germania e italia

Il rapporto della Neue Sachlichkeit con l’Italia non è certo di superficie. Non si limita alle allusioni del manifesto della mostra del 1925 - comunque significative - e al fatto che pittori come Kanoldt e altri più o meno direttamente legati alla sua cerchia come Carlo Mense (nel 1922 tra gli espositori alla Fiorentina primaverile) e Adolf Erbslöh scelgano di dipingere città e luoghi italiani; oppure ritraggano figure a loro volta specchio, tipico, di un’idea di civiltà antica, che il tempo e la modernità non sono ancora riusciti a trasformare.

È il caso, rimanendo alle opere della mostra del 1925, dei Pescatori che riparano le reti di Georg Schrimpf, del Don Domenico e del Don Pepe dello stesso Mense, delle Due donne in un paesaggio italiano di Fritz Burmann o del ritratto di un giovanotto azzimato con un paesaggio mediterraneo sullo sfondo dipinto da Benjamin Godron, che aveva soggiornato a lungo in Spagna e in Sicilia.

La pittura degli artisti citati, riconducibili alla linea classicista della Nuova oggettività, mostra chiari elementi di vicinanza con lo stile degli italiani che facevano capo alla rivista “Valori Plastici”, pubblicata a Roma tra 1918 e 1921, e con la Metafisica, nella quale si poteva riconoscere un nuovo rinascimento dell’arte italiana. Lo affermava nel 1920 lo scrittore d’arte viennese Leopold Zahn nel quarto numero della rivista “Der Ararat” commentando le composizioni di de Chirico: «Un mondo stranamente silenzioso - quasi inquietante - emerge davanti a noi. Realtà chiaramente determinate acquistano un aspetto serio, quasi minaccioso. […] L’uomo come organismo vitale è escluso da questo mondo cristallino. Vi ha diritto di accesso solo in quanto manichino, strumento per dimostrare la meccanica del corpo umano». Tale modello era portato all’attenzione tedesca anche da Theodor Däubler che, scrivendo nello stesso anno della nuova arte italiana nella rivista “Der Cicerone”, osservava come «la città dove fioriscono le arti» fosse diventata Roma. Originario di Trieste, Däubler sarebbe stato tra i collaboratori della mostra La giovane Italia tenutasi a Berlino e Hannover nel 1921.

C’erano naturalmente Carrà e de Chirico (sul quale nel 1924 uscirà un influente testo di Giorgio Castelfranco nello Jahrbuch der Jungen Kunst), oltre a Morandi, Francalancia e Martini: le nuove parole d’ordine usate dalla critica del tempo erano «serietà austera» e «arcaismo», espressioni di una scelta neoquattrocentista contrapposta all’eccitazione selvaggia dei futuristi. Al Quattrocento veniva riportata una nuova pittura italiana dagli obiettivi inediti: «Forma anziché riforma, strutturazione più rigida, oggettività compresa plasticamente, non delirio estatico dei sentimenti ma “ratio”, organizzazione delle forze intellettuali, energia concentrata». Lo scriveva Paul Westheim nel 1921, nel sesto numero del “Kusntblatt”, in polemica con il futurismo italiano quanto con l’espressionismo tedesco: di lì a poco, tale prospettiva avrebbe assunto i connotati di una tendenza riconosciuta, quella appunto della Nuova oggettività.


Georg Schrimpf, Pescatori che riparano le reti (1924).


George Grosz, Giornata grigia. Impiegato municipale per i danni di guerra (1921); Berlino, Nationalgalerie.

