XXI secolo
Il primitivismo e l’arte africana

la memoria
del corpo

Recuperare il patrimonio culturale del continente africano, prima del processo di colonizzazione, è la preoccupazione di artisti contemporanei come il nigeriano Jelili Atiku, capace di restituire attraverso le sue performance significati e contenuti di tradizioni soffocate e appiattite da una visione antropologica basata esclusivamente su parametri occidentali.

Elena Agudio

Per lungo tempo l’antropologia e l’etnografia si sono presentate e identificate come discipline focalizzate sullo studio delle società primitive e fondate su un principio di arrogante comprensione dell’“altro”. La cultura occidentale, con il suo afflato intimamente colonialista, sembra avere costantemente cercato e abusato di una certa celebrazione del sentimento esotico, del diverso e della differenza. La ricerca antropologica contemporanea e il dibattito filosofico sviluppato dalla teoria postcoloniale negli ultimi decenni hanno certamente contribuito a criticare questa visione e a superare un’epistemologia esclusivamente occidente-centrica. 

Il nuovo crescente interesse nell’arte africana, promosso dal mercato europeo e americano con la stessa retorica etnografica e con una simile operazione di traduzione e di appiattimento su parametri occidentali, rischia però talvolta di neutralizzare l’importanza di certi discorsi emancipatori e del principio di autodeterminazione culturale per cui alcuni degli artisti di oggi attivi nel continente africano si battono. 

Rifacendosi alla letteratura postcoloniale più radicale, dalla Critica della ragione postcoloniale(1) di Gayatri Chakravorty Spivak fino alla Postcolonial Melancholia(2) di Paul Gilroy, il poeta e teorico nigeriano Esiaba Irobi si è più volte concentrato sulla questione della violenza epistemica del colonialismo e dell’imperialismo, interrogandosi sulla possibilità di ripensare i dispositivi del sapere e le cartografie del potere da una prospettiva nera e africana. Nel saggio The Problem with Post- Colonial Theory: Re-Theorizing African Performance, Orature and Literature in the Age of Globalization and Diaspora Studies(3) pubblicato nel 2008 poco prima della sua morte prematura, Irobi solleva il problema del paradosso di un discorso postcoloniale obbligato a parlare la lingua dell’Occidente e plasmato su un’ontologia circoscritta a categorie prettamente occidentali. 


Le culture orali hanno sempre preferito la codificazione delle esperienze artistiche attraverso la narrazione verbale e – soprattutto – attraverso il corpo


Concentrandosi sullo studio della performance e delle arti performative in genere, Irobi si domanda quanto sia legittimo considerare l’accademia occidentale come il luogo in grado di fornire l’occasione e le infrastrutture linguistiche per teorizzare l’arte africana performativa, e scrive: «Vogliamo dire che le comunità africane, le cui creazioni teatrali eguagliano i Greci nella loro complessità mitopoietica e nella loro sofisticatezza polisemica, sono incapaci di teorizzare le loro - proprie - arti performative?»(4). Come d’altronde aveva già sostenuto lo scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o in Decolonising the Mind: the Politics of Language in African Literature (1986), Irobi insiste sull’importanza di elaborare queste riflessioni nelle lingue indigene e sul ruolo cruciale che la lingua e il linguaggio rivestono nella complessa operazione di decolonizzazione della mente di popolazioni che sono state vittime della colonizzazione.


Jelili Atiku, Egungun Alabala Mandela (Oginrinringinrin I), University of Texax at Austin, venerdì 11 aprile 2014.

(1) G. C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Roma 2004.
(2) P. Gilroy, Postcolonial Melancholia, New York 2005.
(3) “Sentinel Literary Quarterly”, vol. 2, n. 1, ottobre 2008 (http://www.sentinelpoetry.org. uk/slq2.1/esiaba_irobi.htm)
(4) Traduzione di chi scrive: «Are we suggesting that African communities whose theatrical creations equal the Greeks in their mythopoeic complexity and polysemic sophistication are incapable of theorizing their own performances?».

Jelili Atiku, Obaranikosi (In The Red Series #16), Makoko (Lagos, Nigeria), giovedì 12 dicembre 2013.


Jelili Atiku, Egungun Alabala Mandela (Oginrinringinrin I), University of Texax at Austin, venerdì 11 aprile 2014.

Esiaba Irobi prosegue nel saggio sopra citato chiedendosi come sia possibile pensare che nelle città e nei villaggi africani non ci siano e non ci siano stati intellettuali, come sia possibile pensare al continente africano solo nel frammento temporale del colonialismo e del periodo postcoloniale, come se nulla fosse accaduto prima e nessuna filosofia e riflessione teoretica africana avesse mai ragionato sulla sua arte e il suo teatro. 

Perché invece - si domanda - non rielaborare le tradizioni degli stati africani precoloniali, e non articolarle e canonizzarle con teorie fondate sulle rispettive culture yoruba, akan, igbo, kalabari, ashanti, zulu, bambara, kikuyu ecc., in un continuum storico che tenga insieme la storia africana e quella della diaspora? La scarsità di elaborazioni teoretiche scritte sulla “storia dell’arte” africana ha a che vedere con il fatto che alla disseminazione di informazioni e di conoscenza attraverso la scrittura, le culture orali hanno sempre preferito la codificazione e l’espressione di queste esperienze direttamente attraverso la narrazione verbale e - soprattutto - attraverso il corpo, attraverso la performance. Perché il corpo è in grado di funzionare come dispositivo e come luogo di riflessione teorica. 


