisce architetture di ghiaccio. La sua installazione più famosa è The Weather Project (2003): un grande disco luminoso al centro della Turbine Hall all’ingresso della Tate Modern di Londra, posizionato in modo tale da riprodurre perfettamente l’effetto e il calore di un sole al tramonto, apprezzato da due milioni di persone che hanno affollato il museo durante il periodo della mostra. La dimensione monumentale si addice anche all’artista anglo-indiano Anish Kapoor: le sue sculture, realizzate con materiali diversi, riprendono le forme essenziali e archetipiche dell’arte orientale, si impossessano dello spazio e lo riplasmano in maniera intensa e suggestiva, attraverso giochi di luci e ombre, vuoti e pieni. Una delle sue opere più note è Cloud Gate (2006), una scultura monumentale in acciaio collocata nel Millennium Park di Chicago, che riflette sulla sua superficie specchiante l’intero skyline della città. L’acciaio è uno dei materiali prediletti da un altro artista indiano, Subodh Gupta, che realizza imponenti installazioni mediante l’assemblaggio di oggetti e utensili domestici utilizzati comunemente nella cucina del suo paese, che vengono riletti attraverso un sottile ma evidente parallelo tra l’India arcaica e quella contemporanea, che Gupta racconta attraverso un repertorio di immagini banali e quotidiane.


Ai Weiwei, Very Yao (2008).

L’immaginario presente nella cultura dei manga costituisce il punto di riferimento principale per il giapponese Takashi Murakami, che ha dato vita a una sorta di factory “made in Japan” dove il suo immaginario artistico viene trasferito su stoffe, tende, cuscini e altri oggetti domestici. Un fortunato connubio tra fashion, erotismo e fumetto lo ha portato a realizzare sculture di evidente matrice pop come Miss Ko (1997) e My Lonesome Cowboy (1998), caratterizzate da una sessualità eccessiva e giocosa tipica del “kawaii”, l’estetica giapponese che ha prodotto Hello Kitty. Se Murakami esalta i manga, il cinese Ai Weiwei si pone invece in maniera fortemente critica nei confronti del governo del suo paese natale. Figlio di un poeta dissidente, l’artista lavora da anni su una critica diretta del regime, svelando gli effetti della corruzione in situazioni critiche come il terremoto di Sichuan nel 2008.


Ai Weiwei, Stacked (2012).

Le sue installazioni, realizzate con oggetti simbolo della Cina - celebri gli assemblaggi di centinaia di biciclette - sono state oggetto di condanna da parte del governo cinese, che ha arrestato e imprigionato Ai Weiwei diverse volte, per poi rilasciarlo. Grandi e sensuali installazioni costituiscono la cifra del brasiliano Ernesto Neto, che esordisce sulla scena internazionale nel 2001 alla Biennale di Venezia con l’opera O Bicho!, composta da sacche di licra attaccate al soffitto e piene di spezie dagli aromi profumati: un’installazione ambientale dove il visitatore è invitato a transitare per vivere un’esperienza avvolgente, tra tatto e olfatto, che evoca l’anima calda e intensa del Brasile. Ironico e dissacrante, l’italiano Maurizio Cattelan scardina in maniera sottile i meccanismi e le regole del sistema dell’arte utilizzando le strategie mediatiche, attraverso opere apparentemente provocatorie ma in realtà profonde e inquietanti, come Him (2001), un piccolo Hitler che prega in ginocchio, oppure La nona ora (1999), il ritratto di papa Giovanni Paolo II schiacciato da un meteorite, ispirato a un verso dell’Apocalisse di san Giovanni e L.O.V.E. (Il dito) (2010): una grande mano di marmo col dito medio alzato, posta di fronte alla Borsa di Milano.
Rileggere la storia dell’arte
Una delle pratiche più frequenti di molti artisti è proporre una rilettura della storia dell’arte, per rivelarne le contraddizioni, i paradossi o alcune caratteristiche legate ad aspetti poco noti della produzione artistica del passato. Il belga Michaël Borremans si ispira a maestri come Edgard Degas, Edouard Manet e Diego Velázquez per dipingere con una tecnica eccezionale immagini ambigue e misteriose, dove personaggi dallo sguardo inespressivo sono rappresentati in situazioni paradossali, ottenute attraverso sottili scarti linguistici. Si tratta di soggetti che appartengono alla tradizione classica, come il ritratto o la natura morta, che Borremans trasferisce in uno spazio atemporale e metafisico, carico di inquietanti ambiguità. Tacita Dean, che ha fatto parte del gruppo dei Young British Artists, analizza nei suoi video girati in 16 mm la vita, le opere e gli aspetti più intimi e privati di maestri contemporanei come Mario Merz, Giorgio Morandi, Merce Cunningham, Robert Smithson o James Graham Ballard, protagonista di JG (2013), dedicato all’amicizia dell’artista con lo scrittore di fantascienza e al suo interesse per il capolavoro di Smithson Spiral Jetty. Di recente la Dean si è rivolta al disegno, protagonista dell’installazione Fatigues, - presentata a Kassel a Documenta 13 nel 2012 - dove l’artista ha disegnato nei minimi dettagli il paesaggio intorno a Kabul con gessetti bianchi su grandi lavagne, fino a comporre un panorama effimero ma di grande intensità. Il tedesco Thomas Schutte combina elementi tratti da opere di Rodin, Moore e Picasso nella serie di diciotto sculture Frauen (“donne”), realizzate dal 1998 al 2006 in acciaio o bronzo, che rappresentano diverse versioni di figure femminili nude, preferibilmente acefale e sdraiate su un piano orizzontale. Una sorta di indagine sugli aspetti più inquietanti del corpo umano, che porta all’estremo l’immagine classica del nudo attraverso pose innaturali e disturbanti. Anche le donne dipinte dall’artista sudafricana Marlene Dumas con un stile neoespressionista hanno spesso tratti allucinati e inquietanti, con uno stile vicino a Egon Schiele e Leon Golub. Di recente la Dumas, attenta a problematiche di carattere politico e sociale, ha eseguito una serie di ritratti di famosi personaggi perseguitati in quanto gay - tra i quali Rudolf Nureyev, Pier Paolo Pasolini, Oscar Wilde e Tennessee Williams - che ha esposto a Manifesta 10, nel museo dell’Ermitage di San Pietroburgo: un chiaro messaggio verso lo Stato russo, che ha una legislazione molto punitiva nei confronti degli omosessuali.

