L’“architettura deL potere”
e iL “potere deLL’architettura”

Henry Van de Velde per il Belgio, Alvar Aalto per la Finlandia, Junzo Sakakur per il Giappone, Marcello Piacentini per l’Italia,

albert Speer per la Germania, Boris Iofan per l’Unione Sovietica e Josep Lluís Sert per la Spagna, i più grandi architetti del momento, furono chiamati per l’Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne del 1937 di Parigi a rivendicare l’identità, ciascuno del proprio paese, attraverso il linguaggio dell’architettura. Si trovarono così, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, a competere con le proprie creazioni, come in un concorso di architettura.

Il risultato di questa “gara”, nata sotto gli auspici della pace, fu un’architettura che, investita del compito di essere espressione del potere politico del paese da rappresentare, ritornava alle regole accademiche, alla tradizione “Beaux-Arts” e neoclassica e, nella ricerca di una nuova monumentalità, faceva ricomparire in facciata frontoni e colonnati, e scomparire cemento e acciaio, perché considerati materiali meno nobili del marmo e del travertino.
Incarnando le ideologie politiche dei paesi partecipanti, l’architettura diventava riflesso delle tensioni nazionali.
Emblematico fu, in tal senso, lo scontro metaforico tra i padiglioni della Russia di Stalin e della Germania di Hitler, collocati l’uno di fronte all’altro ai margini dell’asse principale che conduceva alla collina di Chaillot. Tra loro, il contrasto fu evidente.
A Boris Iofan era stato chiesto di pensare a un’architettura che fosse autoreferenziale per la Russia. Il progetto realizzato risentì dell’influenza del concorso di qualche anno prima per il Palazzo dei soviet: un imponente gruppo scultoreo in acciaio, realizzato dalla scultrice Vera Mukhina, rappresentava una kolchoziana e un operaio che innalzavano una falce e un martello avanzando con fierezza verso il padiglione della Germania. Il valore era fortemente simbolico: falce e martello, emblema del movimento operaio, significavano la fiducia nel socialismo.


Padiglione della Germania e padiglione della Russia, Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne, Parigi 1937.

Il Trocadéro visto dalla Torre Eiffel, Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne, Parigi 1937.


Padiglione della Spagna (esterno), Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne, Parigi 1937.

Albert Speer, per la Germania nazista, aveva interpretato l’eredità classica attraverso l’uso rigoroso della geometria e dell’ordine gigante dei pilastri in facciata. La torre del corpo principale dell’edificio era dominata dall’aquila imperiale con la svastica tra gli artigli; posta più in alto della statua sovietica, per enfatizzare ulteriormente la propria superiorità, l’aquila simboleggiava la forza e il voler imporsi fisicamente e tettonicamente all’ideologia staliniana.
Quindi, da una parte c’erano i tre paesi totalitari: Italia, Germania e Unione Sovietica, dall’altra i risultati della ricerca razionalista del Movimento moderno con il Pavillon des Temps Nouveaux di Le Corbusier e Pierre Jeanneret, il padiglione della Cecoslovacchia di Jaromir Krejcar e quello della Seconda repubblica spagnola di Luis Lacasa e Josep Lluís Sert.
La Spagna stava vivendo la sua guerra civile che si sarebbe conclusa, solo due anni più tardi, con il crollo della repubblica e l’inizio del franchismo; la sua partecipazione all’Esposizione di Parigi non può essere letta a prescindere da questa realtà politica. Infatti, Sert e Lacasa concepirono l’architettura, il percorso espositivo e l’allestimento con un’evidente intenzione di subordinazione al messaggio da trasmettere. Il padiglione spagnolo doveva essere un manifesto, doveva mostrare la vita e la personalità del popolo spagnolo, per far conoscere l’evoluzione della nazione dalla proclamazione della repubblica.

Padiglione della Spagna (interno) con esposto Guernica (1937) di Pablo Picasso, Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne, Parigi 1937.


El Segador (1937) di Joan Miró, Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne, Parigi 1937.

