All'epoca l’architetto fiorentino aveva cinquantun anni; il giovane pittore non fece a tempo a compierne ventisette, se è giusta l’ipotesi che sia mancato improvvisamente, sul principio di quell’estate, e per cause ignote (l’aneddotica dice per veleno). Come riferisce il libro del mercante Antonio Billi agli inizi del Cinquecento, Brunelleschi aveva frequentato a Firenze l’artista venuto dal Valdarno, nei pochi anni della sua folgorante e troppo breve attività. Doveva essersi accorto di quel suo «ingegno perspicace», e per questo gli avrebbe insegnato «molte cose dell’arte». Dichiarazione, questa, che ben si addice all’evidente padronanza di Masaccio nell’adottare le nuove regole prospettiche indagate da Filippo fra il 1415 e il 1420. L’applicazione corretta della “perspectiva artificialis” o prospettiva lineare, genialmente sperimentata dall’architetto fiorentino, esperto di ottica, arte e scienza, nelle famose tavolette prospettiche del battistero e di piazza Signoria, avrebbe permesso di ricostruire in pittura uno spazio esatto, razionale in cui far rivivere i personaggi e le “historie”. In modo più o meno evidente lo si riscontra in tutte le opere masaccesche, in particolare negli affreschi della cappella Brancacci, dove le figure appaiono saldamente situate in uno spazio realistico e umanizzato, e soprattutto nella complessa struttura della Trinità di Santa Maria Novella.
Una fortUna
tUtta postUma
«Noi habbiamo fatto una gran perdita» pare dicesse agli amici Filippo Brunelleschi commentando la notizia della morte precoce di Masaccio, avvenuta a Roma nel 1428.
Per la composizione di questa straordinaria scenografia affrescata, non a caso, è ancora diffusa l’opinione, anche se non sempre condivisa, della stretta collaborazione fra il giovane pittore e il maturo architetto. Brunelleschi, che coincidenza vuole fosse come lui figlio di un notaio, avrebbe aiutato Masaccio (rimasto orfano del padre e giunto a Firenze per cercare una sua strada) a tracciare sulla parete destinata all’affresco le linee di una perfetta rete prospettica. Che nella Trinità ci sia stato o meno l’intervento diretto di Brunelleschi, il risultato ai nostri occhi è una grandiosa sacra rappresentazione con le figure situate entro una cappella, voltata da un imbotte con classicissimi lacunari che paiono tratti da un edificio romano: uno spazio così profondamente concepito e verosimile, da far sembrare, come scriverà Giorgio Vasari, «che sia bucato quel muro».
Masaccio avrebbe forse gradito immaginare che il primo a rimpiangerlo sarebbe stato proprio Brunelleschi. Con quella laconica, lapidaria dichiarazione - «abbiamo fatto una gran perdita» - inizia dunque la fortuna critica dello sfortunato pittore: fortuna che è tutta postuma, come spesso accade agli artisti di talento scomparsi anzitempo. Cinque-sei anni di attività sono davvero pochi perché la personalità artistica di Masaccio potesse affermarsi appieno in una città, oltretutto, che più di ogni altra nell’Occidente pullulava di artisti e botteghe.
A Firenze l’uomo più potente e ricco degli anni Venti, l’erudito Palla di Nofri Strozzi, studioso di greco ed esperto di cultura bizantina, aveva commissionato a un artista raffinato come il marchigiano Gentile da Fabriano una pala sontuosa, l’Adorazione dei magi degli Uffizi (1423), ricca di ori e dettagli minuti. In quella pala, destinata alla cappella Strozzi ideata per lui da Lorenzo Ghiberti nella chiesa di Santa Trinita, si dispiega un corteo fiabesco: un mondo forse poco realistico ma affascinante e lieto, quello di Gentile, dove non c’è posto per l’intensità espressiva, perfino disperata, dei volti concepiti da Masaccio, come quelli celeberrimi, iconici di un dolore ineluttabile e senza requie, di Adamo ed Eva nella cappella Brancacci: un mondo, quello di Gentile, che più distante da quello di Masaccio non poteva essere.
