La ragionea morte

Dopo Copernico e Darwin, Freud ha inflitto all’amor proprio umano la terza grande umiliazione: per la prima volta

l’uomo viene decentrato a vantaggio di un mondo che gli sfugge completamente. «Malattia di cui pretende d’essere la cura», secondo l’irriverente definizione di Karl Kraus, la psicoanalisi resta comunque il sintomo rivelatore di una civiltà entrata in crisi mortale. Tra una sconfitta certa e un futuro incertissimo, l’Europa della prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa sente cioè di dover riflettere sulle cause che l’hanno condotta all’abisso. Se Wagner e Nietzsche avevano portato alle estreme conseguenze la “Stimmung” romantica trasformandola in super-umanesimo, Freud restringe il campo d’azione: inchioda cioè l’uomo alla propria individualità cosciente e inconscia, divide e viviseziona l’interezza che era stata delle scienze umane e dell’idealismo. Compie insomma un intervento che quasi in contemporanea Einstein e Proust stavano praticando rispettivamente all’interno della materia e dei flussi della memoria. Segnali anche più precoci erano stati anticipati dall’arte che, come sappiamo, resta un infallibile termometro dei tempi. Segnali sparsi ma inconfondibili, come lo sguardo visionario di Blake e Füssli o l’onirismo simbolista di Moreau, Redon, Toorop, Kubin, tutti battitori liberi il cui merito è di aver insinuato l’“altro” nell’arte.


Fanteria tedesca sulla strada per le trincee durante la battaglia di Verdun all’inizio del 1916. La battaglia di Verdun è stata combattuta dal 21 febbraio fino al 20 dicembre 1916 e divenne il simbolo tedesco-francese della tragica insensatezza della guerra di trincea.


Un’immagine della battaglia di Verdun, Francia, 1916.

Nel primo decennio del secolo sono cubismo e futurismo a fare da apripista a questa rincorsa al sovvertimento del “voir”. Per Picasso e Boccioni si era trattato di scomporre il meccanismo psico-retinico dell’immagine, “rappresentare” cioè illusioni fino allora ritenute tabù dall’arte, quali la quarta dimensione e il movimento. Ma si trattava pur sempre di agire “dentro” il recinto liturgico del quadro, spazio inviolabile di cui la Storia e il Museo dovevano farsi carico. Il superamento continuava insomma a costeggiare il continente dell’arte di sempre. O comunque finiva per ritornarvi come un boomerang. Non bastava “assassinare il chiaro di luna” o indagare sul lato nascosto della realtà. La destabilizzazione vera doveva comportare un gesto estremo, non necessariamente rivoluzionario. Doveva essere una sfida che portasse all’affrancamento dai bisogni estetici, e non avrebbe avuto bisogno di militare “contro” per la semplice ragione che doveva proporsi, anche in questo caso, come “altro” dall’arte. 

A questo punto un ulteriore distinguo sulle citate avanguardie sarà d’obbligo. Vedremo così che sia cubismo che futurismo hanno un’anima profondamente “assertiva”, mirano alla bonifica di un certo sistema invalso. Per entrambi provocazione fa rima con rivoluzione, o almeno con azione, essendo quasi del tutto decorativo il loro supporto ideologico. Quello che invece occorreva perché il corso cambiasse, era un atto di “astensione”, di delegittimante renitenza a tutto ciò che di alto, nobile e unico la storia dell’arte aveva prodotto fino allora. Ne consegue che Dada - essendo appunto Dada ad aver per prima dato scacco matto all’arte intesa come “valore” - non è stata una rivoluzione. 

Perché non esistono rivoluzioni scettiche. 

A giustiziare le secolari certezze dell’arte, è proprio di questo strumento, il più eversivo di tutti, che Dada ha usufruito: là dove lo scetticismo porta alla “tabula rasa”, e perfino al gioco, quando i tempi non potevano di certo incoraggiarlo. E sicuramente gli accoliti di Dada ignoravano che il protoromantico Schiller aveva già anticipato il concetto di arte come gioco, e di gioco come libertà. E questo è il punto. 

L’avvertimento suonava forte: «Dada è tutto e il contrario di tutto». Nata per partenogenesi, Dada è quel “microbe vierge” che alla storia - definita dal guru Tristan Tzara una sorta di “semioblìo” - non deve altro che la propria carica reattiva. 

Per manifestarsi aveva bisogno di un’isola, e l’ebbe. Alla vigilia della guerra c’era una sola terra che poteva garantire il diritto di esercitare in libertà spirito e idee. Paradossalmente l’intelligenza, che non è mai neutrale, doveva trovare asilo nell’unico paese non allineato d’Europa: la Svizzera. 

