XX secolo. 2
Il primitivismo e l’espressionismo italiano

Firenze
docet

Le origini dell’espressionismo italiano sono più precoci di quanto si pensi. Risalgono addirittura ai primi anni del Novecento. E la Toscana sembra esserne l’incubatrice, con le ricerche di alcuni artisti tendenti al primitivismo e alla deformazione del reale.

Alessandra Borgogelli

Primitivismo e deformazione nel primo Novecento italiano? Certo, nonostante che alcuni critici di oggi non siano d’accordo. Mi si dirà che cominciare un articolo con una domanda non va bene, che non è conveniente e che non risponde a una scientificità corretta. Non è detto però che le “critiche” siano sempre giuste. Vi pare possibile, da un punto di vista fenomenologico - quello che pone gli stili al di sopra delle singole esperienze, quello che dimostra che in generale le varie generazioni di artisti presentano caratteristiche simili -, vi pare possibile, dicevo, che gli artisti italiani possano essere diversi dagli altri, in particolare dai colleghi d’oltralpe? Mi sembra corretto pensare che esistano precise omologie, anche se articolate secondo principi diversi(1)

In varie occasioni ho cercato di focalizzare l’attenzione sulla cultura toscana, che risulta un’ottima officina di primitivismo e deformazione. Mi è sembrato giusto spostare il dibattito verso l’inizio del Novecento e non, come spesso si sostiene, verso la fine del secondo decennio. Il Carrà “arrabbiato”, dopo il periodo futurista, non apre ma chiude un periodo espressionista, con cinque dei suoi lavori più importanti, fra i quali La carrozzella (1916). Poco più tardi infatti Carrà si calmerà sulla scia degli studi compiuti nel 1916 su Giotto e Paolo Uccello. Ciò avviene due anni dopo avere sottolineato su “Lacerba” (15 marzo del 1914) la grande importanza della deformazione in pittura, che porta il quadro a una sintesi di costruzione «rompendo gli schemi prospettici [e] deformando la realtà apparente». Soffici, grande oppositore delle soluzioni espressioniste, non capisce questo imbarbarimento basato su «un nuovo carattere infantile» e rimprovera all’amico il «primitivismo di quella specie» e «il salto violento nel primordiale». 

Del resto, la molla della deformazione espressionista ritorna ciclicamente. Si tratta di una retrogradazione di linguaggio, la stessa che, riferendosi al Quattrocento, impostano prima Fattori, poi de Chirico e molti artisti del “ritorno all’ordine”. «Tengo a essere retrogrado e sto con gli antichi che ci sto bene», diceva il livornese. Così come, più tardi, lo stesso de Chirico mette in campo un ritorno al Quattrocento secondo un principio di «originarietà». Negli anni Trenta la rivolta antinovecentista gioca il «primordio » di Corrado Cagli, l’espressionismo di Scipione quasi avvolto in una placenta infuocata, quello agitato di Mario Mafai e di Antonietta Raphaël, cui si aggiunge il primitivismo a volte incantato dei milanesi (Tullio Garbari, Renato Birolli, Francesco De Rocchi…) o dei Sei di Torino. Ricordiamo pure l’Art Brut di Jean Dubuffet e certo espressionismo astratto americano, fino alle trasgressioni della Transavanguardia. Ultimamente poi parlano di espressionismo le riprese di esperienze africane e il selvaggio bagaglio dei writers.


Alberto Magri, La cattiva madre, Maldicenza (1914).

(1) Nel 1990 Renato Barilli e io abbiamo organizzato una vasta mostra presso la Mole Antonelliana di Torino (centonovantadue opere), L’Espressionismo italiano – catalogo della mostra, Milano 1990 –, che però in genere è stata ignorata negli studi successivi. E ancora una volta non ha avuto molta attenzione una rassegna del 2014 sugli stessi temi, tenutasi prima a La Spezia, poi a Viareggio: L’urlo dell’immagine. La grafica dell’Espressionismo italiano, catalogo della mostra, a cura di M. Ratti, A. Belluomini Pucci, Torino 2014.

