La pagina nera

CelebriamO quel CasatO:
del vendutO nOn un fiatO

La grande collezione dell’antica famiglia veneziana Pisani Moretta rivive in occasione di una mostra a Ca’ Rezzonico. Ma il pezzo forte, il capolavoro che dava lustro alla casata e riuscì a suscitare l’ammirazione di Goethe, non c’è. La grande tela del Veronese che ritraeva La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro dal 1857 è alla National Gallery di Londra.

di Fabio Isman

Ottima l’idea di Venezia di celebrare la famiglia Pisani con una mostra (I Pisani Moretta. Storia e collezionismo, a Ca’ Rezzonico - Museo del Settecento veneziano, fino al 19 ottobre, a cura di Alberto Craievich, catalogo Antiga). Un’importante famiglia, che a Venezia ha dato ammiragli (Vettor nel 1300), dogi (Alvise nel Settecento) e prelati (nel Cinquecento, Francesco e Luigi, il primo anche cardinale); due palazzi sul Canal grande (uno si chiama ancora Pisani Moretta, dimora di famiglia dal 1629, e precedentemente dei Bembo, dal XV secolo; l’altro è l’hotel Gritti), altri che sono importanti pagine dell’urbanistica cittadina, come quello che appartenne alla famiglia vicino a campo Santo Stefano, ora sede del conservatorio; oltre a una villa a Mira, vollero a Stra la “regina” delle ville venete, affrescata da Gianbattista Tiepolo nel 1671, oggi museo nazionale. I Pisani si sono divisi in alcuni rami, possedendo, o commissionando, autentici capolavori d’arte; è una vicenda, dice Craievich, «degna di un romanzo storico». Sono stati anche importanti donatori dei musei veneziani: tra l’altro, hanno regalato il Dedalo e Icaro e un Amorino in gesso di Antonio Canova, La morte di Dario di Giambattista Piazzetta, il servizio da viaggio in noce e argento creato dagli argentieri di Augsburg per le nozze tra Vettor Pisani e Caterina Grimani, e una parte dell’archivio di famiglia, dono dell’erede Leonardo de Lazara Pisani Zusto nel 1975. Tra gli arredi, vi sono anche oggetti d’uso quotidiano, che testimoniano la vita di una “casa bene”, con infinite curiosità: una carrozzina, bandiere da gondola, una farmacia da viaggio, le chiavi stesse del palazzo.

Però, il capolavoro per il quale i Pisani Moretta andavano famosi non c’è più. Craievich ne accenna in tre righe nell’introduzione del catalogo, che alla storica cessione non dedica poi troppo spazio. Eppure La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro di Paolo Caliari “il Veronese” (1528-1588), larga 4,75 e alta 2,36 metri, fa esclamare a Johann Wolfgang Goethe nel Viaggio in Italia: «Ho ammirato il migliore e più fresco quadro veneziano». 

Paolo Veronese, La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro (1565-1570), Londra, National Gallery.


manifattura Pasquale Antonibon di Nove, servizio da tavola composto da centonovantotto pezzi (1740-1750).

A palazzo Pisani Moretta rimane la cornice, da sempre esclusa dalla vendita: inquadra ancora una copia del Veronese


Nel palazzo sul Canal grande gli era riservata una stanza; e una tela non meno enorme, La morte di Dario, era stata commissionata a Piazzetta per fargli da pendant. Un quadro «bellissimo e da Prencipe», scrive il nunzio Giovanni Antonio Massani, nel 1632, al cardinale Francesco Barberini il quale, racconta la studiosa romana Claudia Terribile, era a caccia di opere di Veronese. Era a Montagnana (Padova), a casa di un Pisani morto senza figli; Chiara Pisani lo porta a Venezia nel Settecento; lo fa restaurare e fa decorare la stanza che lo ospitava con un soffitto affrescato con l’Incontro tra Venere e Marte di Tiepolo, e aggiunge uno scalone che resta tra i più belli in laguna. Ma l’ultimo del casato, Vettor Daniele Zusto, conte (austriaco) di Bagnolo (1789-1874), vende il Veronese, in tutti i sensi immenso, alla National Gallery di Londra, nel 1857: vi approda salpando da Trieste dopo venti giorni di viaggio. Pagato 13.650 sterline: 17.445 napoleoni d’oro, 354.900 lire del tempo; oggi, sarebbero un milione e mezzo di euro. 


Palma il Vecchio, Sacra conversazione (1525 circa), Napoli, museo di Capodimonte.

E il bello è che Zusto (ma quanto “zusto” era?) non necessitava di quattrini: quindici anni dopo avrebbe lasciato un patrimonio immenso. Però, persi prematuramente i due figli maschi, e restandogli le tre figlie sposate (Laura, Cornelia e Beatrice), vende il capolavoro di casa, orgoglio della famiglia, perché «non quistionino su questo quadro indivisibile», scrive Alvise Zorzi. Per John Ruskin, tra gli assertori dell’acquisto, «il Veronese più prezioso al mondo e praticamente senza prezzo».

