LA GIOVENTÙ E
GLI ANNI MILANESI

«Medardo, seguendo la propria indole indipendente e il proprio carattere bizzarro, ancora fanciullo eludeva la sorveglianza paterna timorosa di sviamenti e desiderosa di una carriera per il figlio nelle ferrovie stesse, e iniziava un lavoro alla macchia, recandosi ad aiutare un oscuro marmoraio, contento di poter tenere in mano la mazzuola e lo scalpello che non avrebbe più abbandonati.

A nulla valsero i rimbrotti e le busse, specialmente quando al vespero tornava a casa, dopo aver marinato la scuola, imbrattato di polvere di marmo e di creta. Tanto fece e tanto scongiurò che ottenne dal padre di seguire la propria vocazione d’artista»(1).

Nonostante avesse ricevuto un’educazione tradizionale, Medardo dimostrò fin dalla giovane età un’inclinazione verso la creatività “manuale” e un animo passionale che negli anni maturi sarebbe stato il suo tratto caratteriale più tipico.


Medardo Rosso era nato a Torino il 20 giugno 1858 da Domenico Rosso, funzionario delle ferrovie piemontesi, e da Luigia Bono. Il padre, dapprima impiegato sulla linea ferroviaria Torino-Genova, venne promosso nel 1870 a ispettore ferroviario, e nello stesso anno la famiglia Rosso si trasferì a Milano. Dal 1877 Medardo iniziò a frequentare dei corsi di disegno alla Scuola di belle arti della città.

Nel 1879 venne arruolato nel 1° Reggimento Genio a Pavia. Fu questo un periodo molto importante nella sua formazione: strinse importanti amicizie con personaggi che avrebbero avuto un ruolo determinante nella sua vita, tra cui l’ingegnere Gastone Pesce (che introdusse i suoi primi lavori a Parigi), ed, essendo presenti nella caserma dei laboratori di stampa litografica, di calcografia e di galvanoplastica, venne probabilmente a contatto diretto con i procedimenti tecnici della fotografia, che utilizzerà durante tutta la sua vita.


“El locch” (1882), bronzo; Roma, GNAM - Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea.

Iniziò a ritrarre i vari ufficiali della caserma, e per esercitarsi nella pittura gli venne concesso di dipingere in alcune chiese locali; quando non aveva soldi per tele o colori, si esercitava a modellare la terracotta. È proprio con una testina in terracotta, L’allucinato, che Rosso partecipa alla sua prima esposizione, L’Indisposizione di Belle Arti, organizzata a Milano, mentre sta ancora prestando servizio militare, dalla società della Famiglia artistica nel 1881, in opposizione all’Esposizione nazionale dell’industria e delle belle arti, specchio della tendenza ufficiale dell’arte.

Quando tornò a Milano nel 1882, s’iscrisse alla Scuola di nudo e plastica presso l’Accademia di Brera. Venne poi espulso solamente un anno dopo, nel 1883, per aver percosso un suo compagno di corso che si rifiutò di firmare una petizione lanciata dallo stesso Rosso allo scopo di inserire tra i modelli donne e bambini e permettere l’accesso agli studi anche di notte. Nel breve periodo della sua frequentazione partecipò alla mostra annuale dell’Accademia di Brera, presentando due terracotte patinate in bronzo, L’avanguardia (nota poi come Bersagliere o Garibaldino) e Cantando a spasso (poi Cantante a spasso), e il bronzo Dopo una scappata (poi Birichino o Gavroche). Nello stesso periodo Rosso scolpì altresì Il fumatore (più famoso poi come “El locch”). Queste sculture sono indicative del primo stile di Rosso, profondamente influenzato dall’ambiente milanese di quegli anni (anche se lui stesso negherà sempre questo aspetto), segnato dagli ultimi svolgimenti della Scapigliatura.

La Scapigliatura, movimento letterario e artistico sviluppatosi a Milano tra il 1860 e il 1890, si propone come risposta in senso realista al dissolvimento degli ideali romantici di gloria ed eroismo propugnati durante il Risorgimento: l’esigenza di un’arte civilmente impegnata, specchio del sogno di realizzazione di uno Stato unitario, era ora avvertita come retorica di fronte al sopravvento della cultura ufficiale e borghese, che indirizzava l’arte verso l’accademismo e il monumentalismo.

«Serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti»: così Cletto Arrighi definisce la Scapigliatura, termine da lui stesso ideato, come corrispettivo della “bohème” francese e del deciso rinnovamento in tutti i campi della cultura e delle arti.


