Arte in copia
Rene Gabri e Ayreen Anastas

una pratica
culturalE condivisa

L’arte come opportunità di dialogo, conoscenza, confronto su temi di attualità o sul passato è ciò che sta a cuore agli armeni Gabri e Anastas, interessati attraverso opere fatte di simboli, disegni, annotazioni, citazioni a interrompere quello stato di torpore che spesso intacca le nostre coscienze.

di Cristina Baldacci

Entrambi di origini armene, ma lui di Teheran, lei di Betlemme, Rene Gabri e Ayreen Anastas si incontrano nel 1999 a New York e come primo passo insieme fondano lo spazio per artisti - che è anche e soprattutto una piattaforma di discussione - 16 Beaver, il cui nome corrisponde all’indirizzo dello spazio nel Financial District di Manhattan (www.16beavergroup.org). Questo luogo dove i due condividono con altri artisti-attivisti progetti, idee, questioni di carattere estetico, culturale e sociopolitico, rispecchia fin dagli inizi il loro metodo di lavoro.

Il dialogo e il confronto sono i cardini della pratica di Gabri e Anastas, che parte sempre da una serie di domande che i due artisti pongono a se stessi e agli altri su argomenti di attualità o su problemi del passato rimasti in sospeso. Più che trovare risposte, intendono creare opportunità di scambio e critica, accendere il dibattito pubblico, oggi spesso così flebile, incoraggiare il passaggio dalla discussione all’azione e viceversa. Come due giornalisti investigativi, fanno lunghe ricerche e interviste, numerosi viaggi e sopralluoghi in giro per il mondo, e prendono pagine e pagine di appunti o, alle volte, registrano con la videocamera le loro conversazioni.

«Pensare. Interrogare. Mettere in atto. Smuovere le cose, sradicare i preconcetti, riorganizzare le sfere percettive, il sensibile»


L’esito di questo lungo processo è un flusso di idee, un’azione conoscitiva e interpretativa che non assume una forma definitiva, ma rimane aperta. Per questo i progetti di Gabri e Anastas si presentano come frammenti di un discorso, come articolati montaggi di parole e immagini che ricordano il concetto di rizoma di Deleuze e Guattari. In occasione dell’ultima Documenta di Kassel nel 2012 hanno raccolto le idee scaturite durante una delle loro indagini in una piccola pubblicazione; uno di quei cento “notebooks” voluti dalla curatrice Carolyn Christov-Bakargiev come sostrato teorico della mostra. Tramite una serie di dialoghi «tra persone libere e persone oppresse sulla crisi di tutto, ovunque», in Ecce Occupy - titolo già di per sé emblematico - Gabri e Anastas hanno ricostruito i cambiamenti avvenuti dopo il crollo del comunismo tracciando una sorta di cartografia del pensiero.



Alcune immagini di This State is Sinking (2015).

Le pagine del libro sono le fotocopie dei loro taccuini, con annotazioni, citazioni, disegni, simboli. La trascrizione dei colloqui non è quasi mai lineare: parole-chiave e nuclei di idee costellano la superficie del foglio o si addensano in alcuni punti, lasciando spesso spazi bianchi. In questo modo il metodo speculativo dei due artisti si definisce e si caratterizza anche visivamente. Come rivela il titolo della pubblicazione è un metodo che segue il modello controculturale che dai movimenti di opposizione ideologica degli anni Sessanta-Settanta è arrivato fino ai giorni nostri nelle cosiddette azioni di protesta “Occupy”.

Gabri e Anastas lavorano al confine tra attivismo politico e creazione estetica, stando ben attenti a non favorire l’impegno e l’azione sul campo a discapito dell’arte, ma cercando sempre nuovi modi per fare coesistere e cooperare un ambito con l’altro. La loro è un’arte relazionale e di ricerca, una pratica culturale condivisa che non si esaurisce nel compimento di un’opera-oggetto o nell’organizzazione di una mostra: tenta piuttosto di innescare azioni e processi che superino le restrizioni sociali e i limiti della percezione. 