Ma c’è di più. Non è un caso che Dada nasca nel 1916, l’anno stesso in cui a Verdun si combatte la più sanguinosa battaglia dei tempi moderni. Alla mattanza avviata dagli imperi centrali, non era necessario opporre eserciti: la sopravvivenza poteva essere garantita anche e soprattutto con le pratiche dell’immaginazione. Questo almeno si pensava a Zurigo, dove una internazionale di talenti stava congiurando contro quella borghesia capitalistica che era stata la principale responsabile della catastrofe. E non è ancora un caso che tra gli esuli di Zurigo ci fosse anche Lenin, che al numero 12 della Spiegelgasse, poco distante dal Cabaret Voltaire, il covo storico dei dadaisti, stava ultimando L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo. «L’impazienza di vivere era grande», sono ancora le parole di Tzara(1)

Al centro degli interessi dei dadaisti è il gesto, non l’opera. Che questa aspirazione fosse nell’aria, lo testimonia Francis Picabia, che già nel 1913, ai tempi del sodalizio newyorkese con Marcel Duchamp, auspicava un’arte “amorfa”, che non è nulla, solo, appunto, un “gesto”.


Manifesto di propaganda della Rivoluzione russa (1917). Ultima delle grandi rivoluzioni dell’epoca moderna, quella russa è stata una sorta di nemesi storica nata dalle tragiche contraddizioni sociali, politiche ed economiche che avevano portato l’Europa, e non solo, alla prima guerra mondiale.

(1) Estratto dell’intervista di Tzara a Radio Française nel 1950.

Mai si era osato tanto. Avevano scomodato perfino Cartesio, il più improbabile dei numi tutelari, adottandone l’aforisma: «Non voglio neppure sapere se prima di me ci sono stati altri uomini»(2). Non solo. Erano riusciti a dimostrare che su quel nulla si potevano costruire delle leggende, a cominciare dalla denominazione che si erano dati, apparsa la prima volta nel numero unico della rivista “Cabaret Voltaire”, il 15 giugno 1916. 

La letteratura è sterminata. Testimoni ed esegeti hanno tentato la decodificazione dell’impertinente bisillabo. Dada: pseudonimo di una sciantosa, oppure vagito di neonato, o forse coda di vacca sacra presso la tribù senegalese dei kru? Lo stesso Tzara rimescolava le carte ammettendo di aver ripreso la parola dal Larousse, infilandovi a caso un tagliacarte. 

Il 14 luglio 1916, alla prima serata dada di Zurigo, Hugo Ball avrebbe dato il colpo di grazia alla ragione: «Dada. Solo un nome facilissimo a capirsi, dada world war without end, dada revolution without beginning […] Dada Tzara, Dada Huelsenbeck, dada m’dada, dada m’dada mhm…». 

Nel ghetto cosmopolita di Zurigo, obiettori di coscienza, fuoriusciti politici, affaristi, avventurieri, intellettuali e poeti si erano insomma garantiti una specie di immunità dagli imperativi categorici della storia. Quasi per tacito appuntamento, vi si ritrovano Tzara e Marcel Janco, l’uno studente di filosofia e l’altro di architettura. Studioso di Nietzsche e Schopenhauer, il tedesco Ball diserta e arriva con la testa piena di progetti insieme alla compagna, la cantante Emmy Hennings. 

C’è anche l’alsaziano Arp, che fin dal nome - Hans e/o Jean - è il paradigma del sincretismo culturale di quella stagione. A Zurigo era approdato per ricongiungersi con la futura moglie, Sophie Taeuber, unica svizzera del gruppo. Richard Huelsenbeck, anche lui tedesco e riformato, chiude la compagine dei fondatori storici. I protagonisti sono comunque due: Tzara e Ball, anche se il primo è il vero capo carismatico, e il secondo il “filosofo” del gruppo.


Johann Heinrich Füssli, L’incubo (1781); Detroit, Art Institute.

(2) T. Tzara, Le surréalisme et l’après-guerre, Parigi 1948, p. 1.

Fatto è che in quell’anno di guerra che è il 1916, un ribaltamento irreversibile era avvenuto. Dada non puntava all’utopia, non prospettava traguardi avveniristici, né prometteva il riscatto estetico dell’umanità. Faceva qualcosa di più e di meno allo stesso tempo. Poneva la “negazione” come unica “verità” possibile di contro i valori usati e abusati dalla civiltà umana: logica, morale, patria, famiglia, religione e, appunto, arte. 

Marius de Zayas, collaboratore del dadaista “friendly” Alfred Stieglitz, già nel 1912 dall’altra parte dell’oceano, aveva sentenziato: «L’arte è morta. I movimenti che oggi si agitano (espressionismo, cubismo, futurismo e l’incipiente astrattismo, n.d.r.) sono il riflesso automatico di un cadavere galvanizzato»(3)

Non meno efficace la replica europea: «L’arte è un prodotto farmaceutico per imbecilli. Dada, invece, non vuole nulla, nulla, nulla. Vuole solo che il pubblico dica: “Noi non comprendiamo nulla, nulla di nulla”»(4)

Rifacendosi all’usanza di un’isola del Baltico, secondo cui su una litografia a soggetto militare ogni famiglia incollava l’immagine del congiunto partito in guerra, Raoul Hausmann inventa il fotomontaggio, versione evoluta del collage, che Max Ernst riprende portandolo a esiti magistrali. È sicuramente questa la tecnica che meglio sa “parlare” dada. Accanto a loro ci sono l’espressionista George Grosz e John Heartfield. 