Ma all’Italia guardavano anche i “veristi”, benché in misura più limitata. In molte opere di Grosz risalenti agli anni 1920-1921, cioè a una fase pressoché sovrapposta all’esperienza dada, il modo d’impaginare la scena riprende con evidenza i teatrini metafisici di de Chirico, ora caricati di una politicità del tutto estranea al modello originale: si vedano le composizioni con figure ridotte a manichini meccanici che si muovono in schematici interni o in altrettanto geometrizzate prospettive urbane, da L’uomo nuovo agli Automi repubblicani o al Giocatore di diabolo. Tra i pezzi di Grosz presentati a Mannheim c’è Giornata grigia. Impiegato municipale per i danni di guerra del 1921, con un sottotitolo che riporta il sapore formalmente metafisico dell’opera alla deprimente realtà di una Germania sconfitta e in crisi economica. Analoghe aperture alla Metafisica di de Chirico emergono periodicamente in un altro verista come Rudolf Schlichter, ed entro un arco cronologico più lungo, tra il Tetto di studio dada del 1920, con il tipico armamentario di manichini e strumenti da pittore bizzarramente disposti su un praticabile da palcoscenico, e Il mondo morto del 1926, conservato nella Galleria statale di Stoccarda.

Guardando la questione dalla prospettiva italiana, non stupisce che nel 1923 le Edizioni di Valori Plastici dedichino un volumetto al “classicista” Georg Schrimp scritto da Carlo Carrà, un autore che in quegli anni suscitava grande interesse nell’ambiente artistico tedesco sia come pittore - soprattutto con Le figlie di Loth del 1919 e il Pino sul mare del 1921 - sia come scrittore e teorico. Già nel 1919 “Das Kunstblatt” commenta il nuovo movimento artistico italiano del momento osservando come a guidarlo sembri essere proprio Carrà «che ha scritto un libro intitolato Pittura metafisica» (era stato appena pubblicato a Firenze da Vallecchi).


Adolf Erbslöh, Positano (1923). Questo Positano, dove Erbslöh era stato nel 1923 insieme a Kanoldt, ci dice di tutta la sua passione per l’Italia. Una certa visionarietà tipica del tardo espressionismo, con il sole che irradia da dietro la montagna, vi si combina ai modelli “primitivi” della nuova pittura italiana; mentre un certo carattere “mentale” del paesaggio tradisce stimolanti trascorsi monacensi nella kandinskijana Nuova associazione artistica.

«Caratteristica della sua opera», continua l’articolo, corredato dalla riproduzione di Il figlio del costruttore «è un peculiare verismo portato alle ultime conseguenze, che si sforza di raggiungere un disegno corretto, duro, senza tracce di calligrafia. In Germania, com’è noto, Grosz e Davringhausen percorrono la stessa strada». Appare meno scontata - e testimonianza di rapporti italo-tedeschi che in quel volgere d’anni seguono logiche più complesse di quanto oggi si pensi - l’uscita, sempre nelle Edizioni di Valori Plastici, di un libro di Italo Tavolato su quel Grosz che, in Germania, si riteneva appunto percorrere, insieme a Davringhausen, «la stessa strada di Carrà». Tavolato riporta anche Grosz al campo dell’arte classica in ragione del fatto di rappresentare «una realtà interiore, intuitiva, visionaria, più vera della realtà esteriore, materiale, visibile. Il suo modo espressivo è quello dell’arte classica: con elementi formali che non possono essere verificati sul modello, che cioè non si manifestano in natura, con tratti creati e non copiati, dà forma a una nuova realtà vera e originale». Ma Tavolato non si limita a ciò, riconoscendo addirittura nella sua visionarietà rivoluzionaria e antiborghese - animata da personaggi come «macchine tra le macchine» che si muovono in spazi urbani e in interni rappresentati secondo i principi futuristi di simultaneità e di compenetrazione dei piani - una serietà e una profondità “religiose”: «Più che un processo di critica sociale, per Grosz la distruzione del borghese è un rito religioso, l’offerta del capro espiatorio alla divinità offesa perché plachi la sua collera e faccia rinascere sulla terra la grandezza originaria e l’antica bellezza». Concludendo che «l’opera di Grosz si eleva in un dominio metafisico».

NUOVA OGGETTIVITÀ
NUOVA OGGETTIVITÀ
Antonello Negri
La presente pubblicazione è dedicata al movimento della Nuova oggettività. In sommario: Una tendenza e due anime, classicisti e veristi; Germania e Italia; Tra Dada e antiformalismo; Protagonisti e comprimari; Generi, temi e soggetti ricorrenti. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.