Le esposizioni universaLi ottocentesche come Lezioni di gusto: L’orientaLismo
e iL mito deLL’aLhambra

Il fenomeno espositivo, per sua natura, esprime e coinvolge ogni aspetto della cultura, diventando un affascinante oggetto di studio di tutte le branche del sapere


per gli storici dell’architettura, le Esposizioni sono laboratori nei quali è possibile esprimere il rinnovamento del gusto nell’architettura, sperimentando nuove forme e composizioni architettoniche.

La letteratura, per prima, carpì il fascino dell’Oriente per restituirlo all’Occidente. I reportage di viaggio di Victor Hugo che, con adorazione, scriveva nei suoi Les Orientales «L’Alhambra! L’Alhambra! Palazzo che i Geni hanno adornato come un sogno dorato e riempito d’armonie», come anche i romanzi di Flaubert, sono stati veicolo di quelle seduzioni esotiche che presto avrebbero assunto una dimensione artistica.
L’Alhambra di Granada, già oggetto di studi tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, divenne presto meta obbligata nel Grand Tour dei giovani aristocratici europei.
Edmondo de Amicis in Spagna così la ricorda: «Quella magica parola che in ogni parte del mondo desta in ogni animo un tumulto di grandi ricordi e un sentimento di desiderio segreto; [...] che fa battere il cuore dei poeti e dei pittori, e scintillar gli occhi delle donne: l’Alhambra!».
Partendo dal concetto tutto musulmano della geometria, come espressione del sacro, che si manifesta nelle forme e negli arabeschi che la natura ci propone, e dalla certezza che ogni ornamento nasca da una costruzione geometrica, il grande riformatore del design Owen Jones, spinto dalla passione per l’Oriente, in modo speciale per l’Alhambra, riformulò i modelli decorativi in veri repertori che costituiscono la sintassi dell’ornamentazione per antonomasia. Con non poche difficoltà, riuscì a pubblicare le prime tavole a colori dell’Alhambra in due volumi dal titolo: Plans, Elevations, Sections and details of the Alhambra (…). Alcune di queste tavole furono poi inserite in The Grammar of Ornament e utilizzate per riprodurre l’Alhambra Court nel Crystal Palace ricostruito a Sydenham.


Scuola inglese del XIX secolo, Sheffield Hardware alla Great Exhibitionn di Londra del 1851, in Dickinsons’ comprehensive pictures of the Great Exhibition of 1851, tavola 43, Londra 1854; New Haven, Yale Center for British Art.


Scuola inglese del XIX secolo, Alhambra Court (1854), particolare del Crystal Palace a Sydenham; Londra, British Library.


Owen Jones, Moresque No. 2, in The Grammar of Ornament’, tavola XL, Londra 1856, particolare.

“Alhambrica” fu definita la teoria del colore formulata da Owen Jones per il progetto di colorazione degli interni del Crystal Palace; nominato “Superintender for Decoration”, Jones aveva la responsabilità della progettazione integrale dell’“interior”, dalla decorazione alla sistemazione interna degli oggetti esposti, alle ringhiere delle gallerie e al disegno della recinzione esterna, chiaramente ispirati all’Alhambra. Il progetto prevedeva, infatti, l’utilizzo dei colori primari: rosso, blu e giallo oro, proprio come i Mori che, come asserviva lo stesso Owen Jones, nei periodi prosperi della loro civiltà, utilizzavano sui loro stucchi solo i colori primari, mentre, nei periodi di declino, usavano quelli secondari. Per aumentare i chiaroscuri, l’azzurro, che restringe, fu usato per colorare le parti concave; il giallo, che dilata, le convesse, il rosso per le superfici piane orizzontali, il bianco per le piane verticali(6).
Antesignano degli esperimenti legati alla psicologia del colore e catalizzatore del dibattito ottocentesco sul suo uso, il progetto fu criticato da personaggi come Henry Cole e Joseph Paxton, ma fu anche immortalato da artisti del calibro del pittore scozzese William Simpson. All’Exposition Universelle del 1855, Owen Jones fu premiato con la medaglia d’oro nella sezione dell’Etude d’invention ou d’après des monuments existants della classe dedicata all’architettura.
“Director” della realizzazione dell’Alhambra Court a Sydenham nella quale, per esigenze di spazio, l’insieme fu riprodotto in scala ridotta, mentre gli ornamenti fedelmente in scala, Owen Jones volle che la fedeltà costruttiva di questa realizzazione ne garantisse lo scopo fortemente pedagogico. Presto, questa intenzione didattica si rivelò determinante nella celebrazione dell’Alhambra come mito; fu infatti propagandata dall’Esposizione universale in maniera così amplificata, da dare vita a una vera e propria germinazione di ville moresche e di episodi riconducibili a quello di Sydenham.