Tacita Dean, Fatigues (2012), installazione commissionata e coprodotta da Documenta 13 (2012) a Kassel.

Thomas Schütte, Bronzefrau III (1998).

Uno dei più noti progetti dell’artista belga Francis Alÿs si intitola Fabiola (2009) e riunisce trecento ritratti di una santa scomparsa nel 399 d.C. e seguace di san Girolamo, che ha scritto un elogio sulle sue virtù. Rimasta sconosciuta per secoli, è riemersa dall’oblio grazie a un volume sulla sua vita scritto nel 1850 dal cardinal Wiseman, arcivescovo di Westminster, e di conseguenza il pittore francese Jean-Jacques Henner ha dipinto il primo ritratto della santa, andato poi perduto e conosciuto soltanto attraverso immagini fotografiche. Francis Alÿs ha trascorso quindici anni a cercare i ritratti di Fabiola realizzati da artisti, dilettanti o semplicemente amatori, per riflettere sul potere dell’arte di superare le barriere del tempo. Un altro artista che si ispira in maniera costante alla storia dell’arte è l’americano Bill Viola, maestro della videoarte internazionale. Molti dei suoi video, girati con tempi lenti, riprendono addirittura le iconografie dei dipinti antichi: è il caso di The Greeting (1995), ispirato alla Visitazione di Pontormo, o di Emergence (2002) che riprende il Cristo in pietà di Masolino da Panicale. Fortemente pittoriche, le opere di Viola riflettono sui temi fondamentali dell’umanità: la nascita, la morte, l’amore e gli aspetti spirituali dell’esistenza. Anche il tedesco Anselm Kiefer guarda alla storia e alla mitologia germanica, che costituiscono, insieme alla cabala ebraica, le principali fonti di ispirazione per le sue opere pittoriche, ricche di riferimenti simbolici all’Olocausto e al nazismo: il dipinto To the Unknown Painter (1983) contiene uno specifico riferimento al cortile esterno della Cancelleria di Hitler, disegnata dall’architetto Albert Speer nel 1938. Ma l’immaginario di Kiefer è denso di suggestioni letterarie, che vanno dalla poesia di Paul Celan agli scritti di Ingeborg Bachmann, dalla tetralogia wagneriana L’anello del nibelungo alle teorie del filosofo russo Velimir Chlebnikov. Una delle opere più importanti dell’artista si trova a Milano, all’interno dell’HangarBicocca: I sette palazzi celesti, costruiti nel 2004, prendono il nome da un trattato ebraico del V secolo d.C. che descrive il cammino iniziatico per arrivare al cospetto di Dio, di cui ogni palazzo rappresenta una tappa.


Marlene Dumas, Clorosi (Malati d’amore) (1994); New York, MoMA - Museum of Modern Art.

Francis Alÿs, installazione esposta alla mostra Francis Alÿs: Fabiola, San Paolo, Pinacoteca do Estado (4 aprile - 7 luglio 2013).

