Anche in questo senso, per privilegiare lo scatenamento delle energie che si nascondono alla coscienza e dunque la liberazione dell’istinto - va ricordato che Éluard elegge Sade a uno dei numi tutelari del movimento, nonché profeta di Freud(11) - il surrealismo si consacra in tutta la sua carica eversiva.
Con l’istinto, s’impone l’attività onirica, che, sempre attraverso Freud, mette sotto accusa le certezze umane favorendo associazioni e complicità inconcepibili a livello di veglia. È nel sogno che i desideri e i fantasmi dell’uomo si liberano dai freni inibitori e dai tabù che lo stato cosciente e la vita di relazione gli impongono. Compito dell’azione creativa è dunque evocare anche nello stato di veglia quelle pulsioni nascoste e censurate dalla società, dalla morale e dalla religione. Che poi è riscoprire la relazione profonda che intercorre tra esistenza e sogno, veri e propri vasi comunicanti da cui si sprigiona il desiderio, massima pulsione vitale dell’uomo, questa «scatola a fondo multiplo», per dirla con Breton. «Genitori! Raccontate i vostri sogni ai vostri figli!», recitava un volantino di propaganda del Manifesto del 1924.
Assumendo l’esperienza psichica quale fattore propulsivo, il surrealismo non aveva bisogno di inventare uno stile nuovo, un idioma proprio. La sua iconosfera poteva al contrario rifarsi senza complessi a “imageries” e tecniche preesistenti. Andrà bene tanto il fotomontaggio e l’oggetto “defunzionalizzato” dei dadaisti, come la pittura tradizionale - anche quella che presenta la massima aderenza al vero, fino al trompe-l’oeil - di cui viene fatto però un uso perverso, sia elaborandola nel modo più sciatto possibile, sia attentando al suo senso apparente mediante accostamenti capaci di produrre situazioni visive incongruenti. Né poteva essere diversamente se il sogno, come è vero, genera immagini tanto più definite nei contorni quanto più oscure nei significati. «Tutto porta a credere», scrive Breton(12), «che esista un certo punto dello spirito dove la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere avvertiti come contradditori. Sarebbe vano cercare nell’attività surrealista altro movente che la speranza di raggiungere quel punto». E ancora, tenuto conto che l’automatismo psichico non è esclusiva pertinenza dei procedimenti scritturali, gli stessi che aveva sperimentato insieme a Soupault nei Campi magnetici, specifica:
«L’immagine surrealista più forte è quella che presenta il più elevato grado di arbitrarietà, quella che richiede più tempo per essere tradotta in linguaggio pratico, sia che racchiuda una enorme dose di contraddizione apparente»(13).
Se nel 1925 lo stesso Breton profetizza che in futuro «le vere rivoluzioni saranno compiute attraverso la forza delle immagini », il grido di battaglia dei surrealisti, quello in cui tutti si riconosceranno, malgrado e oltre le roventi divergenze e le continue scissioni, è solo uno: «La bellezza sarà convulsiva, o non sarà!».
Quasi a negare qualsiasi debito di continuità con i dadaisti, i surrealisti disertano Montparnasse e si ritrovano ai piedi della Butte, al caffè Cyrano di place Blanche, in rue Fontaine dove abita Breton o in rue Château, in casa di Marcel Duhamel, di cui sono assidui Jacques Prévert e Yves Tanguy.
La domenica il gruppo si trasferisce al mercato delle pulci di Porte Clignancourt e Saint-Ouen dove può fare incetta di “objets trouvés”. E questo quando sull’altra riva della Senna l’Ecole de Paris sta vivendo la massima fioritura, affollando La Coupole, le Dôme e la Cloiserie de Lilas di una fauna che avrebbe costretto Duchamp a intensificare la sua spola a New York: il tasso di concentrazione di artisti supposti geniali, gli rendeva, come riferisce Robert Lebel(14), l’aria irrespirabile.
In certi giorni a Montparnasse si potevano ritrovare insieme, in un’area di appena trecento metri quadrati: Brancusi, Soutine, Severini, Kupka, De Chirico, Van Dongen, Picasso, Foujita, Pascin, Gabo, Pevsner, Mondrian, Lipchitz, Chagall, Zadkine, Calder e Giacometti. A non tener conto degli “indigeni” Villon, Derain, Dufy, Laurens, Vuillard, Signac e Marquet.
