IL RUOLO
DEL GREGGE

Naturalmente questi medesimi caratteri di “debolezza” congenita, di mondo povero legato ai pochi doni della terra, dagli esseri umani è pronto a comunicarsi anche agli animali, purché appartengano anch’essi a una costellazione di valori umili, con poca emersione dalla gleba, e con ben scarso spicco individuale.

presenze animali, insomma, tali da fare gregge, e mai come in questo caso il vocabolo vale proprio per indicare una moltitudine di presenze anonime, prive di rilevanza personale. Tutto il contrario di ciò che compete al suo opposto, al pomposo epiteto di “egregio”, con cui si intende indicare chi salta fuori dalla moltitudine indifferenziata. Per questo verso, l’intero universo di Millet non contempla la presenza di nessun “egregio”, tutti in basso, proni a terra. E dunque, nulla si adatta meglio a un simile universo quanto proprio un gregge di pecore, che sono come tante pallottole, tanti fagotti morbidi ma informi, quasi come rigonfiamenti delle zolle, pronti a esserne riassorbiti. Tipico in questo senso il dipinto Pastora di guardia ai suoi montoni, o La grande pastora, 1862, Musée d’Orsay. Qualche volta l’animale preso di mira può crescere di dimensioni, diventare una spaziosa vacca, intenta a surrogare la maternità umana. Infatti in un dipinto è colta mentre ha appena dato alla luce un vitellino (Nascita del vitello, 1864, Chicago, Art Institute of Chicago). In fondo, con un dipinto del genere Millet si pone su un piano concorrenziale rispetto a Courbet, anche questo è un inizio del mondo, ma totalmente avvolto nel pudore e nella delicatezza, anche se affidato all’universo inferiore degli animali.

Mai e poi mai l’artista avrebbe preso di mira il ventre della vacca mentre sforna la sua creatura, l’evento c’è già stato, e i contadini ne sono gli officianti, compresi dei loro doveri, come sacerdoti e chierici addetti a celebrare un rito sacro e nello stesso tempo del tutto quotidiano.
Forse abbiamo ecceduto alquanto nel condannare il nostro artista a una tematica bassa e degradata, qualche volta, a dire il vero, perfino il nudo può comparire nel suo repertorio, Succede nel Bagno della guardiana di oche, dove la nostra solita contadinella, confidando di essere sottratta a sguardi indiscreti, si denuda, mettendo in mostra un corpo quasi lunare, oblungo, felicemente articolato nelle gambe e braccia (Baltimora, Walkers Art Gallery). Ma a richiamarla al dovere, e a ricordarci che si tratta solo di una parentesi, c’è lo stuolo delle oche sullo sfondo, che non sfuggono anch’esse a quella fattura di morbide pallottoline biancheggianti con cui sono trattati i greggi. Del resto, non si può nemmeno dire che l’artista sia del tutto alieno da certe impennate verso soggetti alti, di sapore addirittura mitologico, ma si tratta pur sempre di una specie di mascherata, sono le sue contadinelle che per un momento, magari per una fiera di paese, assumono pose e vesti di qualche divinità (L’estate o Cerere, Bordeaux, Musée des Beaux-Arts).


Nascita del vitello (1864); Chicago, Art Institute of Chicago.

E finalmente anche una modesta pastorella riesce a posare in primo piano (Pastorella seduta in controluce, 1870-1873, Boston, Museum of Fine Arts, c’è pure una variante con titolo alquano diverso, Filatrice, custode di capre, Musée d’Orsay), e per l’occasione le è concesso di mostrare il viso, sostituendo al solito cappuccio un cappello a larghe tese, perfino vezzoso.


Filatrice, custode di capre (1868-1869); Parigi, Musée d’Orsay.


Pastorella seduta in controluce (1870–1873); Boston, Museum of Fine Arts.

Però non manca un richiamo al dovere, al lavoro, infatti dalle mani le sfugge una conocchia, e dunque, se viene sollevata dalla faticosa custodia delle greggi, è per assolvere a un ugualmente faticoso lavoro domestico, la maglieria, per cui si deve sottomettere, in altre occasioni, a lezioni impartite da qualche anziana colma di esperienza, come diverrà lei stessa col volgere degli anni. Ma in definitiva le attività che si possono svolgere all’interno, anche in tuguri malsani e asfittici, sono isole di riposo, di distensione, il duro destino del quarto stato obbliga anche le donne a uscir fuori, alle intemperie, e magari anche a caricare le spalle di gravi pesi, in un destino non diverso da quello spettante ai membri del sesso forte. In fondo quel senso di divisionismo anzi tempo che accompagna lo stile del nostro artista trova un motivo ispiratore proprio da uno dei lavori imposti da quella rude regola di vita, anche le donne si devono fare portatrici di pesanti fascine (Portatrici di fascine di ritorno dalla foresta, Boston, Museum of Fine Arts), ma quello sfasciume di tracciati filamentosi sembra proprio voler comunicare ai corpi un trattamento “diviso”, come fossero mutati anch’essi in motivi vegetali secchi, appassiti.

