Dalla grande affermazione europea degli anni Sessanta le mostre americane si susseguono costanti con questa riserva di fondo. Tra le più significative, l’itinerante Alberto Burri: A Retrospective View curata da Gerald Nordland che nel 1978 fa tappa al Solomon R. Guggenheim di New York. L’attuale grande retrospettiva, che celebra con cento opere il centenario della nascita di Burri, torna al nastro elicoidale di Wright per diventare, azzardiamo, una sorta di “revanche” postuma.
Trentasette anni dopo, l’America della scoperta battezza The Trauma of Painting - titolo bellissimo e polisemico, dove “of painting” sta per “della pittura” e insieme “del dipingere” - l’opera del suo figliuol prodigo. “Trauma” come “ferita”, a detta dell’etimo, come «lesione prodotta dall’azione violenta di una causa esterna», anche se l’esegesi della mostra guarda chiaramente al significato estensivo del termine, e soprattutto alla sua anima psicanalitica, croce e delizia, come ben sappiamo, del pensiero filosofico e sociologico americano. Lo stesso Sweeney negli anni Cinquanta aveva parlato di «lacrime e sangue» insinuando una chiave di lettura contenutistica dell’opera di Burri. Un orientamento critico, questo, che nel tempo (e per sollievo dell’artista stesso e nostro) avrebbe ceduto all’urgenza ontologica della forma e al suo prodigioso manifestarsi attraverso un input fenomenologico. Come dire: “trauma” certamente, ma strumentale a che un obiettivo di bellezza venga raggiunto. Questo solo ha contato per Burri e per la storia dell’arte. La tentazione di uno sbocco simbolico-concettuale che l’espressionismo astratto americano e l’“informel” europeo non erano riusciti a evitare, nel caso dovrà dirottarsi altrove.
Condizione vitale dell’opera di Burri è che un dato fenomeno si sia prodotto all’interno del suo spazio fisico. E il fenomeno richiede materia su cui agire e produrre una mutazione. Lo strappo, il rattoppo, la cucitura, la combustione, l’ossidazione, l’evento tellurico, ma anche la sedimentazione di pigmento nei neri, sono il suo esito, quello che resta, quello che è accaduto e non potrà più accadere. L’opera non è nell’atto, nell’urto e nello sconvolgimento che le sono stati necessari per esistere, ma solo “dopo”. La misura che sa ritrovare la legge sublime della sezione aurea e il silenzio dell’arte maggiore sta in questo superamento del contingente, del caso diventato necessità, in questo appagamento apollineo dopo che Dioniso ha fatto il suo corso. E sarà solo misura classica.