Arte e politica
L’interesse degli artisti contemporanei verso la politica non è un fatto recente, se pensiamo a esempi illustri come Guernica (1937) di Pablo Picasso, che racconta gli orrori della guerra civile spagnola, o a dipinti come Comizio (1949) di Giulio Turcato o I funerali di Togliatti (1972) di Renato Guttuso. Negli anni Sessanta e Settanta maestri come Jannis Kounellis o Michelangelo Pistoletto hanno interpretato il clima politico del Sessantotto, e alcune performance di Marina Abramovic´ sono state ispirate a eventi tragici come le guerre che nei primi anni Novanta hanno sconvolto la ex Jugoslavia. Dopo la caduta del muro di Berlino e la conseguente globalizzazione della scena artistica, molti artisti hanno utilizzato le loro opere per denunciare situazioni drammatiche vissute nei loro paesi d’origine, come l’Iran, l’Algeria, la Colombia o il Sud Africa. Così, le opere fotografiche di Shirin Neshat Women of Allah (1993-1997) hanno rivelato al mondo le condizioni delle donne dopo la rivoluzione khomeinista in Iran, seguite da alcuni memorabili video come Turbulent (1998) e Rapture (1999), che le valsero il Leone d’oro alla 48. Biennale di Venezia (1999), mentre dieci anni dopo il suo primo lungometraggio, Donne senza uomini, ha vinto il Leone d’argento al Festival del cinema di Venezia. Le immagini di donne velate che imbracciano armi, con il volto coperto da poemi d’amore in lingua farsi - l’antico persiano - per sottolineare il divieto assoluto di comunicare in pubblico sono state precedute di pochi anni dalle installazioni dell’artista palestinese Mona Hatoum, che denunciano le paure e la sofferenza dei palestinesi, con particolare attenzione alla condizione femminile vissuta all’interno delle mura domestiche.


Bill Viola, The Crossing (1996). The Crossing, che ha come protagonista il performer Phil Esposito, è una video installazione su doppio schermo giocata sul confronto tra una figura umana avvolta dalle fiamme e la stessa figura travolta da una cascata d’acqua. Grazie alla tecnica dello “slow motion”, i corpi si muovono con lentezza, quasi a voler suggerire un rito iniziatico o sacrificale, all’interno di una dimensione spirituale dell’opera, che caratterizza la ricerca di Bill Viola. In questo caso i riferimenti vanno dal Diluvio universale al cerchio di fuoco che circonda il dio indù Shiva Nataraja.

Tappetini da preghiera ricoperti di chiodi o spilli, culle da neonati costruite con lame di rasoio, mappamondi di metallo con i profili dei continenti realizzati con resistenze incandescenti (Hot Spot, 2006) rendono la ricerca della Hatoum una delle più dirette e violente forme di protesta nei confronti della superficialità dell’Occidente, che continua a ignorare la situazione palestinese e il dramma di un popolo tormentato da un conflitto senza fine. Anche Doris Salcedo utilizza oggetti domestici per denunciare la situazione di corruzione e violenza politica del governo colombiano, che ha coinvolto direttamente alcuni suoi familiari. Le sue installazioni, spesso di dimensioni monumentali, hanno un valore simbolico e politico forte: nell’opera Istanbul (2002) l’artista ha riempito con millecinquecento sedie in equilibrio precario lo spazio vuoto tra due palazzi della città turca, mentre cinque anni dopo ha aperto una profonda crepa nel pavimento della Turbine Hall della Tate Modern di Londra. L’opera, intitolata Shibboleth (un termine biblico che indica la separazione tra amico e nemico) riassume l’essenza della ricerca di Salcedo, legata al trauma dell’assenza, alla memoria del dramma, al razzismo e alla violenza.


Anselm Kiefer, I sette palazzi celesti (2004); Milano, Fondazione HangarBicocca.

Gli orrori del mondo costituiscono l’argomento principale del lavoro di Thomas Hirschhorn, che costruisce interi ambienti rivestiti da migliaia di immagini cruente, spesso anonime e tratte da Internet, che i media non possono mostrare. Si tratta di corpi umani torturati o dilaniati da bombe, che a volte l’artista svizzero accosta a servizi di moda, che ne esaltano invece l’estetica. «Per relazionarmi con il mondo, per combattere il suo caos, la sua incommensurabilità, per coesistere e cooperare in questo mondo e con gli altri, io ho bisogno di confrontarmi con la realtà senza distanza. Sono interessato all’aspetto hard core della realtà » spiega l’artista, che ha rappresentato la Svizzera alla Biennale di Venezia nel 2011. Un interesse per l’estremo è la cifra dell’algerino Adel Abdessemed, costretto a trasferirsi a Parigi nel 1994, dopo i disordini scoppiati nel suo paese. Le sue opere esprimono le contraddizioni della società contemporanea, causa di alienazione, disagio sociale e violenza.

Un esempio è Practise Zero Tolerance (2006), il calco di un’automobile bruciata durante i disordini scoppiati nel 2005 nelle “banlieues” francesi, oppure Usine (2009), un video che documenta i comportamenti violenti di una serie di animali come serpenti, cani, scorpioni e rospi costretti a convivere nello stesso recinto, oppure Nymphéas (Water Lilies) (2015), un’installazione composta da centocinquantaquattro coltelli conficcati a terra in modo da formare una serie di fiori. Una delle sue opere più provocatorie è Headbutt (2012), una scultura di bronzo che riproduce in grandi dimensioni la testata data da Zidane a Materazzi durante la finale della Coppa del mondo di calcio nel 2006, definita dal curatore francese Alain Michaud «un monumento alla sconfitta».