Del resto, è proprio quel letto quasi provvidenziale di fascine che accoglie le membra stanche dei lavoratori dei campi, con l’unione dei sessi, non c’è differenza tra Adamo ed Eva, giacciono entrambi stremati fianco a fianco, magari con qualche analogia con le Demoiselles courbettiane, solo che in quel caso le due figlie della miseria hanno mangiato la foglia, hanno indossato panni spocchiosi per attirare l’attenzione dei clienti, e anche per prendersi una rivincita personale, per fare un salto nel lusso delle classi superiori.


Portatrici di fascine di ritorno dalla foresta (1854); Boston, Museum of Fine Arts.

Portatrici di fascine (1852); San Pietroburgo, Ermitage.


Portatrici di fascine (1858 circa); New York, Metropolitan Museum of Art.

Qui invece c’è solo miseria, squallore, anche se nel segno di una indubbia moralità (Il mezzogiorno, pastello e matita, Boston, Museum of Fine Arts). Un’opera intitolata La fine della giornata, pastello e matita, University of Rochester, Memorial Art Gallery, forse nelle intenzioni dell’artista voleva solo puntualizzare un evento limitato nel dispiegarsi dei giorni, ma potrebbe assumere una portata generale, fino a indicare il presentimento che si avvicina il termine dell’intera giornata terrena dell’artista, il momento di concludere questa sua indefessa redazione di Opere e giorni, o quasi di un Libro d’ore, come usava nel lontano Medioevo. In questo caso l’umile lavoratore della terra riesce a erigersi in verticale, quasi come una fumata che si eleva dal terreno circostante, avendo deposto accanto a sé la vanga con cui fino a un momento prima ha scavato in quella gleba dura e ostile, ma che le ombre di un crepuscolo incipiente rendono però accogliente, a indicare il sopraggiungere della tregua serale. Una analoga immagine di riposo ben meritato ci è resa dal Vignaiolo, altro pastello e matita, L’Aja, Mesdag Collection, che in questo caso se ne sta chino, raccolto in sé, le braccia abbandonate, le gambe stese in avanti, mentre le zolle e la vegetazione lo accolgono in un abbraccio confortante.


Il mezzogiorno (1866); Boston, Museum of Fine Arts.


La fine della giornata, effetto sera (1865-1867). Viene la triste ora del crepuscolo, che però allo stanco contadino promette il rientro al povero domicilio per un meritato risposo. La figura umana si impasta nelle ombre della sera quasi fondendosi con l’ambiente.


Gustave Courbet, Signorine in riva alla Senna (1857); Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.
Altro noto capolavoro di Courbet in cui continua a declinarsi la profonda diversità dal rivale Millet. Le “signorine” si concedono una vacanza “en plein air”, senza rinunciare ai loro chiassosi costumi di sfacciato cattivo gusto. Siamo a un passo dal Déjeuner sur l’herbe di Manet.

C’è una contraddizione, in tutta la carriera di Millet, dato che il suo forte impegno sulle fatiche del lavoro contadino non gli consente certo di staccare lo sguardo da quell’epopea, mentre egli ha fatto atto integrale di accettazione della comunità di Barbizon, contrassegnata da un impegno primario sul paesaggio, con raro inserimento di protagonisti umani. D’altra parte Millet resta rigorosamente coerente con se stesso, se anche talvolta ci dà immagini di paesaggi allo stato puro, aleggia in essi la mancanza del protagonista umano, se ne avverte l’assenza, il gravare di quel vuoto. Tipico in tal senso L’inverno coi corvi, 1862, Vienna, Kunsthistorisches Museum, dove una spianata, arricciata, percorsa da ondulazioni, come avesse inghiottito al pari di una distesa di sabbie mobili la presenza di un gregge, è comunque dominata dalla visione di uno strumento agricolo, si deve supporre appena abbandonato dal servo della gleba addetto alla sua manutenzione e applicazione. In questo caso la presenza animale, assente o quanto meno assorbita dalle zolle, è affidata a uno stormo di corvi, che con le loro sagome scure attestano quasi un pianto, una lacrimazione della terra vittima del gelo invernale. Inutile dire che a questo spunto si aggancerà, appena un ventennio dopo, un erede di eccezione, Vincent van Gogh, rendendo più esplicito, più visibile e drammatico quel volo di animali sinistri.


Vignaiolo in riposo (1869); L’Aja, Mesdag Collection.

L’inverno coi corvi (1862); Vienna, Kunsthistorisches Museum.
La ricerca di solidarietà tra tutte gli esseri viventi del creato si estende anche ai pennuti, a un volo di corvi, peraltro portatori di un senso di tristezza, quasi di morte, che verrà pienamente colto da Van Gogh, in uno dei tramandi più significativi tra i due artisti. Non per questo Millet abbandona del tutto la scena terrestre, dedicata alle “opere e giorni”, come dimostra l’aratro abbandonato in primo piano, in attesa che il protagonista umano riprenda a recitare la sua parte.


Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi (1890); Amsterdam, Van Gogh Museum.

L’autunno, i covoni (1867-1868); L’Aja, Mesdag Collection.