Cantante a spasso (1883-1889) [1882], bronzo; Roma, GNAM - Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea.

Al di là di effettive affinità formali, con artisti della Scapigliatura quali Cremona o Ranzoni, Rosso si distacca specialmente da un punto di vista tematico e ideologico più vicino alla cosiddetta Scapigliatura democratica che a partire dal 1875 si concentra intorno alla figura di Felice Cameroni con il quale Medardo stringerà un intenso rapporto di amicizia a partire dal 1882. Quest’ultimo fece conoscere a Rosso il lavoro di Zola e Courbet, i maggiori rappresentanti del naturalismo francese i cui corrispettivi italiani sono da rintracciarsi nella corrente del verismo di Capuana e Verga.

L’arte viene intesa come studio sociale in cui fondamentali risultano la scelta dei temi in opposizione ai soggetti aulici o accademici e come studio dal vero, con conseguente aderenza a una resa oggettiva della realtà fisica del soggetto.
Il Bersagliere (1881-1882), “El locch” (1882), il Birichino (o Gavroche) (1882) sono opere esemplari in questo senso: personaggi tipici del sottoproletariato urbano milanese. Dal punto di vista formale sono opere ancora legate alla tradizione scolastica del modellato, quella di Grandi e di Ranzoni, ma con un trattamento delle superfici più accidentato, attento ai valori luministici, e a una maggior solidità d’insieme.

Ruffiana (o Vecchia, Fine, Mezzana) (1883-1887) [1883], bronzo; Milano, GAM - Galleria d’arte moderna.


Ruffiana (o Vecchia, Fine, Mezzana) (1885) [1883], gesso; Barzio (Lecco), Museo Medardo Rosso.

Rientra ancora in tali canoni l’opera Gli innamorati sotto il lampione (1883), e il Cantante a spasso (1882) che però rappresentano una sensibile ricerca di problemi formali come il vuoto e il pieno, e l’impiego di oggetti reali come nello stesso Innamorati sotto il lampione e nella prima versione di “El locch” (intitolata, come si è già detto, Il fumatore) dove appariva una vera pipa. Nello stesso periodo, a Parigi, Degas impiegava un tutù e capelli veri nella Piccola ballerina di quattordici anni (1881). Boccioni renderà omaggio a queste innovazioni nella sua scultura Fusione di una testa e di una finestra (1911). L’uso di oggetti trovati è presente anche in Ruffiana del 1883 (nota anche come Fine, Vecchia, Mezzana, Bauci o Margherita) dove viene utilizzato come piedistallo un frammento di portone con su scritto la parola «FINE». Dello stesso anno è il suo corrispettivo maschile, Vecchio, conosciuto anche come Signor Faust e Filemone. Così Rosso mette a punto il suo linguaggio espressivo, ricoprendo di cera una scultura in gesso, ricavata dalla creta direttamente modellata. La malleabilità della cera, come la sua proprietà traslucida, gli offrono la possibilità di variare dettagli in ogni versione dello stesso soggetto.

Dopo aver esposto presso la Galleria Vercesi a Milano, Rosso viene invitato all’Esposizione delle belle arti a Roma del 1883, dove porta tutte le opere presentate a Brera. Lì conosce Baldassare Surdi, pittore noto negli ambienti artistici romani, e di cui Rosso esegue un ritratto a olio. Surdi introduce Medardo alla critica romana, la quale accoglie le sue sculture con entusiasmo, arrivando a definirlo una «manna dal cielo per l’arte italiana». Il pittore romano è destinatario di una fotografia, che riprende l’insieme dello studio di Rosso. La foto è una delle prime prove fotografiche di Rosso, e riveste un particolare interesse trattandosi di una sorta di “foto-performance”: la figura di Rosso appare a sinistra dell’immagine, il suo volto intenso e irriverente; entrando nello studio a metà del tempo di esposizione, la sua figura appare sfocata, viva e in movimento. Sarà l’inizio delle varie ricerche che Rosso compirà sulla sua scultura attraverso il mezzo fotografico (si veda al riguardo il capitolo terzo).


Gli innamorati sotto il lampione (1883), bronzo; Barzio (Lecco), Museo Medardo Rosso.