Owen Jones, Moresque No. 2, in The Grammar of Ornament’, tavola XL, Londra 1856.


Owen Jones, Patio de los leones, in Plans, Elevations, Sections and details of the Alhambra, 1836-1845.


Owen Jones, Fuente de los leones, in Plans, Elevations, Sections and details of the Alhambra, 1836-1845.

Il Patio dei leoni dell’ Alhambra di Granada (Spagna). Il complesso palaziale dell’Alhambra fu realizzato tra i secoli XI e XIV. Il patio risale al 1377 con interventi successivi, mentre i leoni, rappresentanti le dodici tribù di Israele, risultano essere dell’XI secolo.

Il Patio dei leoni, Riola di Vergato (Bologna), Rocchetta Mattei. Il castello, edificato a partire dal 1850 per volere del conte Cesare Mattei sui ruderi di uno più antico del 1200, ha subito molte trasformazioni. A cominciare da quelle realizzate con il passaggio dell’edificio al figlio del conte, Mario Venturoli Mattei, che l’ha abitato insieme alla sua famiglia fino al 1956.

“Director” della realizzazione dell’Alhambra Court a Sydenham nella quale, per esigenze di spazio, l’insieme fu riprodotto in scala ridotta, mentre gli ornamenti fedelmente in scala, Owen Jones volle che la fedeltà costruttiva di questa realizzazione ne garantisse lo scopo fortemente pedagogico. Presto, questa intenzione didattica si rivelò determinante nella celebrazione dell’Alhambra come mito; fu infatti propagandata dall’Esposizione universale in maniera così amplificata, da dare vita a una vera e propria germinazione di ville moresche e di episodi riconducibili a quello di Sydenham.
Per i nobili eccentrici “ammalati” di esotismo ma anche conoscitori delle pubblicazioni e degli episodi neo-orientalisti realizzati nelle Esposizioni universali, il Patio dei leoni dell’Alhambra di Granada diventò l’ambiente più desiderato da ricreare nelle proprie residenze.
Tra questi, il conte Cesare Mattei, inventore della scienza elettromeopatica e perciò contrastato dalla medicina ufficiale, volle trasformare il suo castello medievale di Riola - sull’Appennino, in provincia di Bologna - in una Rocchetta moresca. Questa scelta di stile fu evidentemente di tipo ideologico: il conte Mattei, proprietario della florida azienda farmaceutica di cui il suo castello era sede, volle agghindarlo in maniera estrosa e inconsueta, affinché fosse di richiamo per la cultura araba, in quel tempo all’avanguardia in campo medico e farmaceutico.
Come testimonia Alfonso Rubbiani, «il conte Cesare Mattei, che ne’ suoi viaggi giovanili aveva veduto il modello dell’Alhambra che mostrasi nel palazzo di cristallo, erasene innamorato pensando alla sua Rocchetta di cui volle essere il solo architetto egli stesso»(7).