In un altro caso l’assenza della componente umana è compensata da un’invasione di quei bioccoli, ciuffi, batuffoli di lana che sono le pecore, un motivo ripreso a più vasta scala dalla gonfia presenza di maestosi covoni, ben diversi da quelli che salteranno fuori dal pittoricismo pirotecnico di un Claude Monet. Qui quelle masse biancheggianti sono muti testimoni di un vuoto, di un’assenza di vitalità (L'autunno, i covoni, L’Aja, Mesdag Collection). Oppure quella cupa, opprimente atmosfera invernale, quasi di notturno, viene spazzata via da un Colpo di vento, 1871, Cardiff, National Museum Wales, National Museum Cardiff, ma c’è da chiedersi se non siano preferibili le atmosfere magari morte, ingolfate, al posto di quella bufera che quasi sradica l’albero, lo fa gemere, ne arruffa la chioma. Per fortuna che non ci sono contadini o pastori a dover sopportare quella stizzosa offensiva degli elementi scatenati. È il momento di rifugiarsi nei tuguri per attendervi a incombenze più tranquille, come fare la maglia, o tosare le pecore, o darsi a cure materne.

Qualche volta la terra si gonfia, respingendo quasi fuori scena la solita presenza di una pastorella, per cui si è esaurito l’attimo di dominio in primo piano, ora la conocchia tesa verso l’esterno sembra uno strumento per trovare un equilibrio, per resistere a quel montare improvviso del suolo (Pascolo sulla montagna in Alvernia, Chicago, Art Institute).


Colpo di vento (1871); Cardiff, National Museum Wales, National Museum Cardiff.
In genere, a differenza dei compagni della Scuola di Barbizon, Millet non ama le ribalte paesistiche prive di esseri umani, ma fa eccezione se la scena è dominata da un vento che sembra quasi assumere un protagonismo fatale, esprimere un senso di minaccia e di pericolo gravanti su di noi.

Le pietre che costellano la pendice, non si sa bene se hanno riassorbito nel loro spessore la presenza di esitanti pecorelle, o se al contrario le stanno forgiando, facendole spuntare da sé quasi come motivi di una stentata vegetazione. Del resto a quella visione, in definitiva tempestosa, minacciosa, segue a stretto giro una immagine più rasserenante dedicata alla Primavera, Musée d’Orsay.

In definitiva, Millet ha ben compreso che ha in sé le doti per imitare l’esempio del grande Poussin e per darci a sua volta una versione delle quattro stagioni, anche se non ugualmente compiaciuta e trionfale. Però qui la terra è davvero in festa, si copre di una fioritura, benché bassa, raso terra, ma in sostanza, una volta tanto, l’artista si merita quella definizione di “fiorito” con cui è stato battezzato il suo stile fin dalle origini. E c’è anche, a ribadire un possibile patto d’alleanza tra la natura e la comunità umana, il disegnarsi di un bellissimo arcobaleno, tema assolutamente estraneo alla temperie impressionista, ma rintracciabile in un fenomeno che in definitiva ha preso qualche spunto dal realismo di specie millettiana, si pensa a uno dei preraffaelliti, a John Everett Millais, si potrebbe perfino parlare di una vicinanza tra i due sulla base del “nomen omen”.

La vicinanza tra la rotta del nostro e quella maestosa di Poussin trova nuovo conforto dalla trattazione della stagione più piena e matura, L’estate, che però Millet lega prontamente al rito, all’obbligo di un duro compito dettato dalle necessità agricole, la battitura del granoturco, quando le pannocchie svuotate dei chicchi vengono raccolte in fascine, in viluppi filamentosi, cui, dalle nostre parti, si sta avvicinando il divisionismo del tutto speciale di Gaetano Previati. Oppure, sempre quei tralci funzionano come un vincolo tra l’attore umano del lavoro agricolo e il carattere informe dei campi, pronti ad assorbirlo, ma anche a dare un sostegno alla fatica dei poveri contadini, quasi a consentir loro di mettere radici, di abbarbicarsi alla terra, purché non pretendano di staccarsene troppo, ma accettino quel sacro vincolo.


Pascolo sulla montagna in Alvernia (1866-1869); Chicago, Art Institute of Chicago.

Primavera (1868-1873); Parigi, Musée d’Orsay.


L’estate o Cerere (1864-1865); Bordeaux, Musée des Beaux-Arts.

MILLET
MILLET
Renato Barilli
Jean-François Millet (Gréville-Hague 1814 - Barbizon 1875) è figlio della Normandia contadina, ciononostante riesce a unire il lavoro dei campi allo studio e all’apprendimento della pittura. Trascorre qualche tempo a Parigi, poi torna in provincia. Con un gruppo di artisti crea quella che sarà la scuola di Barbizon (dal nome del paese in cui si stabilirono, nell’Île de France), un sodalizio dedito a una pittura che assumeva programmaticamente la natura come unico motivo di ispirazione. Millet diventa il cantore della vita dei campi, della fatica dei contadini, degli armenti al pascolo, della poesia disadorna della vita semplice che si svolge lontano dai centri urbani, con uno stile essenziale e pieno di forza, concentrato su archetipi senza tempo.