Studi e riscoperte. 3
La guerra nell’Ottocento

costruire è bello
distruggere
è sublime

È nata con l’uomo, esiste da sempre e probabilmente sempre esisterà. La guerra, che nella storia è apparsa, a volte, come l’unica via per raggiungere un fine, è una via che genera in ogni caso sangue, vittime e atrocità. Un duplice aspetto che può addirittura esercitare un vero e proprio potere seduttivo, ben rappresentato in alcuni dipinti del XIX secolo.

Cristina Beltrami

La ricorrenza del centenario del primo conflitto mondiale ha innescato una puntigliosa analisi sul fenomeno in senso lato. La guerra non solo è stata messa sotto la lente d’ingrandimento dalle istituzioni ma è divenuta anche soggetto di convegni e mostre che, benché costruite con tagli differenti, convergevano sovente sul medesimo disarmante quesito: perché l’uomo non può impedirsi di fare la guerra? Come le facce della stessa medaglia, la guerra è atroce e abominevole ma è anche un evento intrinsecamente legato alla natura umana. Che sia mossa da ragioni “di Stato” legate al patriottismo e alla difesa di un territorio o a un ideale, la battaglia rievoca anche una violenza ancestrale che provoca un’emozione intensa al punto di rappresentare, in casi estremi, una vera attrazione; perché «costruire è bello ma distruggere è sublime», come avrebbe ammesso il generale americano George S. Patton nelle sue memorie della seconda guerra mondiale (1947).


In Campagna del Volturno, 1° ottobre 1860-1861 tutto partecipa all’esaltazione dell’impresa garibaldina: il cavallo imbizzarrito, la concitazione della lotta, gli sbuffi di fumo d’artiglieria


La pittura dell’Ottocento è stata lo specchio di questa dualità: da un lato la battaglia vissuta come un episodio costruttivo, quanto meno necessario le cui vittime sono il prezzo da pagare per il raggiungimento di un obiettivo comune, e dall’altra la testimonianza di sacrifici e barbarie.

Le campagne napoleoniche aprono la storia bellica del XIX secolo e la pittura coeva costruisce l’immagine di un Napoleone impavido condottiero e abile stratega. Così lo ritrae Jacques- Louis David, tra il 1801 e il 1805, mentre valica il San Bernardo in sella al suo destriero indicando la via verso l’Italia. L’episodio - di pura fantasia visto che Napoleone seguì di qualche giorno la discesa delle truppe e lo fece a dorso di un mulo - è il frutto di un’attenta propaganda che il saldo stile neoclassico di David rende ancora più perentoria.

Tre decenni più tardi l’Italia si trova di nuovo a difendersi da un invasore, questa volta austriaco. L’agognata unità, che serpeggia fin dai moti del 1848, si realizza solo nel 1861 e a costo di aspre battaglie che divengono il soggetto di tanta pittura ufficiale. Andrea Cefaly, uno dei protagonisti della pittura meridionale del secondo Ottocento, si presenta alla prima Esposizione nazionale di Firenze del 1861 con un dipinto, di commissione reale, che mostra Garibaldi incitare i soldati contro il nemico. 


Andrea Cefaly, Campagna del Volturno, 1° ottobre 1860-1861 (1861), Reggio Calabria, Pinacoteca civica.

In Campagna del Volturno, 1° ottobre 1860-1861 tutto partecipa all’esaltazione dell’impresa garibaldina: il cavallo imbizzarrito, la concitazione della lotta, gli sbuffi di fumo d’artiglieria e non uno dei caduti indossa la camicia rossa. Secondo un evidente progetto celebrativo post-unitario, alla stessa mostra fiorentina compaiono anche due grandi tele dedicate alla battaglia di Magenta: una più magniloquente di Domenico Induno e una versione più verista di Giovanni Fattori che, con immediatezza macchiaiola, dà spazio alla devastazione lasciata sul campo di battaglia.
La stessa vivacità la si ritrova nelle tele che, nel 1860, Filippo Palizzi, dedica ai retroscena della battaglia del Volturno, combattuta il 1° ottobre dello stesso anno. Le quattro figure di Un gruppo di garibaldini, ritratti (Napoli) si stagliano su uno sfondo indefinito in un tono colloquiale e mostrano quattro fisionomie e atteggiamenti differenti: se i due di sinistra si stanno accendendo un sigaro con fare amicale, i due di destra chiacchierano, l’uno con la barba incolta e la camicia rossa tenuta fuori dai pantaloni, l’altro appoggiato all’enorme fucile. Con la freschezza di un’istantanea e un’immediata descrizione dei dettagli, Palizzi evidenzia il carattere eterogeneo dell’esercito garibaldino: nell’opera Un garibaldino il volontario avanza chino e guardingo impugnando la baionetta. 