C. Bussilliet, La rue du Caire all’Exposition Universelle di Parigi del 1889 (1889); Parigi, Musée Carnavalet.

In realtà, nella realizzazione del Patio dei leoni, il conte Mattei mirò principalmente all’effetto scenografico, utilizzando i materiali tipici della tecnica teatrale, come il gesso, e strutture fittizie, cioè prive di funzione portante; inoltre, nell’adeguamento alle dimensioni spaziali ridotte del cortile della Rocchetta, il Patio dei leoni subì evidenti semplificazioni: furono soppresse le colonne binate dei portici e degli avancorpi porticati, fu ridotto anche il numero delle fontane e dei leoni.
Proprio in quegli anni, in cui la fortuna figurativa dell’Alhambra veniva consacrata dai volumi di Owen Jones, il marchese Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona, che nella propria biblioteca ne possedeva una copia, deluso dall’ambiente politico e culturale della Firenze post-unitaria, si ritirò nella sua residenza in Valdarno, dando inizio ai lavori di trasformazione “alhambresca” della villa di Sammezzano, «una fedele rivisitazione di un codice stilistico, e di una sua trascrizione per così dire “anastatica”, e scevra da ogni implicazione sentimentale»(8).
Le Esposizioni universali ufficializzarono l’incontro tra Oriente e Occidente.
È in occasione dell’Exposition Universelle del 1900 che Matisse scoprì i paesi orientali, visitando i padiglioni di Turchia, Persia, Marocco, Tunisia ed Egitto. Gli artisti, attratti dai tanti stimoli che le Esposizioni universali offrivano alla loro creatività, venivano inevitabilmente a esserne coinvolti, e Paul Gauguin fu tra questi. Tra i disegni dell’Album Walter, risalenti proprio al periodo dell’Esposizione di Parigi del 1889, sono individuabili quegli “appunti” presi visitando l’Esposizione; eloquente è il confronto tra lo Studio di danzatrice di Gauguin e la fotografia che ritrae le danzatrici di Giava durante uno degli spettacoli che si tenevano nel villaggio giavanese(9).
Stimolati dagli interventi di Haussmann a Parigi, in molte città europee e non, furono realizzati interventi simili.
In particolare a Istanbul e al Cairo, l’adozione di piani urbanistici “all’occidentale”, con la regolarizzazione della rete stradale aveva distrutto l’impianto originario.


The Donkey Boys in the Cairo Street, World’s Columbian Exposition, Chicago 1893; Chicago, Museum of Science and Industry.

Veduta esterna di alcuni padiglioni della capitale egiziana, Il Cairo, in una scenografica ricostruzione realizzata nell’ambito dell’Esposizione Internazionale di Milano del 1906.


Padiglioni di Tunisia, Somalia francese e India francese all’Exposition Coloniale Internationale di Parigi del 1931.


Nouveau Pavillon des Pays Bas, Exposition Coloniale Internationale, Parigi 1931.

