Arte in coppia
Alexandra Pirici e Manuel Pelmus¸


l’arte
del re-enactment

Dare voce alle opere attraverso il corpo.
Questo potrebbe essere lo slogan dei romeni Pirici e Pelmuş, interessati a ripercorrere la storia dell’arte utilizzando la performance.
Protagonisti alcuni attori-danzatori impegnati a mimare dipinti, sculture, installazioni e a offrire così un’esperienza svincolata dalla pura oggettualità.

di Cristina Baldacci

I due artisti romeni Alexandra Pirici (1982) e Manuel Pelmuş (1974), entrambi formatisi come coreografi, da alcuni anni sono impegnati in una singolare e affascinante ricerca: rileggere e far rivivere la storia dell’arte attraverso la performance. Con le loro “azioni ininterrotte”, a cui di solito partecipano più attori-danzatori contemporaneamente, intendono liberare l’opera d’arte dalla sua oggettualità - che l’ha resa un monumento e una merce - per riattualizzarla come immagine, ovvero come memoria immateriale e duratura. 

Nel 2013 si sono fatti conoscere internazionalmente partecipando alla Biennale di Venezia con un lavoro che ne ripercorre la storia. Ogni giorno, nel padiglione della Romania cinque performer mimavano, una dopo l’altra, una serie di sculture, dipinti, installazioni, video, performance delle passate edizioni, usando esclusivamente il corpo. La scelta di Pirici e Pelmuş, che per comporre il loro elenco di circa cento titoli hanno fatto una lunga ricerca preliminare in archivio e sui cataloghi della Biennale, comprende opere perlopiù molto iconiche: dal primo dipinto che ha suscitato scandalo nel 1985, il Supremo convegno di Giacomo Grosso, a una delle installazioni più rappresentative del lavoro di Félix González- Torres, esposta nel padiglione degli Stati Uniti nel 2007; un “tappeto” di caramelle alla liquirizia simili a missili, che esprimeva il dissenso dell’artista (scomparso nel 1996) per il tacito consenso dell’opinione pubblica nei confronti dell’imperialismo americano (Untitled - Public Opinion, 1991).


Un ritratto di Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş.

Public Collection, performance realizzata in occasione del progetto ON14|15, Do elephants ever forget? (Bologna, Oratorio di San Filippo Neri, 23-25 gennaio 2015).


An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale 2013. Messa in scena della Nona ora (1999) di Maurizio Cattelan.

In Public Collection il duo mette sotto scacco il museo come istituzione che raccoglie, archivia e storicizza testimonianze culturali


Dal momento che ogni re-enactment viene annunciato citando autore, titolo e data dell’opera originale, il risultato della performance è un catalogo di gesti e parole; «una retrospettiva immateriale della Biennale di Venezia», come indica il titolo stesso (An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale 2013); un monumento effimero in piena sintonia con l’utopico “Palazzo enciclopedico” di Maurino Auriti, scelto come motivo conduttore della mostra. 

In mostra c’era anche Tino Seghal (1976), che come Pirici e Pelmuş ha iniziato la sua carriera a stretto contatto con il teatro, e che alla scorsa Biennale ha vinto il Leone d’Oro come miglior artista con una delle sue “constructed situations” (Untitled, 2013). 

Mettere a confronto il lavoro di questi tre artisti ci sembra appropriato, specialmente ripensando all’opera che, quindici anni fa, ha segnato il decisivo passaggio di Seghal dalla coreografia alla performance. In Senza titolo (2000), un ballerino esegue a corpo libero una serie di pose e figure componendo un atlante immaginario della danza del XX secolo. C’è però una sostanziale differenza con le performance del duo romeno: Seghal rifiuta ogni foto, filmato o altra forma di documentazione delle sue azioni, di cui rimangono soltanto il resoconto orale e il ricordo visivo. 

Dopo la Biennale, è il Centre Georges Pompidou a mostrare il lavoro di Pirici e Pelmuş. Per il museo parigino i due artisti elaborano una performance simile alla precedente, Just Pompidou it. A Retrospective of Centre Pompidou (2014). 

