Camera con vista


IL MARCHIO
TIM

di Luca Antoccia

big Eyes di Tim Burton (2014) è un piccolo grande film. Sull’America, sull’arretratezza dei rapporti uomodonna nel mondo occidentale solo cinquant’anni fa (quando si parla di tali questioni riferite al mondo non occidentale sarebbe bene rammentare la storia vera narrata in questo film sull’appropriazione indebita di un marito dell’arte e del nome della propria moglie). Un film sulla dialettica tra potere e riconoscimento all’interno della coppia. Ma anche un film sull’arte. E qui la cosa si fa più sottile perché c’è un’altra frontiera che va ben oltre la sopraffazione di genere e che concerne i diktat del mercato: così come esso riesce a imporre un nuovo talento in nome della sua riconoscibilità (la presenza di un “marchio di fabbrica” chiaro, uno stilema, in questo caso i grandi occhi del titolo precursori di tanto Pop Surrealism), allo stesso modo spinge l’artista a diventarne schiavo, una sorta di esecutore seriale, ad aver paura cioè di evolvere nello stile, pena la perdita di riconoscimento. Quando Margaret Ulbrich-Keane decide di ribellarsi, Walter, il marito-padrone e imprenditore, che ha usurpato l’“authorship” delle tele, le nega questo diritto e la reclude in una camera dove la sua prigionia da stilistica diventa reale: neppure la figlia potrà vederla al lavoro, anche perché non scopra che la vera artista è lei. È possibile allora che il grande affresco per l’Unicef sia il messaggio nella bottiglia di un naufrago e che il critico che la stroncherà sia piuttosto il suo salvatore. Big Eyes è un film minore, certo, ma delle opere minori ha la leggerezza calviniana di chi dice cose importanti sottotraccia. Quel Calvino il cui rovello teorico prima di Se una notte d’inverno un viaggiatore era come poter scrivere un romanzo (in questo caso dipingere) senza farsi ingabbiare in uno stile a cui essere poi per sempre associato da critica e pubblico e che limiti la propria libertà. La sequenza poi in cui il marito cerca di eliminare moglie e figlia ricorda Shining e quel Kubrick che ha portato al parossismo nel cinema il rifiuto del “marchio”, facendo film uno diverso dall’altro e spiazzando a ogni opera pubblico e critica. L’inizio molto timburtoniano con un villaggio che ricorda Edward mani di forbice e Big Fish viene poi progressivamente smantellato come se anche Tim Burton avesse voluto in parte decostruire il proprio mito e il proprio marchio. Provaci ancora Tim!

ART E DOSSIER N. 321
ART E DOSSIER N. 321
MAGGIO 2015
In questo numero: L'INVASIONE DELLE ULTRAMOSTRE Expo, Biennale e le altre, in Italia e in Europa: da Leonardo a Gauguin, da Altdorfer alla Nuova oggettività, dal barocco romano a Diebenkorn. PAGINA NERA La Palermo dell'abbandono.Direttore: Philippe Daverio