I “Merz” di Kurt Schwitters, assemblaggi di materiali diversi (piume, bottoni, biglietti di tram, legni corrosi), costituiscono una delle più geniali “invenzioni” dada. Nell’oggetto, quello che conta è l’uso perverso del processo esecutivo, il primato del caso sulla misura, sulla regola, sulla necessità dell’arte dei musei. Ed è quasi surrealismo. 

In Germania l’attacco alla società borghese, reso esplicito nei due manifesti di Tzara (1918 e 1920), prende toni di scontro frontale. Johannes Baader, Grand-Dada di Berlino, è l’ideatore, insieme a Huelsenbeck, di una sorta di «atlante di lavoro per dadaisti » attraverso cui «permettere al gruppo di introdursi, proprio come un cavallo di Troia, nel cuore della civiltà borghese europea chiusa nelle proprie tradizioni»(5)

È nel quadro di questo fervore, e grazie ai buoni uffici di Tzara, che Huelsenbeck riceve da Parigi un importante contributo di adesioni. A rispondere all’appello berlinese sono il gran mediatore Francis Picabia, il “cubano” di Parigi, insieme ad André Breton, Louis Aragon, Philippe Soupault, Ribemont-Dessaignes, Raymond Radiguet - in pratica il futuro fronte surrealista - con i quali Tzara intratteneva rapporti epistolari a partire dalla pubblicazione del Manifesto del 1918. L’anno dopo le loro testimonianze sarebbero apparse su “Dada”, l’organo del movimento, e sull’“Anthologie Dada”. Ma anche Guillaume Apollinaire, l’uomo di tutte le avanguardie, Blaise Cendrars e Pierre Reverdy, già prima del loro sodalizio con il gruppo “Littérature”, avevano pubblicato negli stessi titoli.


Jean/Hans Arp di fronte a una sua opera (Parigi, 1948).


Un’immagine del centro di Zurigo in una cartolina del 1920 circa.

(3) M. De Zayas, The sun has set, in “Camera Work”, 39, New York, luglio 1912, p. 17.
(4) F. Picabia, Manifeste Dada, in “391”, Parigi, 12 marzo 1920, p. 1.
(5) T. Tzara, Manifeste Dada, Parigi 1918.

Il germe dada continuava così a propagarsi mostrando la sua vocazione internazionalista. 

Solo che ad accomunare i berlinesi - Huelsenbeck, Hausmann, Grosz, Anna Höch, Franz Jung, Erwin Piscator, Hans Richter - era soprattutto il radicalismo di pensiero. Di qui la loro adesione al Partito comunista tedesco e al Partito comunista operaio tedesco), come la necessità di inventare un’estetica del “brutto” capace di tradurre l’orrore per un conflitto che aveva lasciato dietro di sé milioni di morti, il crollo economico più assoluto e tumulti sociali.
«I migliori artisti, i più inauditi, saranno quelli che riprenderanno i lembi dei loro corpi nel frastuono delle cateratte della vita e, accanendosi all’intelligenza del tempo, sanguineranno dalle mani e dal cuore», tuona ancora Huelsenbeck dal suo Manifesto(6)

È Aragon che da Parigi intuisce per primo la «bellezza rivoluzionaria» dei fotomontaggi di Max Ernst, vedendovi «la compiuta integrazione della realtà oggettiva nell’opera d’arte». Ci furono scambi di ospitalità, quali la partecipazione, su invito di Breton, dello stesso Ernst alla mostra alla Galleria Au Sans Pareil, per l’invidia di Picabia, che chiede a Jean Cocteau di scrivere su “391” una recensione dove l’artista renano viene liquidato come «photographe gentil». In realtà i lavori di Ernst avevano fatto colpo sullo schieramento dei surrealisti “in pectore”, malgrado Pierre de Massot, in Postscriptum aux Mariés de la Tour Eiffel, avesse scritto di «porcherie» importate da Breton. 

Fatto è che Ernst, insofferente della piega neoespressionista che stavano prendendo i dadaisti di Colonia e Berlino (non esita tra l’altro a gratificare di «idiota eminente» Grosz), guarda ormai a Parigi, ansioso di ricongiungersi a coloro che avevano saputo fiutare e “riconoscere” la sua opera. Un tradimento che gli permetterà di svolgere un ruolo primario nel braccio di ferro tra Dada e surrealismo.


Tristan Tzara in una foto del 1921.

(6) H. Bergius, Dada à Berlin, in Paris-Berlin 1900/1933, catalogo della mostra (Parigi, Centre Georges Pompidou, 17 luglio-6 novembre 1978), Parigi 1978, p. 126.

Copertina del numero unico di “Cabaret Voltaire” (maggio-giugno 1916).


Kurt Schwitters, Merzbild 31 (1920); Hannover, Städtische Galerie.

SURREALISMO
SURREALISMO
Giuliano Serafini
La presente pubblicazione è dedicata al Surrealismo. In sommario: La ragione a morte; Dada è morto: viva il surrealismo!; Così parlò André; I protagonisti. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.