A partire dalla scultura Amor materno (1883), di cui rimane solo una fotografia, e poi attraverso le successive sculture Carne altrui («mi prima opera a non più girar attorno») e Portinaia (entrambe tra il 1883 e il 1884), Rosso inizia a porre capisaldi rivoluzionari sui quali si fonderà tutta la sua produzione successiva. Si afferma il suo stile personale che si preciserà attraverso il contatto con le ricerche artistiche francesi degli anni Novanta.

Caratteristico della sua visione, come del suo modo tutto personale di esprimersi, è un colloquio riportato da Luigi Ambrosini negli anni Venti riferendosi a un’esperienza visiva dell’artista avvenuta nel 1883 nella sala dei gessi presso l’Accademia di Brera: «Ho capì che rien, niente è materiale nello spazio, perché tutto è spazio quindi tutto è relativo. Minga ho avuto bisogno della filosofica professor Einstein [...] L’è stato un caso. Un giorno son stà a lavurà all’Accademia Belle Arti. Ci sono scalini che sono nel muro sotto le finestre. Ero lì in queste sale di statue […] In quel moment vedo passare una coppia sul pavimento. Guardavo e vedevo che il pavimento, creduto piatto per il marciare sopra materiale, si alzava, veniva avanti, era come un tono e queste persone si spiegavano per una opposizione su quella tonalità.


Autoritratto (1883) nello studio di via Solferino 12 a Milano; Barzio (Lecco), Museo Medardo Rosso.

Questa ombra che si lasciavano dietro la faceva una roba granda […] Se io discendo vado là credo di poter toccare quei colori, di prenderli con la mano come tutti han creduto; ma se io faccio per prendere quell’ombra a terra non posso; ed è un tono che esiste come gli altri, guidato dalla mia emozione che mi dà tutti quei toni […] e dopo ho fatto Carne Altrui, la Portinaia che non ci si girava più attorno. Perché non si può toccare una colorazione, non si può fare divisione, non si può disgiungere le leggi di luce, di emozione»(2).

Quando Rosso afferma (e lo ripeterà più e più volte) che «nulla è materiale nello spazio», intende dire che tutte le figure, le forme sono partecipi di uno stesso spazio, fluido e illimite, rivelato dalla luce e dalle ombre. «Quando io faccio un ritratto, non posso limitarlo alle linee della testa perché questa testa appartiene a un corpo, si trova in un ambiente che esercita un’influenza su di lei, fa parte di un tutto che non posso sopprimere»(3). «La luce è la vera essenza della nostra esistenza, un’opera d’arte che non ha a che fare con la luce non ha ragione di esistere. Senza luce essa è priva di unità e spaziosità, è ridotta ad essere insignificante, di nessun valore, erroneamente concepita, basata necessariamente sulla materia. Niente a questo mondo può staccarsi dall’intorno, e la nostra visione - o impressione, se preferite il termine - può soltanto essere il risultato delle relazioni reciproche o valori dati dalla luce, e si deve catturare con un’occhiata la tonalità dominante»(4). L’utilizzo dell’effetto della luce, l’integrazione tra soggetto e ambiente si fondano sul presupposto dell’importanza della visione oculare nell’indagine sul reale. Rosso non intende semplicemente fissare l’impressione di una figura; questa non può essere scissa dall’impressione, per così dire, “emotiva” che da questa viene provocata. 


Scaccino (o Sagrestano) (1883), bronzo; Milano, GAM - Galleria d’arte moderna.

L’esigenza di catturare l’intima essenza del soggetto, e la partecipazione sentimentale che si avverte soprattutto nei suoi lavori posteriori al 1886, fanno sì che le sue opere siano sostanzialmente diverse da quelle impressionistiche, aggiungendo una dimensione sociale e psicologica alla semplice soggettività della visione. «Lo scultore deve, per via di un riassunto delle impressioni ricevute, comunicare tutto ciò che ha colpito la propria sensibilità, affinché guardando la sua opera, si possa provare interamente l’emozione che egli ha sentito quando ha osservato la natura»(5).

La ricerca del punto di vista unico, aspetto centrale della scultura di Rosso, trova un riscontro in uno scritto di Baudelaire per il Salon del 1846, intitolato Pourquoi la sculpture est ennuyeuse, dove afferma: «Brutale e positiva come la natura, essa [la scultura] è al tempo stesso vaga e inafferrabile perché mostra troppe facce in una volta. Invano lo scultore si sforza di mettersi da un punto di vista unico; lo spettatore che gira intorno alla figura può scegliere cento punti di vista differenti, eccetto quello buono; e accade spesso - ciò che è umiliante per l’artista - che un hasard di luce, un effetto di lampada scoprano una bellezza che non è quella alla quale avevano pensato»(6).