La molla della deformazione espressionista ritorna ciclicamente


Per ciò che riguarda il tema di questo articolo si tratta di espressioni dal “basso”, sia in senso temporale, cioè “lontane”, sia come simbolo di protesta, di povertà, di degrado e sfortuna, certamente in parte legate ai sentori della Grande guerra. Le “retrogradazioni” riguardano vari campi, compreso quello dell’inconscio(2). Si ripropongono anche gli “albori” mentali, quelli però legati prevalentemente ai fatti negativi della vita che sfociano in un proto esistenzialismo risalente alle origini umane. E ancora si ritorna indietro negli stili e nelle tecniche. A questo punto dobbiamo ricordare che l’Italia presenta da secoli problematiche differenti e molteplici, legate alle tante capitali con le loro lunghe storie e diversità stilistiche. Tale fenomeno non avviene invece in Francia e in Germania, dove la cultura si coagula intorno a pochi centri. I vari fulcri culturali della nostra penisola invece rigiocano le loro antiche carte, soprattutto quelle medievali o primo quattrocentesche, fatte comunque di “dotte ingenuità” o di saporiti primitivismi. Così l’espressionismo italiano si allarga a macchia d’olio in tutta la penisola. Siamo di fronte a tanti fratelli che si assomigliano, ma che mantengono un preciso DNA regionale. L’Italia infatti non ha bisogno di guardare alle culture extraeuropee come in parte hanno fatto i colleghi d’oltralpe. “Si gioca in casa”, si direbbe usando il linguaggio del calcio, anche se ciò non esclude una profonda conoscenza dei fatti culturali europei, in particolare di quelli parigini. Alla fine però il recupero del primitivismo italiano è vincente e fortemente voluto. Insomma l’Italia in questo caso mantiene una sua autonomia: saranno importanti per esempio gli affreschi senesi dei Lorenzetti per Alberto Magri, così come i lavori di Tomaso da Modena per Arturo Martini, o le sculture lignee del Duecento e Trecento per Lorenzo Viani. 

Dal 1914 intorno all’opera di Magri nasce proprio in Toscana un forte dibattito sul primitivismo(3), tanto che anche le tecniche artistiche ritornano al passato remoto. Ciò risulta chiaramente anche da tutto il côté incisorio, dove il ricorso alla xilografia diventa portante, come ben dimostra l’attività della rivista “L’Eroica”. È Magri a reinventare le predelle grazie a una tecnica particolare, «a calce, sopra tavole preparate con successivi strati di gesso, a tempera col latte», pervenendo a risultati che hanno «l’apparenza e i pregi della pittura a fresco»(4). Anche Martini si diverte a “cucinare” in modo primitivo le proprie incisioni: «Facevo le incisioni sulla creta, la cucinavo, le davo poi una mano di gommalacca, e la stampavo col manico d’osso dell’ombrello. E per non rompere la carta le davo un po’ di cera sul rovescio, così mi scivolava. La chiamavo cheramografia»(5).


di Alberto Magri, Il bucato (1913).


di Alberto Magri, La vendemmia (1912), particolare.


Emilio Mantelli, La falce (senza data).

(2) Per tale problema si veda M. Calvesi, La Metafisica schiarita, Milano 1982.
(3) Cfr. A. Borgogelli, Primitivismo e deformazione, in L’Espressionismo italiano, cit.; e anche Espressionismo e primitivismo in Toscana, in L’urlo dell’immagine, cit.
(4) G. Borsi, Alberto Magri, in “Il Nuovo Giornale”, 3 giugno 1914.
(5) A. Martini, A colloquio, in G. Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, Milano 1968, p. 140.

Arturo Martini, La pastora (1913), Treviso, Fondazione Cassamarca;


Emilio Mantelli, Soldati in marcia (1916 circa).