Nelle ricostruzioni storiche della via del Cairo realizzate nelle Esposizioni universali, volutamente venivano riproposte la tortuosità delle strade e le tipicità dell’architettura cairota. Per la rue du Caire dell’Exposition Universelle del 1889, l’architetto francese Delort de Gleon, oltre che delle consuete fonti iconografiche alle quali attingevano i pittori orientalisti e del materiale personale raccolto durante i viaggi in Egitto, si avvalse della preziosa campagna fotografica di Maxime Du Camp realizzata durante il suo viaggio in Egitto, Nubia, Palestina, Asia Minore e Grecia con Gustave Flaubert. Grazie al successo riscosso a Parigi, la rue du Caire fu riproposta anche nelle Esposizioni successive; una via del Cairo fu ricostruita a Milano nel 1906 e ancor prima, nel 1893 a Chicago, fu riprodotta la Cairo Street.
Come afferma Ezio Godoli, il messaggio degli architetti europei orientalisti, che erano attivi in quei paesi, era volto alla conservazione e soprattutto alla difesa di un patrimonio di cui gli autoctoni non avevano ancora consapevolezza: «Il lavoro di studio e di rilievo dei monumenti del Medioevo islamico avviato dagli europei ha infatti portato alla loro identificazione come patrimonio architettonico e ha quindi costituito il fondamento culturale dell’azione per la loro tutela. […] La trasmissione agli intellettuali autoctoni di una nozione del patrimonio architettonico di matrice occidentale, che è in parte riuscita a contenere i guasti prodotti da piani di modernizzazione ispirati dalle trasformazioni urbanistiche delle capitali europee, è un merito che va comunque riconosciuto agli architetti orientalisti, al di là di tutte le possibili discettazioni sulla loro autocoscienza di essere portatori di una “cultura superiore” e sul loro supposto ruolo organico ad un disegno di colonizzazione intellettuale. Ma un loro altro importante lascito è stato anche quello di aver sollevato, nei paesi dove hanno operato, la questione di un’architettura capace di esprimere le identità locali. […] L’architettura orientalista è stata quindi il necessario preludio di quella ricerca di uno “stile nazionale”»(10).
Raimondo D’Aronco era uno degli architetti italiani attivi in Oriente. Quando vinse il concorso per i padiglioni della prima Esposizione internazionale d’arte decorativa di Torino del 1902, si trovava a Istanbul, invitato dal sultano per progettare i padiglioni dell’Esposizione ottomana. La conoscenza dei materiali e delle tecniche costruttive acquisita sul campo, a Istanbul per la ricostruzione dopo il terremoto del 1894, inevitabilmente lo influenzò. La rotonda d’onore ricordava Santa Sofia e, in pianta, le basiliche paleocristiane.
A Parigi, nel Bois de Vincennes fu organizzata l’Exposition coloniale internationale del 1931 con l’intento di magnificare il principio del colonialismo che ribadisse il concetto di funzione civilizzatrice delle colonie. Fu la più imponente delle Esposizioni coloniali tenutesi fino ad allora in Europa.
Il risultato fu una sorta di grande villaggio esotico di raggruppamenti di padiglioni effimeri disposti assecondando naturalmente il disegno dei viali e dei sentieri intorno al lago artificiale Daumesnil. Già questa era una cifra distintiva rispetto alle altre Esposizioni a impianto prevalentemente geometrico. Lungo i lati della Grande avenue des Colonies françaises c’erano i padiglioni delle Indie francesi, della Somalia francese, della Siria e del Libano di Moussalli, la scenografica ricostruzione del tempio di Angkor Wat di Blanche che fronteggiava il comparto dell’Indocina formato dai padiglioni dell’Annam di Blanche e Craste e della Cambogia di Groslier, della Cocincina, del Laos e del Tonchino. Il complesso dei padiglioni dell’Italia di Brasini e dei Paesi Bassi di Moojen e Zweedyk erano collocati tra le costruzioni delle nazioni colonialiste. Questi architetti, tutti occidentali, erano chiamati a reinterpretare l’architettura e le tecniche costruttive dei paesi dominati, denunciando il rispetto per quei popoli che avrebbero così acquisito sempre maggiore autocoscienza fino a distaccarsi dal loro essere civiltà sottomesse; ma, come già espresso da Ezio Godoli, il rapporto tra architettura orientalista e colonialismo viene letto attraverso diverse chiavi interpretative. Edward W. Said in Orientalism parla dell’orientalismo come di una forma di razzismo, di una forma di razionalizzazione del colonialismo.
È vero che l’orientalismo è un prodotto occidentale ma è anche vero che spesso precedette il colonialismo stesso stimolandolo: le motivazioni ideologiche molte volte anticipano e condizionano gli interessi economici.


Pavillion de la Syrie et du Liban, Moussalli Architect, Exposition Coloniale Internationale, Parigi 1931.

(6) G. Brino, Crystal Palace, Cronache di un’avventura progettuale, Genova 1995.
(7) A. Rubbiani, L’Appennino bolognese, Bologna 1881, p. 581.
(8) M. C. Tonelli, Alhambra Anastatica, in “FMR”, 4, 1982, pp. 31-60.
(9) M. G. Messina, Paul Gauguin all’Exposition Universelle del 1889: i disegni dell’Album Walter, in “Storia dell’Arte”, 74, 1992, pp. 93-103.
(10) E. Godoli, Editoriale del numero monografico Architetti italiani nel Levante e nell’Africa Settentrionale, in “Quasar”, 18, luglio-dicembre, 1997, pp. 5-7.a

EXPO! ARTE ED ESPOSIZIONI UNIVERSALI
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Ilde Marino
La presente pubblicazione è dedicata alle Esposizioni Universali. In sommario: Le Esposizioni universali: ''La mise en scène du monde''; Le Esposizioni universali ottocentesche come lezioni di gusto: l'orientamento e il mito dell'Alhambra; L'''architettura del potere'' e il ''potere dell'architettura''; Il design. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.