S'intitola Armenity - dal francese “arménité”, espressione che definisce una sorta di nazionalità ideale - la mostra ospitata dal Padiglione nazionale della repubblica di Armenia alla Biennale di Venezia per commemorare, nell’anno del centenario, il “grande crimine” che l’impero ottomano commise nei confronti del popolo armeno. Era il 24 aprile 1915 quando cominciarono gli arresti di personalità di spicco armene a Istanbul (allora ancora Costantinopoli) poi sfociati in una deportazione di massa che causò la morte di migliaia di persone. Ebbe così inizio uno dei capitoli più drammatici della storia novecentesca, quello del genocidio delle minoranze etnico-religiose considerate scomode dai regimi totalitari: gli armeni in Turchia, gli ucraini in Russia, gli ebrei in Germania, i bosniaci musulmani nella Bosnia-Erzegovina (per non parlare delle pulizie etniche extraeuropee, in Africa e nel Sud Est asiatico).
A ospitare la mostra (titolo completo: Armenity / Haiyutioun. Contemporary Artists from the Armenian Diaspora), che presenta il lavoro di diciotto artisti di origini armene, i “nipoti” di coloro che sfuggirono al massacro e trovarono asilo in diversi paesi del mondo, è una delle roccaforti della memoria armena, il monastero sull’isola di San Lazzaro, detta “degli Armeni” da quando, agli inizi del XVIII secolo, vi si stanziò una comunità di monaci mechitaristi. L’isola è dunque un’“Armenia in miniatura”, un luogo sacro, nel senso religioso e metaforico del termine, che custodisce la storia e la cultura di un popolo. Il fatto che il padiglione armeno abbia sede proprio in quel luogo conferma ancora una volta il valore politico dei padiglioni della Biennale di Venezia, che negli anni sono stati spesso criticati a dispetto della loro importanza e unicità.