È in questo modo che Rosso considera la scultura al pari della pittura, per sua stessa natura in grado di veicolare la bellezza, il sentimento che l’artista aveva inizialmente concepito: «Non si gira intorno ad una statua come non si gira intorno ad un quadro, perché non si gira torno torno a una forma per concepirne l’impressione. […] La pittura ha un unico punto di vista, esclusiva e dispotica: e per questo l’espressione pittorica è tanto più forte»(7). Con Scaccino (o Sagrestano) del 1883, malgrado l’impianto ancora naturalista, la ricerca del punto di vista unico (solo la parte sinistra risulta lavorata, mentre la destra viene lasciata incompiuta), esprime già l’esigenza di rafforzare i legami tra la figura e lo spazio circostante. 


Carne altrui (1919-1923) [1883-1884], cera su gesso; Rovereto (Trento), MART - Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Carne altrui rappresenta una duplicità di archetipo femminile: madre e prostituta. «La tenerezza e l’adorazione della madre e la miseria del piacere venduto» (Ardengo Soffici). A seconda di come si guarda l’opera, il volto è in luce o in ombra, simboleggiando il duplice significato: l’amore eterno e il piacere momentaneo.

Dello stesso anno è Amor materno: oltre all’unicità del punto di vista, la rapidità dell’impressione, il trattamento delle luci-ombre e la morbidezza del modellato rimandano alla tecnica del rilievo schiacciato sviluppata da Donatello, tecnica che consente effetti simili a quelli ottenibili in pittura.

Rosso dimostra tanto la sua bravura tecnica quanto la presunta superiorità della sua scultura veramente “moderna”, realizzando numerose copie dall’antico: in opposizione alla tradizionale scultura italiana e alla sua icasticità, al suo monumentalismo, e ai suoi soggetti («meno Madonne e più donne!», esclamò una volta), e, in generale, in avversione a una concezione di statuaria contraria all’unità materiale dell’opera, motivo che porta Rosso ad apprezzare molto di più un Donatello rispetto a un Michelangelo. Si allontana dal canone greco-romano per avvicinarsi ai caratteri dell’arte etrusca e di quella egizia nelle quali si ritrova il valore della luce, dell’immaterialità e di organicità, che le regole euclidee e prospettiche avevano parzialmente rimosso. «Gli egiziani non conoscevano la falsità dei buchi, dei vuoti», afferma Rosso che propone una scultura monolitica. Un curioso aneddoto in merito è raccontato in De Sanna: «Una volta scolpì un Donatello con tanta abilità che un esperto del British Museum non indugiò a comprare l’opera e a pagarla profumatamente. Ma Medardo Rosso era più ambizioso delle sue qualità artistiche che di quelle di mercante; appena intascato il prezzo del falso Donatello si affrettò a rivelare il trucco all’acquirente il quale […] gli avrebbe fatto i suoi più sperticati complimenti, dichiarandosi disposto a tener per sé il falso ed acquistare inoltre un’opera vera del Maestro.


Portinaia (1917) [1883-1884], cera su gesso. Con quest’opera lo stile personale di Medardo Rosso inizia a essere manifesto, così come nella quasi contemporanea Impressione d’omnibus. I ritratti sono a grandezza naturale, la figura modellata in modo tale da non creare piani ma vibrazioni di luce.

A questo punto sorsero difficoltà insormontabili perché il cliente voleva pagare un vero Rosso meno di un falso di Donatello “Eh non, mon cher. Donatello non mangia, non beve e non si veste più, per fortuna sua. Mi, mangio, bevo compro vestiti e vado in giro: Se mai, è di più che mi dovete pagare”»(8).

La sua citazione dell’antico non si esaurisce nella copia o nell’utilizzo delle tecniche dei grandi maestri italiani, ma altresì nel confronto diretto che spesso attuava tra la sua scultura e quella antica, come riporta Margaret Scolari Barr riferendosi a Carne altrui, del 1883-1884: «L’analogia della posa sognante con quella della Madonna di Michelangelo nella Cappella Medicea è inevitabile, e Rosso ne era consapevole: nel Salon d’Automne del 1904 ha posizionato Carne Altrui a fianco della sua piccola copia della Madonna Medici, l’inclinazione echeggiando l’inclinazione»(9). È esattamente con Carne altrui e la Portinaia, del 1883-1884, che i nuovi principi divengono davvero pregnanti nella sua scultura, come afferma lo stesso Rosso: «Già fin dal 1882 al 1883, nelle esposizioni di Milano e Roma, e successivamente nei magazzini Vercesi [...] mostravo come la mia ricerca fosse del tutto discordante da quella di ogni altro scultore contemporaneo. 