La realtà di Masaccio appare tanto essenziale e priva di orpelli da aver indotto uno dei suoi primi estimatori, l’umanista Cristoforo Landino, nel 1481, a definire il pittore «puro senza ornato», riesumando la definizione vitruviana della colonna dorica («sine ornatu, nudam speciem»). La retorica umanistica del paragone con gli antichi, capaci d’imitare la natura in modo fino ad allora insuperato, portava Landino a precisare che come e forse meglio degli antichi Masaccio era stato «ottimo imitatore di natura, di gran rilievo, universale buono componitore [...] perché solo si dette all’imitazione del vero e al rilievo delle figure; fu certo buono e prospettivo [...]». Come dire che aveva ottima padronanza della prospettiva ed era capace d’imitare la natura dando rilievo alle figure. Niente sappiamo, invece, del favore riscosso dai suoi dipinti presso i committenti, fra cui figurano esponenti di spicco della società civile e religiosa. Mercanti, banchieri, prelati di Firenze, di Pisa e forse anche di Roma, avevano dato lavoro a Masaccio nel corso di poche manciate di anni, all’incirca dal 1422, data alla quale si riferisce la prima opera a lui attribuita (il Trittico di San Giovenale, clamorosamente scoperto nel 1961 da Luciano Berti in una chiesetta di campagna), fino alla metà circa del 1428. Masaccio, come si deduce dai documenti pervenuti, non dovette essere troppo interessato al denaro né alla cura della persona. Giorgio Vasari scrive che Tommaso fu soprannominato Masaccio per la sua trascuratezza. Non sappiamo se questa notizia, riferita oltre un secolo dopo la scomparsa del pittore, sia attendibile né se veramente Masaccio «fu poco stimato vivo».
Certo è che spesso, anche in tempi recenti, è stata rimarcata l’effettiva possibilità che per la sua “modernità” la lezione masaccesca non potesse essere subito assimilata dagli artisti della sua generazione. Quasi certamente, però, committenti e devoti dovettero esser favorevolmente impressionati dall’umanità dolente degli storpi nel San Pietro risana gli infermi con la sua ombra o del «nudo che triema» nel Battesimo dei neofiti della cappella Brancacci, o dall’intensità spirituale che emana dalla Trinità in Santa Maria Novella; certo amarono l’atmosfera giocosa e ridente nel gioco di sguardi e di gesti dell’aristocratica Madonna con il suo Bambino Gesù, col pendente di corallo al collo, nella Madonna del solletico dipinta per il cardinal Casini (qui illustrata a pagina 32); o ancora, l’atto istintivo di succhiare le piccole dita della mano del Bambino nel Trittico di San Giovenale - e quasi s’immagina la dolcezza del succo appena assaporato di qualche acino d’uva.
Esiste in effetti almeno una significativa testimonianza, poco oltre la metà del Quattrocento, di una certa difficoltà di comprensione delle innovazioni di Masaccio. Nel suo trattato di architettura (1451-1464) Antonio Averlino detto il Filarete osserva che ai suoi tempi c’era carenza di artisti talentuosi quali erano stati, appunto, Masaccio e Masolino («ci è carestia di maestri, che sieno buoni, n’è morti una sorte che erano a Firenze […] uno chiamato Masaccio, un altro […] Masolino», e quest’affermazione malinconica sembra ricalcare, pur nei tempi mutati, l’idea del rimpianto dell’arte dei tempi andati, espressa oltre cinquant’anni prima (verso il 1392) da Francesco Sacchetti. Nel Trecentonovelle lo scrittore toscano racconta che Taddeo Gaddi, il più anziano degli allievi di Giotto sopravvissuti alla peste del 1348, si era trovato con un gruppo di amici a rievocare l’epoca in cui a Firenze dipingevano Giotto e i suoi seguaci: quell’arte «è passata e viene mancando tutto dì», avrebbe dichiarato Gaddi. Se anche Filarete denuncia la presunta decadenza della pittura della nuova epoca rispetto a quella di Masaccio, aggiunge però che quell’artista non era stato il primo a far «belle cose»: «Tu m’hai tanto lodato e’ dipintori antichi; et Giotto et degli altri assai, che non usavano queste misure, né questi tanti scorci, né tante cose quanto bisogna avere, et pure erano buoni maestri et facevano belle et degnie cose».
La sua pittura, a tutt’oggi considerata per le sue innovazioni spaziali, per la sua saldezza e la sua altissima poesia, il cardine del primo Quattrocento figurativo, sembra riunire in sé, come incorporare, le ricerche degli altri quattro, e soprattutto, in primo luogo, la scienza esatta e razionale di Filippo come pure la solida, delicatamente classica plasticità di Donatello. Quel nuovo modo di concepire il colloquio degli uomini fra gli uomini, e il rapporto dell’uomo con Dio che sarà il fondamento dell’arte e della cultura di tutto il Rinascimento, si traduce in una chiarezza spaziale, ed esprime «una verità psicologica», come ha spiegato ai nostri tempi Federico Zeri, «che in Masaccio o in Donatello chiariscono l’uomo a se stesso, aiutandolo a comprendere la sua essenza, soccorrendolo nel liberarsi da miti metafisici e da convenzioni sociali». E che dire del giudizio di Leonardo da Vinci, che attorno all’anno 1500 non fa mistero della sua ammirazione per Masaccio? «Dopo questo [Giotto]», annota Leonardo nel Libro di pittura, «l’arte ricadde, perché tutti imitavano le fatte pitture, e così andò declinando, insino a tanto che Tomaso fiorentino, scognominato Masaccio, mostrò con opra perfetta come quegli che pigliavano per altore altro che la natura, maestra de’ maestri, s’affaticavano invano».
