Il Mudec è il primo importante museo d’antropologia che fa capo a un polo museale di arte contemporanea
Ora è fatta. Il museo è stato aperto alla fine di marzo. Anche se non sono mancate le polemiche dell’ultima ora, perché il progettista, l’architetto inglese David Chipperfield, ha disconosciuto l’opera, accusando i funzionari del Comune di Milano di «poco interesse per il bene pubblico» e sostenendo che «la posa di una pietra [del pavimento] di qualità inferiore ha trasformato [il Mudec] in un museo degli orrori».
E, a questo proposito, senza entrare nel merito di “querelles” che ci porterebbero troppo lontano, occorre dire chiaramente che la nuova costruzione:
1) è bella, essenziale ed elegante, per quanto alcune delle pietre del pavimento siano leggermente disomogenee;
2) per certi versi, è decisamente migliore delle strutture di altri importanti musei europei aperti negli ultimi anni;
3) rappresenta un risultato insperato alla luce delle incertezze e delle battute d’arresto che hanno caratterizzato i primi anni del progetto Mudec e che hanno provocato un ritardo di oltre dieci anni, rispetto alla data annunciata il 24 febbraio del 2000 da Maurizio Lupi, allora assessore comunale allo Sviluppo del territorio.
Il Mudec, che è costato complessivamente circa 60 milioni di euro totalmente sostenuti dal Comune di Milano, sorge in via Tortona 56, all’interno dell’area ex Ansaldo, che ospita anche le OCA - Officine Creative Ansaldo e i depositi della Scala. L’edificio è completamente nuovo e si caratterizza per una grande piazza coperta sormontata da una vetrata in cristallo a forma di rosa camuna. Al suo interno si susseguono grandi saloni, che presentano una superficie complessiva di diciassettemila metri quadri e consentono di offrire proposte varie e asimmetriche che vanno dalle mostre temporanee alla collezione permanente, dai depositi aperti al pubblico con visite guidate all’auditorium per conferenze e spettacoli, dal Forum delle culture agli spazi riservati alla didattica e al futuro centro per il restauro (una chicca straordinaria considerando gli standard dei musei italiani), dove si pensa di restaurare il mantello tupinambá dell’Ambrosiana, uno degli otto esistenti al mondo. Complessivamente il Mudec può contare su oltre settemila reperti di tutti i continenti, che, considerando anche la qualità delle opere, lo collocano al terzo posto in Italia tra i musei di antropologia, subito dopo quelli di Roma e Firenze.
A questo proposito, tuttavia, considerando:
1) il permanente stato comatoso del Museo nazionale di antropologia di Firenze (ma che cosa si aspetta a fare un radicale piano di rilancio che tagli una volta per sempre i limiti strutturali, in primo luogo la dipendenza dall’università, che l’hanno portato nella situazione attuale?);
2) gli insensati tagli di bilancio del Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini di Roma, declassato da Sovrintendenza a museo regionale e penalizzato da una costante, scarsa progettualità;
3) le possibilità che si aprono grazie alla partnership con la società 24 Ore Cultura, che gestirà gli spazi riservati alle mostre temporanee; appare evidente che il Mudec, se giocherà bene le sue carte, potrà diventare il primo museo antropologico d’Italia sia per numero di visitatori, sia per l’importanza e la qualità delle iniziative.