Il ruolo dei progettisti non era, quindi, facile. Il risultato fu una costruzione economica, propagandistica e dal forte contenuto ideologico.
All’ingresso svettava un’invocazione alla speranza: la scultura El pueblo español tiene un camino que conduce a una estrella opera di Alberto Sánchez; il padiglione, costituito da elementi prefabbricati per ottimizzare tempi e costi, si presentava come un parallelepipedo che si sviluppava su tre piani compreso il piano terra con un cortile centrale, come elemento di mediterraneità e come ambiente da attraversare obbligatoriamente per accedere alla scala che portava ai piani superiori.
La struttura era metallica a vista; i progettisti realizzarono una griglia razionalista che, di fronte a quel capolavoro che dichiarava guerra alla guerra, il Guernica di Picasso, fu privata di uno dei sostegni perché interrompeva il campo visivo che le dimensioni dell’opera richiedevano. L’architettura si sottometteva di fronte al Guernica. La Fuente de mercurio di Calder, poi, omaggiava il lavoro dei minatori di Almadé. Alla facciata venne attribuito il ruolo di manifesto introduttivo affidato ai fotomontaggi propagandistici di José Renau, aggiornati, di volta in volta, in base all’evolversi del conflitto.
Joan Miró fu invitato a realizzare un “mural” che si estendesse in altezza su due piani, alto sette metri e diviso in sei pannelli: dipinse il ritratto di un contadino catalano che impugna una falce, El segador, simbolo della perdita della libertà della Catalogna che accompagnava il visitatore lungo le scale. La Montserrat, scultura di Julio Gonzales, concludeva la visita.
Qualche anno dopo Mussolini programmò l’Esposizione universale di Roma, da cui l’acronimo di E.U.R.; prevista nel 1942, non fu mai tenuta a causa del conflitto mondiale.
Il progetto, presentato sotto la direzione di Marcello Piacentini, ispirato secondo l’ideologia fascista all’urbanistica classica romana, prevedeva edifici costruiti con marmo bianco e travertino per ricordare i templi e gli edifici della Roma imperiale. Simbolo del quartiere EUR e dell’architettura di regime è il Palazzo della civiltà italiana o Colosseo quadrato di Guerrini, La Padula e Romano.
Dopo la guerra, i temi diventarono più generali e furono dominanti i riferimenti all’umanità.
L’architettura assunse ruoli sempre più decisi; consapevole degli alti livelli di sperimentazione stilistica e tecnica che riusciva a raggiungere, e forte della funzione ideologica e commerciale che andava a rappresentare, cominciò a esporre se stessa. Il segno si semplificava, si liberava dei motivi floreali diventando essenziale.
L’ingegnere André Waterkeyn, a Bruxelles nel 1958, progettò un atomo gigantesco di acciaio, l’Atomium, come segno degli sviluppi della ricerca nucleare in un momento storico in cui risultava paradossale: mentre un secolo prima si celebrava la tecnologia come sinonimo di progresso, proprio la tecnologia aveva armato la guerra terminata da pochi anni. Il tema scelto era proprio il confronto pacifico tra le nazioni, fare un bilancio del mondo per un mondo più umano: la tecnica al servizio dell’uomo.
A Bruxelles, si registrò il ritorno di Le Corbusier con un’opera “multimediale”, creata per l’azienda olandese dell’elettronica Philips: Poème électronique. Le Corbusier creò un progetto sincronico che offriva al visitatore un’esperienza totalizzante, di suono e immagine in uno spazio continuo senza distinzione tra soffitto e pareti, delimitato da una struttura realizzata in lastre precompresse di cemento armato.
Come Le Corbusier, anche l’architetto israelo-canadese Moshe Safdie usò il cemento armato precompresso per la sua architettura, lascito dell’Expo 1967 alla città di Montreal: il quartiere Habitat ’67, un cumulo di trecentocinquantaquattro cellule cubiche, dallo skyline frastagliato, che danno forma a un complesso di centosessanta appartamenti di diversi tagli, prototipi di una struttura abitativa sperimentale ad alti standard di ecosostenibilità.
Habitat ’67 e la cupola geodetica dello statunitense Richard Buckminster Fuller, vero capolavoro di ingegneria nato dall’intersezione di geodetiche che vanno a formare elementi rigidi triangolari costituiti da aste, diventarono le architetture di riferimento per i progettisti di macrostrutture.


Il Palazzo della civiltà Italiana a Roma (1938 -1943) in uno scatto del marzo 1960.

Le Corbusier, Padiglione Philips, Expo ’58, Bruxelles 1958.

L’Atomium progettato da André Waterkeyn per Expo ’58, Bruxelles 1958, in uno scatto del 1965 circa.


Habitat ’67, Expo 67, Montreal ’1967.