Cinquant’anni dopo sarà la volta di Vasari, che nel ripercorrere la biografia di Masaccio ricorrendo alle fonti precedenti, l’arricchisce di ricordi personali, come quando si era trovato, a Firenze, ad ammirare il Trittico Carnesecchi di Santa Maria Maggiore assieme a Michelangelo, «che lo lodò molto». Vasari notava la capacità di Masaccio di mettere in scorcio, di sotto in su, le sue figure, «a differenza di quella goffa maniera vecchia, che faceva [...] tutte le figure in punta di piedi», e riconosce a lui il merito, avvertito anche dagli «artefici più eccellenti », di «avere aggiunto nella pittura vivacità nei colori; terribilità nel disegno; rilievo grandissimo nelle figure; et ordine nelle vedute de gli scorti». Insomma Masaccio era per Vasari e gli artisti contemporanei «il più moderno che si sia visto», giudizio condiviso anche da un poeta come Annibal Caro, del quale lo storiografo aretino pubblica al termine della biografia masaccesca alcuni versi del 1548 circa: «Pinsi, e la mia pittura, al ver fu pari; \ L’avvivai, le diedi il moto,\ Le diedi affetto. Insegni il Buonarroto a tutti gli altri; e da me solo impari».
Da allora e per secoli, il giudizio su Masaccio, o meglio l’elogio, arricchito delle più diverse sfumature e osservazioni, resterà comunque fondato sulla nota principale della sua modernità ed essenzialità (e non saranno pochi, nel Novecento, gli artisti italiani a ispirarsi alla sua pittura; basti pensare a Carrà, De Chirico o Morandi). Arriviamo così al celebre brano del critico d’arte americano Bernard Berenson (1896), con la fortunata definizione (poi criticata da Roberto Longhi), del Masaccio simile a un “Giotto rinato” («Giotto born again»), «che muove dal punto in cui la morte ne aveva fermato il cammino, facendo proprio all’istante tutto quanto era stato conseguito durante la sua assenza e approfittando delle nuove condizioni, delle nuove richieste: immaginatevi un simile evento, e comprenderete Masaccio. Giotto lo conosciamo già, ma in che consistettero le nuove condizioni, le nuove richieste? I cieli medievali si erano aperti e disgiunti e un nuovo orizzonte e una nuova terra erano apparsi, già abitati e gustati dagli spiriti più eletti. Ivi nuovi interessi e nuovi valori prevalsero. L’oggetto di maggior pregio consisteva nella facoltà di dominare e di creare; quello di massimo interesse, in tutto ciò che rendesse più agevole all’uomo la conoscenza del mondo nel quale viveva e il suo potere su di esso».
In seguito sarà Roberto Longhi a offrire un’acuta e ampia disamina sull’opera di Masaccio, immaginando perfino, come in una biografia romanzata o in uno sceneggiato televisivo, i dialoghi col collega Masolino sui ponteggi della cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine, al tempo della loro collaborazione. Il saggio di Longhi, capolavoro di letteratura artistica, resta memorabile, e sempre hanno colpito quelle sue osservazioni sul confronto fra i due: «Collaboratore indipendente quando gli riusciva di strappare per sé un lavoro, mentore assillante quando lavorava con l’anziano: così bisogna immaginare la presenza di Masaccio nella prima fase dei lavori del Carmine. Suggerimenti a non finire, dichiarazioni perentorie di principio e, chissà, persino rimbrotti e intimidazioni». Oggi tuttavia, senza sminuire il genio e la superiorità di Masaccio si è potuto dimostrare grazie agli esiti dei restauri, che Masolino seppe, tra le altre cose, più di Masaccio, utilizzare nuove tecniche come l’aggiunta di olio alla tempera a uovo.
Oggi si tende dunque a riconoscere talento a Masolino, conterraneo e collega, con il quale il più giovane Masaccio si era trovato a lavorare, ricevendo forse proprio grazie a lui l’opportunità di compiere impegnativi lavori, come appunto la decorazione della cappella Brancacci o l’esecuzione della grande pala con la Sant’Anna Metterza per la cappella Buonamici nella chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze. Molto si è precisato e scoperto, inoltre, sul fratello di Masaccio, Giovanni detto lo Scheggia, il cui corpus di opere si è arricchito notevolmente in questi anni.
MASACCIO
GLORIA FOSSI
Un dossier dedicato a Masaccio (San Giovanni Valdarno, 1401 - Roma, 1428). In sommario: Una fortuna tutta postuma; La prima gioventù; Gli anni cruciali; L'incertezza delle date; Il desco da parto; La cappella Brancacci. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.