Shirin Neshat, Allegiance with Wakefulness (Women of Allah) (1994).

Meno diretto ma più sottile il linguaggio di un altro algerino, Kader Attia, che mette in scena i confronti tra realtà sociali e politiche differenti, come nell’installazione The Repair from Occident to Extra-Occidental Cultures, presentata a Documenta 13 nel 2012: una sala-laboratorio dove l’artista ha messo a confronto sculture africane e immagini di soldati feriti al volto durante la prima guerra mondiale, in modo tale da assumere facce mostruose e deformate. Uno dei suoi ultimi lavori è stato esposto nella sezione “Unlimited” di Art Basel 2015: si tratta di Arab Spring (2014) ed è composto da una serie di bacheche simili a quelle presenti nel museo del Cairo, sventrate durante la Primavera araba. Un’opera drammaticamente attuale, dopo il recente attentato al museo del Bardo in Tunisia e l’ondata iconoclasta che sta infiammando il Medio Oriente.

Mona Hatoum, Hot Spot II (2006).


Doris Salcedo, Noviembre 6 y 7 (2002).

La memoria dell’oppressione politica in Polonia durante il dominio dell’Unione Sovietica aleggia in molte opere di Piotr Uklànski, che interpreta la storia recente del suo paese con una dose di provocatoria ironia. Lo dimostrano opere come The Nazis (1998), composta da una serie fotografica di attori che hanno interpretato i più famosi film sul nazismo, o Untitled (Ioannes Paulus PP. II Karol Wojtila, 2004), una ripresa fotografica di corpi umani che, vestiti in una certa maniera, compongono il volto di papa Giovanni Paolo II. Tra le opere più dichiaratamente politiche vanno segnalate le installazioni della serie Bialo-Czerwona (“bianco-rosso”), che fanno riferimento in maniera diretta alla storia polacca, con sculture a forma di pugno chiuso e quadri macchiati di sangue. Un’ironia che ritroviamo nell’opera di Guillermo Allora e Jennifer Calzadilla, che dal 1995 lavorano in coppia. Le loro origini contribuiscono a comprendere meglio il senso del loro lavoro: lui è cubano mentre lei è americana, e hanno scelto di vivere a Portorico. Le loro opere riflettono sul valore e il significato dell’identità statunitense con tutte le sue contraddizioni: dal 1999 al 2010 si sono concentrati su Vieques, una serie di progetti dedicati all’omonima isola in Portorico, utilizzata per sessant’anni dagli Stati Uniti per test militari, fortemente osteggiati dalla popolazione locale con manifestazioni e atti di resistenza. Molti lavori di questa serie sono legati al concetto di “landmark”, che indica i diversi status dei territori oggetto di processi di colonizzazione di tipo economico o politico. Chiamati a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia nel 2011, hanno proposto Gloria: un gruppo di opere legate al rapporto tra arte, politica e identità, tra le quali spiccava Track and Field, un carro armato rovesciato sul quale era installato un tapis roulant, dove correvano alcuni atleti della federazione statunitense di atletica leggera, per sottolineare il binomio tra militarismo e fitness che caratterizza in maniera evidente la società americana, dominata dalla competizione.


Piotr Uklanski, installazione esposta presso la Galleria Massimo De Carlo, Milano 2007.

Allora & Calzadilla, Track and Field, performance presentata alla 54. Biennale di Venezia (2011), padiglione degli Stati Uniti.


Kara Walker, A Subtlety, progetto realizzato all’interno della Domino Sugar Factory di Brooklyn (New York) nel 2014.

Un’altra americana, Kara Walker, punta il dito sui lati meno nobili e più drammatici dell’identità statunitense, attraverso installazioni composte da silhouette di personaggi tratti dalla storia dello schiavismo, visti attraverso uno sguardo femminile per rivelarne gli aspetti più brutali, che gli americani stessi tendono a dimenticare. Uno dei suoi lavori più significativi è The Subtlety, realizzato all’interno della Domino Sugar Factory di Brooklyn nel 2014. Si tratta di una gigantesca sfinge con le fattezze di una donna nera, che unisce il ricordo delle “nannies” ottocentesche a servizio delle ricche famiglie bianche con gli attributi sessuali esagerati delle prostitute nere: un’immagine ambigua e forte, circondata da un alone di mistero e potenza. Anche il sudafricano William Kentridge si è ispirato alla memoria dell’apartheid nei suoi video realizzati attraverso la tecnica del disegno animato, ripresa dal cinema sperimentale di Georges Méliès. In uno dei suoi primi film, Tide Table (“indicatore delle maree”), girato nel 2003, la presenza dell’acqua indica il pericolo dell’amnesia, che può portare i popoli a rimuovere anche gli avvenimenti storici più drammatici. 


