Nel 1939 Leonora Carrington precipita in un incubo da cui riuscirà a riemergere, per ricominciare da zero, solo alcuni anni dopo, in un’altra parte del mondo
Un processo di identificazione che appare già manifesto nel 1937, l’anno del suo incontro con il surrealismo a Londra, dell’“amour fou” con Max Ernst e delle sue prime opere pittoriche e letterarie. Nell’Autoritratto del Metropolitan di New York sembra fare il punto sulla sua esistenza: appare scarmigliata e seduta al centro di una stanza; fuori dalla finestra galoppa libera una giumenta bianca mentre una iena, il suo doppio beffardo, ci osserva con sguardo di sfida. La sua chioma è vaporosa come una criniera al vento, indossa pantaloni da equitazione e il suo cavallo a dondolo non è stato bruciato (come nel racconto La dame ovale) ma riposa, quieto, appeso alla parete.
Nello stesso anno dipinge un altro autoritratto, Donna e uccello, dove il volto di donna, trasfigurato in quello di una cavalla, osserva un uccellino zampettare sul davanzale della finestra. In entrambi i quadri è il tempo del tramonto, il luogo delle metamorfosi, quando la luce si diparte da esseri e cose perché diventino altro da sé. Un invito ad andare al di là dello specchio per scorgere le diverse «realtà dei mondi possibili»(3), indossando l’identità più confortevole.
Nel Ritratto di Max Ernst, che dipinge due anni più tardi, si legge già il preludio della caduta che per sei mesi la lascerà «agonizzante», imbottita di psicofarmaci, nel manicomio di Santander.
In quest’opera, Leonora-giumenta appare come paralizzata, ibernata e anche ben custodita in una lanterna che il suo amante regge per farsi luce nel gelido inverno che precede lo scoppio della guerra. Nel settembre del 1939 Ernst viene rinchiuso in un campo di concentramento per stranieri: è tedesco in Francia, perciò da questo momento in poi la sua vita e la sua libertà sono a rischio. Il sogno si è infranto e Leonora Carrington precipita in un incubo da cui riuscirà a riemergere, per ricominciare da zero, solo alcuni anni dopo, in un’altra parte del mondo.
Nel 1942 è a New York e dipinge Tè verde, un altro autoritratto che racconta il momento di transizione da una vita a un’altra. Sullo sfondo di un giardino all’italiana ritrae una figura femminile in piedi, imbozzolata come un baco da seta e circondata da immagini di morte e rinascita. È avvolta in un manto maculato che la stringe come una camicia di forza mentre, attorno a lei, la natura riprende il suo corso. Ha gli occhi chiusi e le visioni che popolano il suo universo onirico si trasformano nelle immagini che l’accompagnano in un viaggio di rinascita: gli alberi sono colmi di frutti, il sottosuolo è abitato da uova e bozzoli e una cagna con le mammelle gonfie di latte è legata, insieme a un puledro bianco, al tronco di un pero. È proprio in questo periodo che scrive Down Below, la narrazione della propria dolorosa vicenda autobiografica, sollecitata dallo stesso Breton, che rappresenta un esercizio di metabolizzazione del passato più recente. Il leader del surrealismo, ascoltando e leggendo le sue parole, sente di toccare con mano l’esperienza del sogno, della follia, della perdita di sé nella fusione degli opposti: ecco la perfetta incarnazione di “femme enfant” e “sorcière”, colei che può svelargli la più segreta essenza del mistero dell’irrazionale.