Il soggetto è raro: un «melodramma recitato con molto decoro», dice Rodolfo Pallucchini. La famiglia dello sconfitto Dario III di Persia è in ginocchio davanti ad Alessandro e a un gruppo di guerrieri tra cui Efestione, che la madre di Dario scambia per Alessandro Magno, mentre questi lo indica quale suo degno “alter ego”; i committenti sono anch’essi prostrati davanti al re macedone che incarna le virtù e qualità di un gentiluomo del Cinquecento, nella posa d’adorazione riservata al divino. Il dipinto è coevo, e di composizione simile, a quelli realizzati da Veronese nella chiesa veneziana di San Sebastiano, le Scene della vita del santo e della Vita di Ester, e ai quattro per la famiglia Cuccina, dal palazzo sul Canal grande (poi Foscarini e Giovannelli) finiti a Dresda. 


Un quadro così famoso, che tutti i viaggiatori correvano ad ammirarlo. Tanto che, mai successo, il contratto con Londra assegna il dodici per cento del prezzo ai domestici, «per compensarli della cessazione delle sportule», le mance destinate a ridursi: lo dice Emanuele Cicogna, erudito veneziano del tempo. A palazzo Pisani Moretta rimane la cornice, da sempre esclusa dalla vendita: inquadra ancora una copia del capolavoro, opera di tal Francesco Minorello, dipinta nel 1656 per un palazzo di famiglia a Este (Padova). Da quando, nel 1946, il Piazzetta è stato donato a Venezia, gli fa compagnia un altro Minorello, Alessandro dona Campaspe ad Apelle. Qualcuno chiamava ancora il locale che ospitava il Veronese «la stanza del quadro» nel 1870, anche se, da circa vent’anni, quel dipinto non c’era più. Era stato di una famiglia che, nel 1770, possedeva a Venezia cinquantanove case e trentacinque botteghe, oltre a montagne di liquidi fatti fruttare in banca; e, in terraferma, cinquemila campi. Sono notizie che si ricavano dai documenti di famiglia, ben analizzati nel catalogo. Che racconta anche di donne sbattute in convento, di amori improbabili o impossibili, di processi durati decenni per le eredità. Un’epopea tutta da leggere.

Perché, se si esclude questa (parziale) omissione, la mostra è molto bella. Al nucleo di opere donate dai Pisani alla città, ne accosta un altro centinaio che furono già loro e provengono ormai da altre collezioni; tra cui una Sacra conversazione di Palma il Vecchio. Da palazzo Pisani giungono anche il Ritratto di Vettor Pisani di Alessandro Longhi, quattro Allegorie femminili cariche di dolcezza, tele di Pietro Liberi, già ricordate nel 1751 da Charles-Nicolas Cochin, e di Giulio Carpioni e Luca Ferrari, oltre ad arredi e suppellettili in quantità. I Pisani Moretta sopravvivono a lungo ai cugini detti di Santo Stefano; il Veronese è l’ultimo capolavoro del Rinascimento a lasciare la città: sette anni prima, a San Pietroburgo erano già emigrati i venti Tiziano rimasti nello studio dell’artista fino alla morte, vanto della collezione Barbarigo della Terrazza, detta “la scuola” di Vecellio per quanti suoi dipinti possedeva; centosei quadri che prendono il volo. I due palazzi, quelli Barbarigo e Pisani, sono contigui e, per breve tempo a causa della morte di un giovanissimo erede, le raccolte sono state perfino unificate da un matrimonio. Ormai, lo sono soltanto dalle infaustissime cessioni. Non le compensano i dipinti rimasti sul Canal grande (e nemmeno nei musei), o i bellissimi oggetti, ora in mostra, di cui i Pisani si circondavano. Tra cui un servizio da tavola di centonovantotto pezzi di metà Settecento, della manifattura di Pasquale Antonibon di Nove, presso Bassano. O i due piani di consolle con commessi di pietre dure e tenere, ormai a Ca’ Rezzonico, con lo stemma Pisani e sopra il galero vescovile, dedicati alla Fenice e a Orfeo e gli animali, «opere di straordinaria ricchezza, uniche nel loro genere», spiega Craievich, poiché di un lapicida che di solito ha lavorato soltanto nell’ambito dell’arte sacra. E vetri splendidi per i quali Chiara Pisani aveva un’autentica passione. Forse, se fosse stata ancora in vita a metà Ottocento non dovremmo lamentare la perdita del Veronese, determinata soltanto dal desiderio di ripartire equamente un’eredità.

ART E DOSSIER N. 325
ART E DOSSIER N. 325
OTTOBRE 2015
In questo numero: UNA GEOMETRICA BELLEZZA Parrino, astrazione punk; Malevič-Lisickij, un rapporto difficile; Arti decorative: ceramiche arcaiche, pavimenti medievali, Owen Jones. IN MOSTRA Burri, Picassomania, Malevič, Prostituzione, Giotto.Direttore: Philippe Daverio