Steve McQueen, Ashes (2002- 2015).


Artista multidisciplinare per eccellenza, Kentridge ha sperimentato i linguaggi espressivi più disparati, dal disegno alla scultura, dalla videoinstallazione alla regia di opere liriche, come Il flauto magico di Mozart. Invitato a Documenta 13, nel 2012 Kentridge ha presentato The Refusal of Time, un’installazione complessa concepita come una sorta di laboratorio, dove un macchinario in legno generava una serie di proiezioni, scandite dal ritmo dei metronomi e legate ai temi della sua ricerca: la memoria, il linguaggio, la responsabilità e la colpa. Anche Steve McQueen utilizza il video per esprimere tematiche universali, rese attraverso immagini ispirate a registi sperimentali come Jean Vigo e Jean Rouch, conducendo lo spettatore a un alto livello di partecipazione emotiva. I suoi primi lavori, come Exodus (1992), Bear (1995) trattavano situazioni particolari, come la discesa nelle gallerie di una miniera d’oro in Sud Africa (Western Deep, 2002), mentre i suoi lungometraggi affrontano tematiche più dichiaratamente politiche. Hunger (2008) racconta lo sciopero della fame di Bobby Sands, membro dell’IRA, Shame (2011) descrive la dipendenza di un uomo dal sesso e dalla pornografia. Dodici anni schiavo (2013) è dedicato alla vita di Solomon Northup, un uomo di colore che viene rapito e venduto come schiavo nelle piantagioni di cotone della Louisiana: il film è stato premiato con tre premi Oscar.

Superare il reale
La possibilità di espandere la percezione della realtà fisica offerta dalle nuove tecnologie informatiche ha aumentato in maniera esponenziale le potenzialità delle immagini, offrendo agli artisti contemporanei nuovi spunti per realizzare opere sempre più incredibili e spettacolari, di ispirazione neosurrealista e fantastica. Installazioni complesse e articolate, esposte in ambienti museali pubblici e privati, costituiscono in un certo senso la risposta dell’arte alle esperienze di realtà virtuale o aumentata sempre più accessibili al pubblico. L’arte di Thomas Houseago prende spunto da una riflessione su alcuni maestri della scultura del Novecento, come Auguste Rodin e Umberto Boccioni, unita a citazioni cinematografiche, come la saga di Star Wars. L’artista britannico realizza sculture di grandi dimensioni, simili a giganti dai tratti mostruosi e caratterizzati dall’assemblaggio di materiali diversi, dal gesso al ferro alla iuta. Figure inclassificabili che uniscono l’aura dell’arte classica con suggestioni contemporanee, in grado di sfidare le convenzioni tradizionali per rinnovare il concetto di monumento.

Thomas Houseago, Baby (2009-2010).

Un’ironia che Houseago condivide con Carsten Höller, interessato al rapporto tra la sfera dell’emotività umana e i fenomeni naturali più estremi. Le sue installazioni tendono a provocare reazioni di stupore e meraviglia, tanto da essere definite dall’artista belga «confusion machines». Tra gli esempi più significativi figurano Spinning Top (1996), una trottola gigante che viene azionata con una persona all’interno; Upside-Down Mushroom Room (2000), una stanza con dodici grandi funghi che girano vorticosamente, creando al visitatore un effetto di spaesamento, e infine Test Site (2006): cinque scivoli in alluminio e plexiglass posizionati ai diversi piani della Tate Modern di Londra, che i visitatori potevano utilizzare liberamente. Anche la coppia di artisti scandinavi Elmgreen & Dragset (al secolo Michel Elmgreen e Ingar Dragset) predilige i musei per presentare installazioni complesse e scenografiche, da loro definite «powerless structures», che modificano la percezione dello spazio espositivo. L’esempio più celebre è stato il progetto The Collectors, realizzato nel 2009 per i padiglioni dei Paesi nordici e della Danimarca alla Biennale di Venezia, trasformati in due abitazioni di collezionisti di arte contemporanea, alle quali il pubblico poteva accedere con un apposito servizio di visite guidate. Un alto grado di spettacolarità caratterizza la ricerca dell’artista Tomás Saraceno, che vive e lavora a Berlino, noto in tutto il mondo come costruttore di strutture sospese che fluttuano nell’aria, simili alle architetture utopiche degli anni Sessanta e legate allo sviluppo ecosostenibile. Alcune di queste installazioni, realizzate a volte in collaborazione con i tecnici della NASA, permettono agli spettatori di fruire dell’opera. È il caso di On Space Time Foam (2012-2013), presentata all’HangarBicocca di Milano e composta da tre strati di plastica trasparente sospesi nello spazio, sui quali i visitatori potevano camminare e muoversi liberamente. Il cinese Cai Guo-Qiang è apparso sulla scena internazionale nel 1990 con i suoi Projects for Extraterrestrials, che consistono in installazioni site-specific realizzate con fuochi d’artificio e grandi quantità di polvere da sparo: un materiale considerato dall’artista in bilico tra bene e male, usato sia per distruggere che per costruire. Uno dei più significativi è Project to Extend the Great Wall of China by 10.000 Meters: Project for Extraterrestrials No. 10 (1993): una striscia di polvere da sparo lunga diecimila metri e posizionata tra la fine della Grande muraglia e l’inizio del deserto del Gobi.