La barba e il fazzoletto in testa gli danno un tono piratesco, a ulteriore testimonianza della natura popolare delle truppe garibaldine.

Tutt’altro il messaggio del Tiratore di precisione di Winslow Homer che, appostato su un albero, con piglio professionale e vestito di tutto punto, diviene l’emblema di un esercito ben addestrato e altrettanto equipaggiato.

Negli stessi anni infatti, dall’altra parte dell’oceano, gli artisti si trovano immersi in una guerra civile che descrivono con modalità stilistiche differenti, frutto di una formazione statunitense e un perfezionamento parigino, che si manifesta in una produzione cronachistica nella quale il paesaggio gioca un ruolo capitale.

Sanford Robinson Gifford, sensibile paesaggista attento agli effetti luministici, racconta le vicende legate alla battaglia come un elemento della natura stessa e la drammaticità della guerra civile viene sublimata dalla maestosità del paesaggio. In Domenica mattina a campo Cameron vicino a Washington, maggio 1861 un prete, al centro della scena, impartisce la predica all’esercito da un altare coperto dalla bandiera americana in uno spazio immenso dominato dal verde dei prati. 


Un garibaldino (Napoli) 1860 (1860); di Filippo Palizzi, conservata alla Gnam - Galleria nazionale di arte moderna e contemporanea di Roma.

Winslow Homer, Tiratore di precisione (1863), Portland, Portland Museum of Art.


Di Sanford Robinson Gifford, Domenica mattina a campo Cameron vicino a Washington, maggio 1861 (1862).


Di Sanford Robinson Gifford, Il forte di Federal Hill al tramonto, Baltimora (1862), New York State Military Museum.

L’anno successivo, in una prova pittorica pressoché monocroma, Gifford realizza Il forte di Federal Hill al tramonto, Baltimora nel quale il vero protagonista è l’intensa luce aranciata del tramonto che mette in ombra il cannone in primo piano e riduce la figura del soldato a una sagoma in estatica ammirazione dello spettacolo naturale. Il dipinto, non a caso, venne accolto alla mostra newyorchese del 1863 come «a poem».

Qualche anno più tardi, Michele Cammarano licenzia il dipinto che incarna l’impeto risorgimentale per eccellenza, la conclusione anzi di quell’episodio di storia con la definitiva annessione di Roma al Regno d’Italia (1870). Cammarano, cresciuto nel naturalismo napoletano e maturato sulla lezione del realismo francese, esegue il dipinto nel 1870, subito dopo il suo rientro da Parigi. I bersaglieri alla presa di Porta Pia denota un attento studio della disposizione del gruppo dei bersaglieri sulla tela: quel vuoto in primo piano per lasciare spazio all’incedere compatto della massa lanciata contro un nemico invisibile è una soluzione di grande teatralità. La frontalità compositiva, il volteggiare delle piume luccicanti dei copricapi, l’incespicare del soldato in primo piano, l’assenza di definizione dei volti delle ultime file creano un impatto emotivo che coinvolge lo spettatore in un impeto eroico.

ART E DOSSIER N. 322
ART E DOSSIER N. 322
GIUGNO 2015
In questo numero: ESPRESSIONISMO In mostra a Genova tra avanguardia e Bohème. L'ARTE, LA GUERRA E LA PACE: Dai pittori garibaldini a Yoko Ono. PHILIPPE DAVERIO La follia della Grande Guerra. IN MOSTRA Visconti e Sforza, Illustrazione di guerra.Direttore: Philippe Daverio