Celebrare la potenzialità del corpo umano come dispositivo metaforico in grado di facilitare l’espansione della coscienza umana


È per questo che gli artisti africani contemporanei più radicali non solo contribuiscono a superare quel gap e quel punto traumatico di interruzione creato dal cortocircuito del colonialismo, ma utilizzano il loro stesso corpo per elaborare una riflessione che è allo stesso tempo anche (storico) artistica. 

L’esempio forse più interessante è quello di Jelili Atiku, un artista multimediale nato nel 1968 in Nigeria, noto specialmente per le sue battaglie politiche per i diritti umani e la giustizia nel mondo. Atiku dichiara: «Come principio di un mio personale processo di decolonizzazione, nel mio lavoro utilizzo metodi “egungun”. Questo non significa che riproduco performance egungun. Gli egungun sono creduti essere corpi celesti e questo è qualcosa di misterico; mentre io sono Jelili Atiku, il performer. Le mie performance sono basate su esperienze contemporanee»(5)

Con la parola “egungun” si fa riferimento alla pratica yoruba delle mascherate connessa al culto degli antenati, e agli antenati stessi come forza collettiva: nelle comunità yoruba una volta all’anno si celebrano cerimonie in onore dei morti, per assicurar loro un posto tra i vivi e permettere loro di tramandare i valori etici delle passate generazioni. 

Gli iniziati ai culti egungun, in veste di sacerdoti e di “alaagba”, ovvero capi spirituali, indossano elaboratissimi costumi carnevaleschi; attraverso la danza e la musica, si pensa vengano posseduti dagli spiriti degli antenati, che si manifestano come una entità unica, e che discendono a purificare la comunità.


Jelili Atiku, Alaagba (2014), performance processionale realizzata in una camminata da Richardplatz a SAVVY contemporary in occasione della mostra Giving Contours To Shadows (Berlino, maggio 2014).

(5) Traduzione di chi scrive da K. LeVine, Jelili Atiku. A Performance Artists’ Efforts Towards Visual Education & Change, in “Art & Culture”, 21 luglio 2014.
(6) Spazio indipendente per l’arte contemporanea fondato nel 2009 da Bonaventure Ndikung, e da me co-diretto: www.savvy-contemporary.com

Ed è proprio Alaagba il titolo della performance che Jelili Atiku ha realizzato nel contesto della mostra collettiva Giving Contours to Shadows a maggio 2014 a Berlino: una performance processionale nella forma di un “etutu”, un rituale di purificazione. Realizzato in una camminata da Richardplatz a SAVVY Contemporary 6, nel quartiere di Neükolln, il lavoro dell’artista nigeriano prende spunto dalla celebrazione dell’anniversario della conferenza di Berlino del 1884, lo storico congresso organizzato da Otto von Bismarck che sancì la definitiva spartizione del territorio africano tra le potenze coloniali europee. Il processo di decostruzione del corpo dell’artista e il rituale di trasformazione ispirato alle pratiche egungun assumono in Alaagba un forte valore politico e sociale, un momento di urgente riflessione sulla questione della decolonizzazione dell’Africa e sulle tradizioni culturali che prosperavano nel continente prima che avesse avuto inizio l’occupazione imperialista. 

Egungun-Alabala Mandela (Oginrinringinrin I) è un’altra performance processionale che Atiku ha realizzato in occasione della sepoltura di Nelson Mandela: attraverso l’utilizzo di precisi oggetti rituali di commemorazione e di solennità, Atiku ha celebrato Madiba come un “risha” (divinità), e ha messo in scena il rituale di allineamento con le energie e gli esseri spirituali, detti “Irunmole”. Tra gli oggetti simbolici utilizzati da Jelili, le “kanaga” (maschere dogon), che nei rituali di commemorazione dei morti della cultura dogon vengono sventolate dagli iniziati rotando la parte superiore del corpo, a creare cerchi a imitazione della forza creativa della vita, e a simboleggiare la dispersione della sua forza verso il mondo. Una metafora della grande leadership di Mandela. 

Prima di una serie di tre opere, questa performance porta il sottotitolo Yoruba Oginrinringinrin, che letteralmente significa visione profonda, e consente ad Atiku di celebrare la potenzialità del corpo umano come oggetto simbolico, come dispositivo metaforico in grado di facilitare l’espansione della coscienza umana verso alcune delle più cruciali questioni della società civile.


Jelili Atiku, Alaagba (2014), performance processionale realizzata in una camminata da Richardplatz a SAVVY contemporary in occasione della mostra Giving Contours To Shadows (Berlino, maggio 2014).

ART E DOSSIER N. 324
ART E DOSSIER N. 324
SETTEMBRE 2015
In questo numero: PRIMITIVISMI L'editoriale di Philippe Daverio; Il volto del serpente, l'Espressionismo in Toscana, Klee, Africa oggi; GLI UFFIZI a Casal di Principe; CINA OTTOCENTO La scoperta della fotografia. IN MOSTRA La Grande Madre, Gruppo Zero.Direttore: Philippe Daverio