Tomás Saraceno, Galaxies Forming along Filaments, like Droplets along the Strands of a Spider’s Web, installazione esposta alla 53. Biennale di Venezia (2009). La grande installazione è una struttura composta da corde elastiche nere che ricorda una ragnatela, ma anche la composizione primitiva dell’universo: Saraceno, appassionato di astronomia, studia anche il comportamento degli aracnidi, e ripropone le loro costruzioni nello spazio, per far sì che il pubblico possa interagire con l’opera e leggerne i suoi molteplici significati.


Cai Guo-Qiang, Impressions of Stage One (2006).

Dopo essere stata accesa, la polvere ha creato una striscia sulla sabbia simile alla coda di un drago, simbolo dell’antica potenza dell’impero cinese. I miti popolari cinesi costituiscono infatti la principale fonte di ispirazione per il successivo ciclo di installazioni presentate nel 2008 al Guggenheim Museum di New York. L’opera Inopportune: Stage 2, composta da nove tigri impagliate sospese a mezz’aria e trapassate da centinaia di frecce, era ispirata a una leggenda cinese del XIII secolo, legata al coraggio di un solo uomo che uccise una tigre per salvare un intero villaggio. Anche lo svizzero Urs Fischer è interessato alla possibilità dell’arte di creare situazioni che superano la realtà, con un ricerca che riprende suggestioni provenienti da dadaismo e surrealismo. Jet Set Lady (2000-2005) è un albero di undici metri con una serie di rami metallici ai quali sono appesi disegni e testi che raccontano cinque anni di lavoro dell’artista, quasi in forma di diario; Untitled (2011) è una copia in grandezza naturale del Ratto delle sabine del Giambologna, realizzata in cera come una gigantesca candela ed esposta alla Biennale di Venezia nel 2011, mentre Untitled (Bread House) (2004-2006) è una grande capanna, simile a quelle presenti nelle favole, realizzata con forme di pane differenti.

Meno ironico e più concettuale è il lavoro del francese Pierre Huyghe, uno degli artisti più complessi e originali della scena contemporanea attuale. Interessato alla mostra intesa come rituale iniziatico per trasferire i visitatori in situazioni surreali, inizialmente le sue opere erano rivolte al mondo del cinema come la videoinstallazione The Third Memory (1999), basata su una rilettura del film di Sidney Lumet Dog Day Afternoon (Quel pomeriggio di un giorno da cani). Più recentemente il suo interesse si è diretto verso la creazione di situazioni misteriose, come l’installazione Untilled, presentata a Documenta 13 nel 2012.


Urs Fischer, Untitled (Bread House) (2004-2006), opera esposta in occasione della mostra Jet Set Lady promossa dalla Fondazione Nicola Trussardi (Milano, Istituto dei ciechi, 3 maggio - 1° giugno 2005).

Si tratta di una sorta di nonluogo all’interno del parco di Kassel, dove intorno alla scultura di una donna seduta con un alveare di api al posto della testa si aggirava un cane con una zampa rosa, in un ambiente che ricordava un cantiere, con cespugli di marijuana e altre piante allucinogene piantate tra cumuli di sabbia e detriti. «Mi interessa creare una situazione incontrollabile, dove gli elementi potessero combinarsi tra loro in maniera libera», spiega Huyge(15). Un’attitudine che ricorda il pensiero del messicano Gabriel Orozco, soprattutto per l’ampiezza di vedute e la libertà di linguaggio, incentrato sull’analisi della banalità delle forme che abitano il nostro quotidiano, che Orozco sottopone a continue metamorfosi. Una delle sue opere più rappresentative è DS (1993), una mitica macchina Citroën degli anni Sessanta che l’artista ha sagomato in modo tale da farle assumere un aspetto più dinamico pur essendo inservibile, mentre Black Kites (1997) è un teschio umano dipinto a scacchiera, con motivi ripresi dagli aquiloni indiani, che rappresenta l’incontro tra il culto messicano della morte e la gioia della vita tipica dell’Oriente. Il mondo dei simboli interessa anche l’artista albanese Anri Sala, che si ispira alla memoria del suo paese d’origine per sviluppare video che oscillano tra realtà e finzione, documento e simbolo.


Pierre Huyghe, Untitled Liegender Frauenakt (2012).