Anche in questo caso, un gruppo di performer rappresentano opere, avvenimenti e personaggi che hanno fatto la storia dell’istituzione che li ospita. L’azione inizia con una citazione ironica e irriverente sui musei di Pontus Hultén, il primo direttore del Pompidou dal 1973 al 1981. È una voce femminile a far rivivere le sue parole, che recitano più o meno così: «I musei sono luoghi molto erotici. Molta arte tratta di sesso. Sappiamo bene che i musei sono luoghi ideali per abbordaggi». 

Dopo un accenno allo sciopero del personale addetto alle pulizie, che nel 1989 causò la chiusura del Pompidou per alcune settimane, racconto e azione si soffermano su una serie di opere che fanno parte della collezione e su altre che, nel corso degli anni, sono state esposte nel museo. Tra queste ultime ricordiamo Seven in a Bed (2001), scultura inclusa nella retrospettiva di Louise Bourgeois del 2008, e Jamais deux fois la même, un lavoro del 1967 che Daniel Buren riadattò per gli spazi del Pompidou nel 1985. Per ridare forma alla scultura della Bourgeois, composta da sette fantocci di pezza rosa abbracciati, i performer si sdraiano a terra e si cingono l’un l’altro; mentre per ripetere il dipinto su parete con le tipiche “bandes” (strisce) verticali e bicolori di Buren si allineano in piedi contro la vetrata del piano terra del museo. 

Just Pompidou ricorda un lavoro che Dominique Gonzalez-Foerster (1965) ha realizzato nel 2007 per Skulptur Projekte a Münster. Sebbene il medium usato sia diverso - in questo caso è la scultura -, il tentativo fatto da Gonzalez-Foerster è simile a quello di Pirici e Pelmuş. Con il suo Münster Roman, che potremmo tradurre come “il romanzo (o racconto) di Münster”, l’artista ha ricreato la storia della manifestazione d’arte tedesca a cadenza decennale allestendo nel parco cittadino una “mostra sperimentale” che si presentava come un museo in miniatura. Era infatti composto da riproduzioni lillipuziane di alcune delle opere più importanti presentate a Skulptur Projekte dall’anno della sua prima edizione, il 1977. 

Uno degli ultimi lavori di Pirici e Pelmuş, Public Collection (2015), presentato a gennaio scorso nella suggestiva cornice dell’oratorio di San Filippo Neri a Bologna come parte del progetto di arte pubblica ON14-15, Do elephants ever forget?, è dedicato proprio al museo. Con questa nuova performance, il duo mette sotto scacco il museo come istituzione che raccoglie, archivia e storicizza testimonianze culturali. 

A essere sovvertita è l’idea stessa di collezione come insieme di oggetti che sta alla base del museo, a cui gli artisti contrappongono una collezione immateriale, dove il corpo umano in azione sostituisce l’oggetto-feticcio e riproduce un repertorio di opere d’arte storiche che prendono forma nel “qui e ora”. 

Nelle performance di Pirici e Pelmuş il corpo è uno strumento critico e conoscitivo che indaga il nostro rapporto con l’immaginazione e la memoria collettiva, e con il contesto, politico, istituzionale, sociale, nel quale ha luogo l’azione e con il quale si relaziona il pubblico. Il corpo è dunque anche un efficace mezzo per trasformare l’arte da esperienza estetica e contemplativa in esperienza diretta e immersiva.


Scena di Public Collection, performance realizzata in occasione del progetto ON14|15, Do elephants ever forget? (Bologna, Oratorio di San Filippo Neri, 23-25 gennaio 2015).


Scena di Public Collection, performance realizzata in occasione del progetto ON14|15, Do elephants ever forget? (Bologna, Oratorio di San Filippo Neri, 23-25 gennaio 2015).


An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale 2013. Messa in scena della Nona ora (1999) di Maurizio Cattelan.

ART E DOSSIER N. 320
ART E DOSSIER N. 320
APRILE 2015
In questo numero: LE FACCE DEL BRONZO Originali, falsi e repliche: bronzi e bronzetti dai greci a Giambologna, a Pomodoro. IN MOSTRA: Bronzi ellenistici, Durand-Ruel, Il demone della modernità, Matisse.Direttore: Philippe Daverio