Come hanno dichiarato riguardo a uno dei loro progetti più complessi, Camp Campaign, iniziato nel 2006 con un viaggio che li ha portati ad attraversare gli Stati Uniti per mappare tutti i tipi di “campi” (di lavoro, di detenzione, d’esilio o rifugio…) ancora esistenti per poi metterli a confronto con l’oggetto principale della loro indagine, il campo di prigionia di Guantánamo a Cuba, il loro traguardo è sempre «pensare. Interrogare. Mettere in atto. Smuovere le cose, sradicare i preconcetti, riorganizzare le sfere percettive, il sensibile»(1).

Per Gabri e Anastas, così come per Giorgio Agamben, uno dei teorici a cui i due artisti fanno maggiormente riferimento, il campo è un paradigma biopolitico contemporaneo perché riunisce tre elementi che descrivono la nostra società e il rapporto tra il potere e la vita di tutti i giorni: l’esclusione o isolamento geografico, la sospensione delle leggi e la diminuzione dei diritti civili(2).
Il paradigma storico del campo di concentramento sottende il discorso e riaffiora anche nell’ultimo progetto della coppia, quello per il padiglione armeno alla Biennale di Venezia di quest’anno. Nel centenario del genocidio dei loro antenati, Gabri e Anastas si domandano se attraverso l’arte sia davvero possibile dire o fare qualcosa in merito a una tale tragedia, oltretutto a distanza di così tanti anni. A questo interrogativo i due artisti danno una risposta deleuziana: l’atto creativo diventa un atto di resistenza o resilienza, per usare un termine oggi diventato molto di moda. Il loro intervento nel padiglione si definisce come un viaggio nella storia, come una camminata nel cuore di uno degli scrigni della cultura armena, il monastero mechitarista sull’isola veneziana di San Lazzaro, con la sua antichissima biblioteca e archivio. Gabri e Anastas sono scesi nei sotterranei dell’edificio sacro lasciando traccia del loro passaggio con appunti, grafici, poesie, collages, che formano un atlante (frammentario) della memoria, una mappa della violenza e dei soprusi etnico-religiosi tra Oriente e Occidente, e, nello stesso tempo, quasi un manifesto poetico.
«Gli elementi proposti o condivisi possono essere considerati come tracce di un incontro-scontro tra la vita e l’archivio, tra i diagrammi passionali che definiscono il bisogno di arte come dichiarazione di vita e come resistenza; come resistenza alla morte, come resistenza al genocidio, come resistenza alla politicizzazione della morte [“thanatopolitics”] o alla necropolitica [“necropolitics”] che affligge e caratterizza il nostro tempo». Così i due artisti spiegano il loro lavoro per il padiglione, ma ancor più esprimono la loro fede nell’arte(3).

(1) Cfr. T.J. Demos, The Migrant Image, Durham-Londra 2013, p. 227.

(2) Per una lettura approfondita dell’opera, ivi, p. 225; mentre sull’idea di campo come paradigma cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 2005, in particolare, parte terza, p. 129 e sgg.

(3) Dichiarazione di Gabri e Anastas fatta in occasione della preparazione della mostra Armenity/Haiyutioun. Contemporary Artists from Armenia Diaspora ospitata dal padiglione armeno nella 56. Biennale di Venezia (Venezia, monastero e isola di San Lazzaro degli Armeni, 9 maggio - 22 novembre). Sul concetto di politicizzazione della cultura si veda G. Agamben, op. cit., pp. 178-184; su quello di necropolitica, A. Mbembe, Necropolitics, in “Public Culture”, vol. 15, n. 1, pp. 11-40.

ART E DOSSIER N. 322
ART E DOSSIER N. 322
GIUGNO 2015
In questo numero: ESPRESSIONISMO In mostra a Genova tra avanguardia e Bohème. L'ARTE, LA GUERRA E LA PACE: Dai pittori garibaldini a Yoko Ono. PHILIPPE DAVERIO La follia della Grande Guerra. IN MOSTRA Visconti e Sforza, Illustrazione di guerra.Direttore: Philippe Daverio