Fatto è che in quell’anno di guerra che è il 1916, un ribaltamento irreversibile era avvenuto. Dada non puntava all’utopia, non prospettava traguardi avveniristici, né prometteva il riscatto estetico dell’umanità. Faceva qualcosa di più e di meno allo stesso tempo. Poneva la “negazione” come unica “verità” possibile di contro i valori usati e abusati dalla civiltà umana: logica, morale, patria, famiglia, religione e, appunto, arte.
Marius de Zayas, collaboratore del dadaista “friendly” Alfred Stieglitz, già nel 1912 dall’altra parte dell’oceano, aveva sentenziato: «L’arte è morta. I movimenti che oggi si agitano (espressionismo, cubismo, futurismo e l’incipiente astrattismo, n.d.r.) sono il riflesso automatico di un cadavere galvanizzato»(3).
Non meno efficace la replica europea: «L’arte è un prodotto farmaceutico per imbecilli. Dada, invece, non vuole nulla, nulla, nulla. Vuole solo che il pubblico dica: “Noi non comprendiamo nulla, nulla di nulla”»(4).
Rifacendosi all’usanza di un’isola del Baltico, secondo cui su una litografia a soggetto militare ogni famiglia incollava l’immagine del congiunto partito in guerra, Raoul Hausmann inventa il fotomontaggio, versione evoluta del collage, che Max Ernst riprende portandolo a esiti magistrali. È sicuramente questa la tecnica che meglio sa “parlare” dada. Accanto a loro ci sono l’espressionista George Grosz e John Heartfield.
I “Merz” di Kurt Schwitters, assemblaggi di materiali diversi (piume, bottoni, biglietti di tram, legni corrosi), costituiscono una delle più geniali “invenzioni” dada. Nell’oggetto, quello che conta è l’uso perverso del processo esecutivo, il primato del caso sulla misura, sulla regola, sulla necessità dell’arte dei musei. Ed è quasi surrealismo.
In Germania l’attacco alla società borghese, reso esplicito nei due manifesti di Tzara (1918 e 1920), prende toni di scontro frontale. Johannes Baader, Grand-Dada di Berlino, è l’ideatore, insieme a Huelsenbeck, di una sorta di «atlante di lavoro per dadaisti » attraverso cui «permettere al gruppo di introdursi, proprio come un cavallo di Troia, nel cuore della civiltà borghese europea chiusa nelle proprie tradizioni»(5).
È nel quadro di questo fervore, e grazie ai buoni uffici di Tzara, che Huelsenbeck riceve da Parigi un importante contributo di adesioni. A rispondere all’appello berlinese sono il gran mediatore Francis Picabia, il “cubano” di Parigi, insieme ad André Breton, Louis Aragon, Philippe Soupault, Ribemont-Dessaignes, Raymond Radiguet - in pratica il futuro fronte surrealista - con i quali Tzara intratteneva rapporti epistolari a partire dalla pubblicazione del Manifesto del 1918. L’anno dopo le loro testimonianze sarebbero apparse su “Dada”, l’organo del movimento, e sull’“Anthologie Dada”. Ma anche Guillaume Apollinaire, l’uomo di tutte le avanguardie, Blaise Cendrars e Pierre Reverdy, già prima del loro sodalizio con il gruppo “Littérature”, avevano pubblicato negli stessi titoli.