Grandi mostre. 1 
Alberto Burri a New York

l’america
della scoperta

Cento opere per i cento anni dalla nascita di Burri: il Guggenheim Museum rende omaggio al grande artista italiano che l’America contribuì a rivelare.

Giuliano Serafini

L'artista “nasce” in America. E non solo là dove ci porta l’aneddoto - tra i rarissimi della sua biografia - che è a Hereford, Texas. L’anno è il 1944, quando il tenente medico Burri Alberto, rinchiuso nel campo degli “irriducibili”, decide che l’umanità non meriterà i suoi servizi. Una “révolte” camusiana, la sua, che andrà nella direzione più improbabile e arrischiata: l’arte.

E sarà ancora l’America ad accorgersi per prima di questo italiano “feroce” - Francesco Arcangeli pensava sicuramente a lui auspicando l’artista venturo capace di spazzare via quanto l’arte italiana stava balbettando in quegli anni - e ad accoglierlo nella sua orbita. Sta qui il vero esordio di Burri, quello che promette la carriera maggiore, fulminante. A fargli da apripista sono la Allan Frumkin Gallery di Chicago, la Stable Gallery e la Martha Jackson di New York, fino al primo mentore J.J. Sweeney, direttore del Solomon R. Guggenheim che lo inserisce nel 1953 nella storica mostra Young European Artists: A Selection e due anni più tardi gli dedicherà la prima monografia.

Ma l’idillio americano si fa presto conflittuale. Con l’accanimento e la pervicacia che hanno fatto la sua leggenda, Burri addossava a Rauschenberg la “colpa” di avergli attraversato la strada; dimenticando che in realtà era stata la Pop Art (cui peraltro il giovane texano appartenne solo marginalmente) ad avviare un colossale apparato mercantile in controffensiva antieuropea e a voltargli le spalle. La visita che nel 1953 Rauschenberg gli fa nello studio romano di via Margutta, quando Burri ha appena terminato la splendida terna dei Grandi sacchi, diventa il pretesto di una querelle a senso unico, dove l’oggetto del contendere è il plagio di cui l’artista di Port Arthur si sarebbe reso responsabile con i suoi “combine paintings”.


Quello di Burri per l’America fu sicuramente amore, e il vincolo ombelicale sarebbe rimasto intatto


Fatto è che quello di Burri per l’America fu sicuramente amore, e il vincolo ombelicale sarebbe rimasto intatto, riemergente alla prima occasione, come una nostalgia o un sentimento di incompiutezza difficile da gestire, e i soggiorni invernali a Los Angeles dove aveva aperto casa e studio non l’avrebbero fatto ricredere. Il “torto” subìto restava, e per un ego vendicativo come il suo, il debito doveva prima o poi essere onorato.


Grande bianco plastica (1964).

Dalla grande affermazione europea degli anni Sessanta le mostre americane si susseguono costanti con questa riserva di fondo. Tra le più significative, l’itinerante Alberto Burri: A Retrospective View curata da Gerald Nordland che nel 1978 fa tappa al Solomon R. Guggenheim di New York. L’attuale grande retrospettiva, che celebra con cento opere il centenario della nascita di Burri, torna al nastro elicoidale di Wright per diventare, azzardiamo, una sorta di “revanche” postuma.

Trentasette anni dopo, l’America della scoperta battezza The Trauma of Painting - titolo bellissimo e polisemico, dove “of painting” sta per “della pittura” e insieme “del dipingere” - l’opera del suo figliuol prodigo. “Trauma” come “ferita”, a detta dell’etimo, come «lesione prodotta dall’azione violenta di una causa esterna», anche se l’esegesi della mostra guarda chiaramente al significato estensivo del termine, e soprattutto alla sua anima psicanalitica, croce e delizia, come ben sappiamo, del pensiero filosofico e sociologico americano. Lo stesso Sweeney negli anni Cinquanta aveva parlato di «lacrime e sangue» insinuando una chiave di lettura contenutistica dell’opera di Burri. Un orientamento critico, questo, che nel tempo (e per sollievo dell’artista stesso e nostro) avrebbe ceduto all’urgenza ontologica della forma e al suo prodigioso manifestarsi attraverso un input fenomenologico. Come dire: “trauma” certamente, ma strumentale a che un obiettivo di bellezza venga raggiunto. Questo solo ha contato per Burri e per la storia dell’arte. La tentazione di uno sbocco simbolico-concettuale che l’espressionismo astratto americano e l’“informel” europeo non erano riusciti a evitare, nel caso dovrà dirottarsi altrove.
Condizione vitale dell’opera di Burri è che un dato fenomeno si sia prodotto all’interno del suo spazio fisico. E il fenomeno richiede materia su cui agire e produrre una mutazione. Lo strappo, il rattoppo, la cucitura, la combustione, l’ossidazione, l’evento tellurico, ma anche la sedimentazione di pigmento nei neri, sono il suo esito, quello che resta, quello che è accaduto e non potrà più accadere. L’opera non è nell’atto, nell’urto e nello sconvolgimento che le sono stati necessari per esistere, ma solo “dopo”. La misura che sa ritrovare la legge sublime della sezione aurea e il silenzio dell’arte maggiore sta in questo superamento del contingente, del caso diventato necessità, in questo appagamento apollineo dopo che Dioniso ha fatto il suo corso. E sarà solo misura classica.

Legno e bianco I (1956), New York, Solomon R. Guggenheim Museum.


Ferro SP (1961), Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea.

Alberto Burri: The Trauma of Painting

a cura di Emily Braun con Megan Fontanella e Carol Stringari
New York, Solomon R. Guggenheim Museum, 1071 Fifth Avenue
orario 10-17.45, sabato 10-19.45, chiuso il giovedì
dal 9 ottobre 2015 al 6 gennaio 2016
Ha collaborato la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello
www.guggenheim.org, catalogo Guggenheim Museum Publications

ART E DOSSIER N. 325
ART E DOSSIER N. 325
OTTOBRE 2015
In questo numero: UNA GEOMETRICA BELLEZZA Parrino, astrazione punk; Malevič-Lisickij, un rapporto difficile; Arti decorative: ceramiche arcaiche, pavimenti medievali, Owen Jones. IN MOSTRA Burri, Picassomania, Malevič, Prostituzione, Giotto.Direttore: Philippe Daverio