L'ingresso di quell’uomo alto, dinoccolato, vestito di nero, nell’aula semioscura di via Zamboni 33, all’Istituto di storia dell’arte dell’Università degli studi di Bologna, era destinato a mutare il corso di diverse vite, ma soprattutto quella di un giovane che allora aveva diciannove anni, Francesco Arcangeli.
L’aula era gremita, Longhi pronunciava la prolusione al corso di storia dell’arte, Momenti della pittura bolognese (poi pubblicato)(1), che sarà per decenni, e lo è tuttora, uno degli assi portanti della storia della pittura bolognese ed emiliana.
Era l’autunno del 1934 e per il giovane iscritto al secondo anno, che aveva intenzione di laurearsi su Francesco Guicciardini, quella lezione fu, come scrisse più tardi, «una chiamata irresistibile a seguirlo».
Seguendo il suo stesso testo come una sorta di traccia, Longhi continuò a perlustrare per decenni la pittura locale, dando nuova vita al Trecento e soprattutto al Seicento. Nel 1936 Francesco Arcangeli - di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita con una serie di iniziative e un’antologia di scritti editi da Minerva Editoriale di Bologna - si laureò con una tesi su Jacopo di Paolo.
Figlio di un militare riminese, Francesco (1915-1974), ultimo fratello di Angelo, futuro musicista, Gaetano, celebre poeta e Bianca, pittrice e fedele custode del lavoro dei fratelli, si avviò allora all’iter della carriera di insegnante. Assistente volontario di Roberto Longhi per diversi anni, Arcangeli per sopravvivere andò a insegnare al liceo classico, e ottenne la cattedra di storia dell’arte medievale e moderna (che fu del suo maestro) all’Università degli studi di Bologna alla fine degli anni Sessanta.
Ricoprì anche la carica di ispettore alla Soprintendenza alle Gallerie e fu direttore della Galleria d’arte moderna di Bologna (oggi MAMbo).
«Il ragazzo», ricordò il fedele amico di tutta la vita Pompilio Mandelli, «era dotato d’intelligenza precoce e di prontezza d’ingegno. Leggeva con passione Pascoli, Campana, Cardarelli, Ungaretti. S’interessava di pittura moderna»(2).
Dopo la guerra, nella quale si prodigò per salvare opere d’arte della Pinacoteca nazionale di Bologna, Francesco inizia a lavorare a tutto campo. Collabora alla progettazione della mostra su Giuseppe Maria Crespi, partecipa all’allestimento dell’esposizione dedicata al Trecento, scrive su Filippo de Pisis, sul Seicento riminese, sulla mostra di Monet a Parigi (1952). Ma soprattutto, anche in questo seguendo le orme del suo maestro, comincia ad abbattere i confini che, tradizionalmente, separavano la storia dell’arte dalla critica d’arte “militante”.
Antico e contemporaneo convivono, così come la sua indefessa attività di ricercatore e studioso: sono in molti a Bologna a ricordarlo passeggiare con un quadro ricoperto da carta di giornale sotto il braccio.
Lo divertiva l’eccentrico, l’ignoto, lo sfortunato: preferì sempre Ludovico Carracci a suo cugino Annibale, come lo storico bolognese Carlo Cesare Malvasia che aveva dato precisa descrizione dei caratteri dell’uno e dell’altro. Arcangeli nei “suoi” preferiti non amava il successo facile, la mondanità, né nell’arte né nella vita. «Ludovico», scrive, «è l’autore che funge da insostituibile nodo di raccordo […] in favore d’una vita quotidianamente sentita, di un rapporto diretto tra opera d’arte e spettatore; in favore di quelle ragioni esistenziali che sono il fulcro di quanto andiamo proponendo»(3).