Opere come Time after Time e Dammi i colori, entrambe del 2003, mostrano la città di Tirana come un luogo metafisico e paradossale, analizzandone lo sviluppo urbano e la sua violenta trasformazione sociale. Uno dei suoi lavori più rappresentativi è Ravel Ravel Unravel presentato al padiglione francese alla Biennale di Venezia del 2013: l’opera era basata sull’esecuzione del Concerto per pianoforte per la mano sinistra - composto da Maurice Ravel nel 1930 - da parte di due pianisti differenti, ripresi in contemporanea per suggerire l’idea dell’espansione del tempo. Dalla memoria collettiva analizzata da Sala si passa a quella soggettiva e personale che costituisce il fulcro della ricerca dell’artista inglese Tracey Emin, protagonista della Young British Art. Figura provocatoria e dissacrante, la Emin ha incentrato il suo lavoro sui suoi rapporti sentimentali e sessuali, protagonisti di alcune delle sue opere più famose, come Everyone I Have Ever Slept With 1963-95 (1995), una tenda da campeggio dove l’artista ha ricamato i nomi di tutte le persone con cui aveva dormito fino a quel momento, ma soprattutto My Bed, presentata alla finale del prestigioso premio Turner nel 1999. Si tratta del letto dell’artista, disfatto e accompagnato da oggetti di vario genere, dalle pantofole ai pacchetti di sigarette vuoti fino ai preservativi. Una provocazione “al femminile” che ricorda da vicino A Novia, l’opera più discussa dell’artista portoghese Joana Vasconcelos. Si tratta di un gigantesco lampadario fatto di assorbenti femminili e presentato alla Biennale di Venezia del 2005, come riflessione legata alla mercificazione del corpo femminile. La ricerca della Vasconcelos è improntata su installazioni composte da assemblaggi di manufatti realizzati con materiali differenti di matrice artigianale (maglia, feltro, tessuto, ma anche metallo e polistirolo), che assumono a volte un aspetto mostruoso e tentacolare, come in Contamination (2008-2010).

Decisamente inquietanti sono anche le opere dello scultore australiano Ron Mueck, che ha iniziato la sua carriera come tecnico degli effetti speciali per il cinema: il suo Boy, una scultura alta cinque metri che riproduce nei minimi dettagli un bambino accovacciato, è stata esposta alla Biennale di Venezia nel 1999.


Gabriel Orozco, La DS (1993).


Anri Sala, No Barragan No Cry (2002).

Tracey Emin, My Bed (1999).


Joana Vasconcelos, A Noiva (2005), installazione esposta alla 51. Biennale di Venezia (2005).

Da allora si è dedicato a riprodurre fedelmente corpi umani e personaggi comuni alterandone le dimensioni, dando vita a opere come Pregnant Woman (2002), In Bed (2005) o Standing Woman (2007). Un altro artista che si è concentrato sul corpo è il polacco Pawel Althamer, che parte dalla propria figura per analizzare le modalità espressive del ritratto contemporaneo. Le opere più significative di Althamer sono sculture iperrealiste, che rappresentano l’artista nudo in pose classiche, realizzate con materiali diversi, dalla canapa al fieno fino alle viscere animali, che producono nello spettatore un senso di disagio e di disturbo. La più spettacolare è Balloon (1999- 2007), un gigantesco pallone con la forma del corpo nudo dell’artista, prodotto dalla Fondazione Trussardi e sospeso sopra l’Arena civica di Milano, come una presenza ludica ma inquietante, sia per le dimensioni che per la posa, ispirata ai “kouroi” greci. L’artista americana Cindy Sherman utilizza il linguaggio fotografico per analizzare l’evoluzione dell’identità femminile attraverso i clichè legati ai mass media, dal cinema alla storia dell’arte. Dai primi Untitled Film Stills, realizzati tra il 1977 e il 1980 (piccole foto in bianco e nero che ritraevano l’artista nei panni di pin-up e dive degli anni Settanta), negli anni successivi l’artista si è immedesimata in personaggi storici (Historical Portraits), nella donna americana media (Portraits), ma anche nei pagliacci (Clowns). Francesco Vezzoli si rivolge al mondo del cinema per interrogarsi sul ruolo della notorietà nella società contemporanea.

Pawel Althamer, Balloon (1999-2007), installazione esposta alla mostra One of Man, Milano, Fondazione Nicola Trussardi (7 maggio - 5 giugno 2007).


Francesco Vezzoli, Trailer for a Remake of Gore Vidal’s Caligula (2005).

Nelle prime opere video come An Embroidered Trilogy (1997-1999), personaggi dello spettacolo come Iva Zanicchi o Valentina Cortese eseguivano azioni assurde e paradossali, in un’interessante e originale commistione tra kitsch ed eleganza, che prosegue in opere successive come The Kiss (2000) con Helmut Berger. Nel 2005 l’artista italiano realizza il trailer per un ipotetico remake del celebre film Caligola di Tinto Brass, sceneggiato da Gore Vidal, che viene presentato alla Biennale di Venezia, dove due anni dopo Vezzoli espone nel padiglione Italia il video Democrazy, che vede protagonisti Sharon Stone e Bernard Henri-Levi come candidati alle elezioni presidenziali americane. Un gusto per il paradosso che appartiene, seppur con modalità diverse, a un altro artista italiano come Rudolf Stingel, interessato al rapporto tra la pittura e lo spazio che la ospita. Se le sue prime opere indagavano il concetto di decorazione, con precisi riferimenti al Barocco e al Rococò, nel 2007 - in occasione della sua antologica al Whitney Museum di New York - l’artista ha ricoperto le pareti del museo con pannelli di cellotex argentato, invitando il pubblico a intervenire sulle pareti stesse, mentre nel 2013 ha ricoperto tutte le sale espositive di palazzo Grassi a Venezia con riproduzioni di tappeti persiani, sulle quali ha appeso una serie di dipinti figurativi, che rappresentavano ritratti e opere d’arte del passato.