Impressione d’omnibus in una fotografia del 1884-1889.

Con Carne Altrui, la Portinaia e Impression d’Omnibus […] contrariamente agli altri artisti, entrai nella visione di viver nostro umano e resi l’impressione imprevista causata in me dagli spettacoli della vita reale, per il mezzo unico a cui si manifestano a noi le cose visibili, cioè per mezzo della luce, del colore e dei loro contrasti, deformazioni prospettiche, senza aver bisogno delle formule del basso e alto rilievo tradizionale; ma, interpretando le manifestazioni dal vero, rendendoli per via d’emozioni anziché di misure e proporzioni materialmente tattili e non occupandomi di produrre un solo effetto visibile da un unico punto come in natura»(10).

Parallelamente, Rosso parla spesso della Portinaia come del punto iniziale della sua ricerca: «La mia Concierge, opera del 1883, questa per la sua concezione della luce, dell’emozione, di una prospettiva ben più movimentata, illimitata, non più da “natura morta”, ma dettata dalla trepidazione del nostro stato d’animo a causa delle nostre più o meno disgraziate fasi sociali dovute alle differenti unità di colorazione». L’opera, per la mobilità delle sue superfici, l’assenza del piedistallo e l’imposizione definitiva del punto di vista unico, si muove assieme allo spettatore, vive della sua visione soggettiva; appare e scompare, complice il sapiente uso del chiaroscuro.


Honoré Daumier, Interno di un omnibus (1864); Baltimora, Walters Art Museum.

La Portinaia potrebbe costituire il modello per una delle figure presenti nell’opera Impressione d’omnibus (o anche In tramway-Impressioni, 1883-1884), opera che sopravvive solo in fotografia. In gesso a grandezza naturale, raffigura un gruppo di persone sedute a fianco sull’omnibus, ricordando nel soggetto e nella composizione Intérieur d’un omnibus (Interno di un omnibus) di Honoré Daumier. Difatti la caratterizzazione dei personaggi è evidente, possiamo addirittura riconoscere la portinaia, il verduraio, e un’altra signora con cappello; il suo intenso carattere pittorico, la scioltezza del modellato e, soprattutto, la fusione che si crea tra le figure, l’assenza di vuoti che rende il gruppo un’unica fluida massa nello spazio, hanno invece portato Degas ad affermare vedendo la fotografia dell’opera: «Ma questa è pittura! È magnifico!». L’incontro tra Rosso e Degas sarebbe avvenuto in seguito al trasferimento di Rosso a Parigi nel 1889; ma potrebbe anche essere avvenuto prima, in quanto risalirebbe al 1884 un primo viaggio non documentato di Rosso nella città francese. Lì condusse una vita con pochi mezzi, ma visitando le gallerie più attive, come quelle di Georges Petit e di Durand-Ruel, dove erano esposte le opere degli impressionisti.

Tornò poco dopo a Milano dove, alla fine del 1884, muore la madre. Nell’aprile 1885, sposa Giuditta Pozzi, con la quale avrà nello stesso anno il suo primo e unico figlio, Francesco (all’anagrafe Francesco Evviva Ribelle). Probabilmente è lo stesso Francesco a essere ritratto assieme alla madre nella scultura Aetas aurea (o Maternità) del 1886: l’intensa carnalità del rapporto tra madre e figlio porta Rosso a legare indissolubilmente i due, attraverso la fusione delle zone di contatto dei due personaggi. Il titolo, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, non starebbe tanto a riferirsi alla felicità della condizione infantile, quanto avrebbe una connotazione politica e ideologica: una critica contro il sistema educativo contemporaneo che provocherebbe nell’infante la perdita della sua innocenza, quindi l’auspicio di un ritorno dei popoli all’età pura e incontaminata dell’infanzia.


Aetas aurea (o Maternità) (dopo il 1928) [1886], cera su gesso; Milano, GAM - Galleria d’arte moderna. Questa è una delle tre fusioni di Francesco Rosso sull’opera del padre (tutte in cera su gesso) che si aggiungono alle sei di Medardo Rosso (di cui tre in cera). Donata dal figlio Francesco alla GAM - Galleria d’arte moderna di Milano nel 1953, come parte di un nucleo più ampio di nove opere.