Gli artisti toscani compiono un ritorno diretto verso le origini


Sempre Magri, dopo il dibattito del 1914 durante il quale vari critici lo collegano ai primitivi e a Rousseau, attira l’attenzione di Umberto Boccioni in occasione della mostra milanese del 1916 presso la Famiglia artistica. La sua, ci spiega il capofila del futurismo, «è un’arte antifotografica, antiaccademica, che riporta elementi primordiali [dove l’artista] non è un ingenuo, ma un coltissimo rievocatore della maniera, del gusto, dello stile di un’epoca rivoluzionaria e sapientissima qual è quella del Medioevo e che gli storici chiamano dei Primitivi» (Viani invece risulta indigesto a Boccioni per il suo «ieratismo angoloso stecchito gotico»)(6). È compito del “primitivo” Magri riproporre immagini secondo un principio paratattico: si tratta di processioni nei campi, di delicati bucati al sole o di riti della vendemmia. Ma i bimbi e gli adulti di Magri, apparentemente candidi e divertiti, in realtà sono profondamente deformati, fino a diventare delle specie di mostri, spesso macrocefali. Da parte sua Viani, uno dei casi maggiori dell’espressionismo italiano, ritorna alle origini per «dare la profonda realtà degli uomini e delle cose» e perciò sottolinea l’importanza di «deformare per armonizzare, decomporre per ricostruire». Lui stesso, inoltre, ci spiega la sua linea preferenziale: «Egizi, etruschi, babilonesi, bizantini, primitivi, quale superba meravigliosa armonia delle più audaci deformazioni»(7). Al contrario di quello di Magri, il suo è un mondo di poveri e di diseredati. Ciò che conta è vedere come in fondo la molla primitivista si manifesti secondo due linee diverse: l’una candida e innocente, quella di Magri e del primo Rosai, l’altra drammatica e cupa, quella di Viani, di Mantelli, di Moses Levy e di altri. In comune le due linee hanno le potentissime deformazioni che costituiscono le facce della stessa medaglia. 

Tutto ciò non viene compreso da Ardengo Soffici in varie occasioni. Gli espressionisti toscani infatti compiono un ritorno diretto verso le origini, mentre Soffici attua un ritorno indiretto, grazie alla mediazione dell’arte francese dell’Ottocento, quella che passa per Cézanne, Rousseau e per gli impressionisti che sono visti come «gli iniziatori di un’epoca nuova». 

A Firenze si avvia un dibattito sulla follia anche in questo caso secondo due linee opposte: quella di Giovanni Papini e quella di Aldo Palazzeschi. Il primo insiste sulla «necessità dello studio de’ concetti negativi (“nulla […], assurdo, male […], pazzia…”)». Le teorie elaborate da Papini ci portano all’immanenza dei fatti di vita, in particolare di quelli legati al “basso”, al dolore, alla povertà (Viani, Mantelli…). Esiste però anche un’altra via che dà importanza a scene di vita più piacevoli, risolvendole a volte secondo un principio di “docta ignorantia” (Magri, Balduini, il primo Rosai). Ed ecco che in tal caso, a mio parere, il referente letterario può diventare Palazzeschi che, come Papini, in varie occasioni ha sottolineato - in modo diverso - il tema della follia. Superando la “negatività” papiniana, Palazzeschi, infatti, ribalta questo stato d’animo verso il comico, non verso il tragico, e dunque alleggerisce i contenuti. La famosa dichiarazione «E lasciatemi divertire!» lo dimostra, con quella “e” che diventa molto significativa proprio perché rappresenta la congiunzione con la parte di vita legata al “ludus” e al riso liberatorio.


di Lorenzo Viani, I litigiosi (1910-1915), a Viareggio, Galleria d’arte moderna e contemporanea Lorenzo Viani.


di Lorenzo Viani, Benedizione dei morti del mare (1914-1916), a Viareggio, Galleria d’arte moderna e contemporanea Lorenzo Viani.


Ottone Rosai, Vallesina (1916).

(6) U. Boccioni, L’arte di Alberto Magri, in “Gli Avvenimenti”, 14 maggio 1916; Bassorilievi in legno di Lorenzo Viani, in Umberto Boccioni. Gli scritti editi e inediti, a cura di Z. Birolli, Milano 1971, p. 415.
(7) L. Viani, Note d’arte. “L’arte è armonia di errori” (1915), in I. Cardellini Signorini, Lorenzo Viani, Firenze 1978.

ART E DOSSIER N. 324
ART E DOSSIER N. 324
SETTEMBRE 2015
In questo numero: PRIMITIVISMI L'editoriale di Philippe Daverio; Il volto del serpente, l'Espressionismo in Toscana, Klee, Africa oggi; GLI UFFIZI a Casal di Principe; CINA OTTOCENTO La scoperta della fotografia. IN MOSTRA La Grande Madre, Gruppo Zero.Direttore: Philippe Daverio