Andreas Gursky, Chicago Board of Trade (1999).

Le nuove frontiere della fotografia
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso la fotografia acquista la dignità di linguaggio espressivo autonomo, soprattutto grazie alla tecnologia digitale, che permette di ottenere stampe di grandi dimensioni con una definizione molto alta. L’artista che approfitta maggiormente di questa situazione è il tedesco Andreas Gursky, che fa parte della cosiddetta scuola di Düsseldorf, composta dai primi cinque allievi del professore di fotografia Bernt Becher all’inizio degli anni Ottanta. La ricerca di Gursky si basa sulla possibilità di fotografare paesaggi, situazioni e luoghi da punti di vista quasi impossibili, che permettono di scattare immagini talmente paraboliche da risultare irreali, anche perché caratterizzate da folle che l’artista fotografa in ogni singolo dettaglio. Immagini come Chicago Board of Trade II (1999) o Tokyo Stock Exchange (1999) mostrano la frenesia degli scambi commerciali, così come May Day IV (2000) rappresenta l’atmosfera un po’ alienante dei grandi concerti rock.

Anche Thomas Struth ha fatto parte della scuola di Düsseldorf, ma il suo approccio alla fotografia è più concettuale e meno spettacolare rispetto a Gursky: la sua serie più famosa, Museum Photographs, riunisce immagini scattate nei più importanti luoghi d’arte del mondo, dal museo del Prado a Madrid al Pergamon di Berlino fino al Pantheon di Roma, dove l’artista ha creato una relazione tra le opere d’arte e i visitatori. A partire dal 2005, Struth ha scattato un’altra serie di fotografie nei musei ma questa volta rivolgendo l’obiettivo soltanto verso i visitatori ed escludendo l’oggetto dei loro sguardi, per rendere la situazione ancora più realistica. Un altro protagonista del rinnovamento della fotografia è Wolfgang Tillmans, che ha documentato la generazione degli anni Novanta con particolare riferimento alla scena gay londinese tra club e rave, attraverso scatti apparentemente casuali, che restituiscono un’atmosfera in bilico tra normalità e provocazione. La ricerca di Tillmans si è poi allargata alle diverse dimensioni della sfera fotografica, per dirigersi verso immagini più astratte ma altrettanto suggestive.

Il rapporto tra reale e virtuale è alla base della ricerca di Thomas Demand, che utilizza il linguaggio fotografico come risultato finale di un processo concettuale molto elaborato. L’artista tedesco costruisce dei modelli in cartoncino a grandezza naturale di ambienti che hanno ospitato situazioni politicamente rilevanti, li fotografa e infine li distrugge. Opere come Kitchen (2004), che riproduce il quartier generale dove fu catturato Saddam Hussein, o Presidency I-IV (2008) che ritrae la Sala ovale della Casa bianca, sono realizzate con tale precisione da apparire assolutamente reali. Per comprendere la fattura maniacale di ogni immagine, un ottimo esempio è Grotto, realizzata da Demand nel 2006, il modello a grandezza naturale di una grotta nell’isola di Maiorca che l’artista non ha mai visitato. Unico plastico non distrutto dall’artista, Grotto è attualmente esposto, insieme alla sua immagine fotografica e a tutta la documentazione necessaria per costruirlo, alla Fondazione Prada di Milano.


Thomas Demand, Processo grottesco (2006), installazione permanente; Milano, Fondazione Prada.

(11) F. Bonami, Anni duemila. Il secolo a uncinetto, in AA. V.V., Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Milano 2008, p. 818.

(12) Ivi, p. 828.

(13) Citazione riportata in C. Tomkins, Lives of the Artists, New York 2008.

(14) Il film Jaws (Lo squalo), girato da Steven Spielberg e uscito nel 1975. È stato campione mondiale di incassi per due anni, fino all’uscita di Star Wars (Guerre stellari). 

(15) http://www.blouinartinfo.com/news/story/822127/ pierre-huyghe-explains-his-buzzy-documenta-13-installation- and-why-his-work-is-not-performance-art.

ARTE CONTEMPORANEA
ARTE CONTEMPORANEA
Ludovico Pratesi
Un dossier dedicato all'arte contemporanea. In sommario: L'arte contemporanea diventa globale; Gli artisti; I luoghi dell'arte contemporanea. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.