Ma non è questo genere di concorrenza che spaventa i surrealisti. In attesa che la rivoluzione faccia il suo corso, puntano tutto sulla più sistematica provocatorietà. Chiunque, artista, filosofo, politico, poeta o militare che appaia in odore di conservatorismo, viene attaccato da volantini, manifesti, lettere pubbliche, pamphlet. Ogni evento pubblico diventa alibi per le più deliranti aggressioni verbali: dai funerali di Anatole France del 1924 agli incarichi diplomatici di Paul Claudel, fino alla guerra del Marocco (1921-1926), culminata con la feroce repressione di Abd-el-Krim.
Insieme a Breton, a firmare il primo manifesto, quello del 1924, sono, tra i surrealisti storici, Aragon, Soupault, Éluard, Péret e Raymond Queneau. Quest’ultimo, con toni da slogan pubblicitario, nel comunicato che lo annuncia, ha modo di avvertire: «Siamo gli specialisti della rivolta. Non c’è mezzo d’azione che all’occorrenza non siamo capaci di utilizzare […] Se necessario, frantumeremo le pastoie dello spirito con martelli materiali».
Il secondo manifesto esce nel dicembre 1929, quando il gruppo si trova nella tormenta dei disaccordi e delle purghe. Allora si trattava di firmare l’impegno dell’osservanza politica - oggetto del contendere, la difesa di Trockij perseguitato da Stalin - e Breton ne aveva approfittato per pubblicare la lista di quanti avevano optato per una linea scettica, non condividendo la sua venerazione per il grande esule. Tra gli altri, l’“enfant terrible” Antonin Artaud, André Masson e Soupault.
Fatto è che da questa data in poi l’ascesa di Breton diventa irresistibile fino a sfiorare, agli occhi di accoliti e oppositori, il dispotismo e il plagio. Resta lui l’elemento catalizzatore del gruppo, il messia che apre al surrealismo campi d’azione che sembravano essergli preclusi. In questo senso d’importanza capitale diventa il saggio Il surrealismo e la pittura, pubblicato nel 1928, vera summa della sua teoretica: «Una concezione troppo stretta dell’imitazione data come scopo all’arte», scrive con implacabile lucidità, «è all’origine del grave malinteso che si è andato perpetuando fino ai giorni nostri […] L’errore commesso fu di pensare che il modello non poteva essere preso che nel mondo esteriore […] L’opera plastica, per rispondere alla necessità di revisione assoluta dei valori reali sui quali oggi tutti gli spiriti sono d’accordo, si rifarà dunque a un modello interiore, o non potrà esistere».
Invenzione chiave del movimento, quella che porta l’automatismo alle sue estreme conseguenze - tra i suoi sperimentatori ci sono Ray, Prévert, Joan Miró, Tanguy, Masson, Valentine Hugo e lo stesso Breton - è il “cadavre exquis”: gioco collettivo che consiste nel comporre una frase o un disegno su carta ripiegata, senza che nessun partecipante possa vedere gli interventi che hanno preceduto il suo (il nome deriva dalla frase ottenuta al primo esperimento: «Il cadavere / squisito / berrà / il vino / nuovo»).
Nel 1921, quando i dadaisti montano la farsa del “processo Barrès” e condannano il manichino che lo rappresenta, Ernst e Miró espongono a Parigi alla galleria Au Sans Pareil. Il primo presenta La parola o Donna-uccello e L’elefante Celebes, vetta dell’iconografia surrealista. Della sua ortodossia fa prova anche quella sorta di ritratto di famiglia in esterno che è L’incontro degli amici (1922), dove il gruppo, ripreso nella sua quasi totalità con stile provocatoriamente naïf, si stringe intorno ai “convitati di pietra” Dostoevskij e Raffaello Sanzio.
Il “primitivo” del surrealismo, il catalano Miró, che era approdato a Parigi nel 1919, solo alla prima mostra surrealista del 1925 alla Galleria Pierre ha però modo di farsi notare con opere che si rifanno agli elaborati grafico-automatici di Masson.