Arriviamo ora al 1935: ancora la compresenza di sogno e sognatore, ancora una figura femminile (anzi due, ma forse in realtà una sola), ancora il mito, in Paul Delvaux e il suo Il sogno. Così scrive l’artista: «Sogno quando dipingo […]. Gli artisti conservano un’anima di bambini perché non sono sempre stati in contatto con la vita di tutti i giorni, sono rimasti fuori della realtà, nel loro mondo particolare»(12). Il dipinto è di grandi dimensioni e ha per soggetto due donne, nude: una con gli occhi chiusi, capelli neri e pelle rosata, distesa su un tessuto bianco in un paesaggio quasi deserto, sullo sfondo qualche roccia e un palazzo postrinascimentale; l’altra, sospesa a mezz’aria, pelle e capelli chiari, occhi aperti, è speculare alla prima. Immagine doppia, dunque, dove la dormiente sogna e la figura del sogno è, invece, sveglia, fuori dal tempo. Eppure, la donna che si innalza sembra voler interrogare l’altra, sembra l’unico elemento vivo in un mondo dove tutto è morto, ma… «Gli occhi spalancati possono vedere? Tutto è irrigidito nell’immobilità, inanimato, nell’attesa di un evento che non giunge, e l’opera spaventa e affascina nello stesso tempo. È abitata dalla poesia»(13). Con Delvaux la dimensione onirica si alimenta di un’atmosfera ormai surrealista e, pur celebrando l’eterno femminino, modula piani espressivi apparentemente illogici(14). Cortigiane, giovani fanciulle, dee o donne fatali e il loro carattere enigmatico e misterioso rappresentano senza dubbio il soggetto prediletto dell’artista, e la loro rappresentazione riflette i fantasmi del suo inconscio. Sospesa tra realtà e sogno, la donna di Delvaux appare impenetrabile, indifferente a chi e a cosa la circonda, immobile eppure in attesa, priva di azione o fornita, al più, di gesti appena accennati e quasi senza finalità, come se fosse una statua, un manichino, un automa da cui scaturisce un erotismo quasi raggelato.
Enigmatica e misteriosa, la donna è al centro dell’Exposition internationale du Surréalisme (1938).
La sezione intitolata Ville surréaliste (nota anche come Les plus belles rues de Paris) vede un corridoio con le pareti ornate di placche smaltate di blu con scritto in bianco il nome - reale o immaginario - di vie storiche della capitale popolate appunto di donne-manichino: in rue d’une Perle fa la sua comparsa il Portemanteau esthétique di Man Ray, un manichino che aveva in vita un piccolo nastro con la scritta «adieu foulard», mentre dagli occhi fino sulle spalle scendevano lacrime simili a gocce di vetro, l’acconciatura dei capelli presentava due pipe chiare da cui uscivano bolle e le gambe erano trattenute da una sorta di cilindro nero.
E se il sogno veicola relazioni di verità, anche la fotografia di Man Ray «provoca, in coloro che la guardano e interpretano, sentimenti di inquietudine […], affioramenti di memorie e traumi rimossi dagli strati profondi della coscienza […]. Certo colpisce […] la frequenza con cui si mettono in scena alcuni dei fenomeni psichici legati all’inconscio: i problemi dell’allucinazione, del sogno, del desiderio erotico e delle sue distorsioni»(15).
Sono temi che ritornano nella raccolta Les mains libres (1936-1937), sessantasei disegni a china accompagnati dalle poesie di Paul Eluard: «In questi disegni le mie mani sognano», aveva detto Man Ray precisando anche l’origine di quei disegni. «Ho sempre accanto al letto un blocchetto per appunti con penna e inchiostro. Anche quando viaggio. Di sera, prima di addormentarmi se mi viene un’idea faccio immediatamente un disegno. E al mattino, quando mi sveglio, se ho fatto un sogno cerco di ricavarne immediatamente un abbozzo. Molti fra i disegni di Mains libres sono disegni di sogni»(16). Il percorso tracciato dall’artista americano appare analogo a quello indicato dal Libro dei sogni del regista Federico Fellini(17).
Anche Man Ray, come Füssli e Delvaux, affida alla figura femminile un ruolo potente e immaginifico, terribile e affascinante. Nella sua autobiografia l’artista scrive come alcune delle sue fotografie più significative in bianco e nero fossero proprio l’esaltazione di una parte del corpo o del volto femminili. Nel dipinto All’ora dell’osservatorio. Gli innamorati (1931 circa) le labbra rosse di Lee Miller, sua allieva, amante e musa, rappresentano una sorta di incubo, un’ossessione, «galleggiavano in un cielo di un grigio bluastro, su un paesaggio crepuscolare, con un osservatorio con due cupole simili a seni appena accennato all’orizzonte»(18). Le labbra ricordano, freudianamente, una coppia di amanti sospesi in cielo in un’unione estatica al di là del tempo e dello spazio, che lo stesso artista associò appunto a una dimensione di sogno quando scrisse che «alle sette del mattino, prima di soddisfare una fame immaginaria - il sole non ha ancora deciso se sorgere o tramontare -, la tua bocca viene a soppiantare tutte queste indecisioni. Unica realtà che dà valore al sogno e ripugna al risveglio, essa rimane sospesa nel vuoto, fra due corpi. La tua bocca stessa diventa due corpi, separati da un orizzonte sottile, ondulato. Come la terra e il cielo, come te e me […]. Labbra del sole, mi attraete incessantemente, e nell’istante che precede il risveglio […] vi incontro nella luce neutra e nel vuoto dello spazio e, unica realtà, vi bacio con tutto ciò che ancora rimane in me: le mie labbra»(19).
Sogno e realtà, di nuovo indissolubilmente legati dunque nell’espressione di un amore folle e geloso per Lee Miller, probabilmente la donna simbolo del surrealismo con le sue stravaganze, il suo senso dell’umorismo, la sua chiarezza di giudizio, la sua ostinata indipendenza, la sua passione per l’arte, le sue mille contraddizioni, fino a subire anch’essa il fascino di certe atmosfere oniriche confondendo sogno e realtà.
«Siamo fatti della stoffa di cui sono intessuti i sogni, e la nostra breve vita è tutta dal sonno circondata», sono le parole di Prospero nell’epilogo della Tempesta di William Shakespeare: che sia davvero questa la nostra verità esistenziale?