Tra il 1883 e il 1885, Rosso eseguì il monumento funebre L’ultimo bacio (o La riconoscenza), andato anch’esso distrutto, dove è raffigurata una donna che si protende nell’estremo saluto al sepolcro. Il crudo realismo creò scandalo, tanto che l’opera fu presto ritirata dal Cimitero monumentale di Milano. A Parigi intanto, Gastone Pesce presenta cinque bronzi di Rosso (Birichino o Gavroche, Vecchio, Bersagliere, Megera e Amor materno) al Salon des Artistes Français e successivamente al Salon des Indépendants.

L’esposizione avvenne all’insaputa dell’artista, e suscitò un interessante riscontro sulla stampa locale, che portò in un caso a definire Rosso come il fondatore della scultura impressionista.

Nella primavera del 1886 uscì un appello per gli artisti italiani a partecipare all’Esposizione nazionale artistica di Venezia (Prima Biennale d’arte) che si sarebbe tenuta l’anno seguente. Rosso partecipò con sette sculture: Ruffiana (o Vecchia, Fine, Mezzana) - in due versioni, una in cera e una in bronzo su piedistallo -, “Se la fuss grapa”, Carne altrui, Portinaia, Cantante a spasso e Amor materno.


Per il loro esagerato realismo e l’aspetto che ai più dovette apparire come bizzarro, queste opere vennero rifiutate dalla maggior parte del pubblico e della critica, ma suscitarono un tale scalpore da catturare l’interesse di quelle persone legate ad ambienti più sperimentali e di avanguardia quali i fratelli Vittore e Alberto Grubicy de Dragon che a Milano erano i teorici dell’“ impressionismo italiano” rappresentato da Previati, Segantini, Cremona e Ranzoni. I Grubicy invitano Rosso a esporre all’Italian Exhibition (1888), patrocinata dalla galleria di Alberto, presso la Royal Albert Hall di Londra. 

I successi in ambito professionale non corrisposero però a quelli in ambito personale: le frequenti crisi con la moglie peggiorarono, e Rosso pertanto chiese la separazione legale da Giuditta. Non avendo più niente che lo legasse a Milano, e non da ultimo a causa della ristrettezza culturale della città che ormai non riusciva più a contenere le sue ambizioni artistiche, decise nel 1889 di partire alla volta di Parigi in compagnia dell’amico Cameroni in occasione dell’Esposizione universale di quell’anno.

(1) M. Borghi, Medardo Rosso, prefazione di G. Papini, Milano 1950, p. 14.

(2) Da un’intervista con Luigi Ambrosini, apparsa con il titolo Parole di Medardo Rosso in “La Stampa”, 29 luglio 1923.

(3) Da E. Claris, L’Impressionismo in Scultura, pubblicato sulla “Nouvelle Revue”, Parigi 1901, traduzione di Ardengo Soffici in Il Caso Medardo Rosso, Firenze 1909, appendice.

(4) Da L’Impressionismo in scultura, una spiegazione, pubblicato sul “Daily Mail” il 17 ottobre 1907, in M. Rosso, Scritti sulla scultura, a cura di L. Giudici, Milano 2003, p. 15.

(5) Ibidem.

(6) Passaggio del Salon del 1846, in C. Baudelaire, Scritti sull’arte, riportato in G. Lista, Medardo Rosso. Scultura e fotografia, Milano 2003, p. 57.

(7) A. Soffici, op. cit.

(8) J. De Sanna, Medardo Rosso o la creazione dello spazio moderno, Milano 1985, p. 88.

(9) M. Scolari Barr, Medardo Rosso, catalogo della mostra (New York, Museum of Modern Art, 1963), New York 1963, p. 25.

(10) M. Rosso, lettera al direttore del “Corriere della Sera” Luigi Albertini, spedita nel giugno 1910, in G. Lista, op. cit., p. 399.

MEDARDO ROSSO
MEDARDO ROSSO
Francesco Stocchi
Un dossier dedicato a Medardo Rosso (Torino, 1858 - Milano, 1928). In sommario: La gioventù e gli anni milanesi; Gli anni parigini; Gli ultimi anni: le repliche, la fotografia e la fortuna critica. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.CartaceoeBook