Tre anni dopo, a Osaka, l’Italia presentava la prima sperimentazione linguistica dell’high tech italiano coniugata all’antisismica. La progettazione architettonica del padiglione fu affidata allo studio Valle e quella strutturale all’ingegnere Sergio Musmeci, vincitori del concorso nazionale, per la ricerca formale, la sperimentazione strutturale e i materiali usati: acciaio e vetro.
Nelle Expo del terzo millennio, l’architettura si fa portavoce dei contenuti della conferenza Earth Summit del 1992: l’attenzione si focalizza sull’ecologia in tutte le sue declinazioni e l’architettura delle Expo ne diventa verbo.
Così nel 2000 ad Hannover, si afferma l’“ecodesign”. Per il padiglione giapponese, Sigheru Ban riesce a coniugare tradizione nipponica, sperimentazione architettonica e tutela dell’ambiente, impiegando, per la prima volta a larga scala, il cartone riciclato anche nella struttura portante composta da tubi in cartone duro rivestito esternamente da una membrana in tessuto e carta.
E alla carta “hanji”, rappresentativa del proprio patrimonio storico-culturale, la Corea ha affidato il suo messaggio nell’Expo 2005 ad Aichi, utilizzandola per la realizzazione delle lanterne sospese nel proprio padiglione.
All’Expo di Shanghai, nel 2010, la Cina ha voluto dimostrare al mondo la sua voglia di grandezza e il potere del linguaggio dell’architettura per manifestarla. Le architetture sono diventate grandi macchine scenografiche; la forma e il gigantismo che le ha contraddistinte riflettevano il dinamismo che ha avvinto questa economia operaia.
La struttura del padiglione cinese, rigorosamente di colore rosso “città proibita”, era ispirata al sistema costruttivo più importante della tradizione cinese, “dougong” a mensole, costituito da travi di legno incastrate a formare piani sovrapposti su una base di colonne.

Padiglione degli Stati Uniti, Expo ’67, Montreal 1967.


Padiglione dell’Italia, Expo 70, Osaka 1970.


Padiglione del Giappone, Expo 2000, Hannover 2000.

Il padiglione del Regno Unito, invece, è stata un’assoluta novità.
Il progettista è riuscito a realizzare un’architettura sensazionale: tutto era contemporaneamente pieno e vuoto; non si poteva tracciare il suo skyline in quanto l’involucro era disegnato da sessantamila aste di acrilico lunghe sette metri e mezzo e ognuna di esse, come una fibra ottica, trasmetteva la luce all’interno. Al passaggio delle nuvole o con il vento, le variazioni di luce esterne creavano all’interno effetti di luce particolarmente suggestivi. Realizzata dall’architetto Thomas Heatherwick, la Seed Cathedral era custode di un prezioso patrimonio botanico: ogni filo conteneva uno o più semi di piante rare protette.
Lo studio Foster + Partners ha creato, per l’occasione, un padiglione esempio di architettura ambientale organica, riciclabile e smontabile, ispirandosi alle dune di sabbia dei deserti degli Emirati Arabi, riuscendo a fondere, in un’armonia perfetta, natura e architettura, forma e funzione, oltre che a trasmettere l’identità nazionale, celebrando la vita della città negli Emirati Arabi e la loro leadership mondiale. La forma simulava l’azione del vento sulla sabbia che modella le dune, ruvide sul lato che impatta la forza del vento e levigate sul lato opposto. La superficie esterna era in acciaio inox dorato come la sabbia; la luce naturale passava attraverso tagli verticali vetrati. L’Expo di Shanghai ha promesso così, al mondo, «una città e una vita migliori».

Esterno del padiglione del Regno Unito, Seed Cathedral, Expo 2010, Shanghai 2010.


Padiglione degli Emirati Arabi Uniti, Expo 2010, Shanghai 2010.


Interno del padiglione del Regno Unito, Seed Cathedral, Expo 2010, Shanghai 2010.

EXPO! ARTE ED ESPOSIZIONI UNIVERSALI
EXPO! ARTE ED ESPOSIZIONI UNIVERSALI
Ilde Marino
La presente pubblicazione è dedicata alle Esposizioni Universali. In sommario: Le Esposizioni universali: ''La mise en scène du monde''; Le Esposizioni universali ottocentesche come lezioni di gusto: l'orientamento e il mito dell'Alhambra; L'''architettura del potere'' e il ''potere dell'architettura''; Il design. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.