Così parlò andré

«Solo la parola libertà ancora mi esalta», scrive Breton(10). «Tra i tanti mali ereditati si deve pur riconoscere

che la più grande libertà di spirito ci è lasciata. Sta a noi non farne cattivo uso. Incatenare l’immaginazione, anche trattandosi di ciò che comunemente si chiama felicità, è come sottrarsi a ciò che v’è nell’intimo nostro di suprema giustizia. Solo l’immaginazione mi dà conto di ciò “che può essere”». 

Su questa riflessione riemerge la filosofia dell’“oltre”, ormai riscattata dai narcotizzanti veleni del simbolismo. Da medico psichiatra e studioso di Freud, Breton si appropria della teoria dell’inconscio formulata dal “maestro” per cesellare a sua volta un sillogismo tutto sommato semplice: i processi psichici agiscono per immagini, e siccome compito naturale dell’arte è produrre immagini, saranno le immagini lo strumento ideale per far emergere i contenuti del profondo. 

L’atto creativo fa così da cartina di tornasole alla contrapposizione tra il mondo emerso della realtà e quello sommerso dell’inconscio (come lo stesso Breton avrà modo di specificare nel successivo Il surrealismo e la pittura). Ne consegue che l’arte cessa d’essere mero strumento di rappresentazione permettendo all’inconscio di debordare dai confini impostigli dalla coscienza - il Super-Io freudiano - e manifestarsi allo sguardo.


Max Ernst, L’elefante Celebes (1921); Londra, Tate Modern.


Man Ray, André Breton (1931).

Anche in questo senso, per privilegiare lo scatenamento delle energie che si nascondono alla coscienza e dunque la liberazione dell’istinto - va ricordato che Éluard elegge Sade a uno dei numi tutelari del movimento, nonché profeta di Freud(11) - il surrealismo si consacra in tutta la sua carica eversiva. 

Con l’istinto, s’impone l’attività onirica, che, sempre attraverso Freud, mette sotto accusa le certezze umane favorendo associazioni e complicità inconcepibili a livello di veglia. È nel sogno che i desideri e i fantasmi dell’uomo si liberano dai freni inibitori e dai tabù che lo stato cosciente e la vita di relazione gli impongono. Compito dell’azione creativa è dunque evocare anche nello stato di veglia quelle pulsioni nascoste e censurate dalla società, dalla morale e dalla religione. Che poi è riscoprire la relazione profonda che intercorre tra esistenza e sogno, veri e propri vasi comunicanti da cui si sprigiona il desiderio, massima pulsione vitale dell’uomo, questa «scatola a fondo multiplo», per dirla con Breton. «Genitori! Raccontate i vostri sogni ai vostri figli!», recitava un volantino di propaganda del Manifesto del 1924. 

Assumendo l’esperienza psichica quale fattore propulsivo, il surrealismo non aveva bisogno di inventare uno stile nuovo, un idioma proprio. La sua iconosfera poteva al contrario rifarsi senza complessi a “imageries” e tecniche preesistenti. Andrà bene tanto il fotomontaggio e l’oggetto “defunzionalizzato” dei dadaisti, come la pittura tradizionale - anche quella che presenta la massima aderenza al vero, fino al trompe-l’oeil - di cui viene fatto però un uso perverso, sia elaborandola nel modo più sciatto possibile, sia attentando al suo senso apparente mediante accostamenti capaci di produrre situazioni visive incongruenti. Né poteva essere diversamente se il sogno, come è vero, genera immagini tanto più definite nei contorni quanto più oscure nei significati. «Tutto porta a credere», scrive Breton(12), «che esista un certo punto dello spirito dove la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere avvertiti come contradditori. Sarebbe vano cercare nell’attività surrealista altro movente che la speranza di raggiungere quel punto». E ancora, tenuto conto che l’automatismo psichico non è esclusiva pertinenza dei procedimenti scritturali, gli stessi che aveva sperimentato insieme a Soupault nei Campi magnetici, specifica: 

«L’immagine surrealista più forte è quella che presenta il più elevato grado di arbitrarietà, quella che richiede più tempo per essere tradotta in linguaggio pratico, sia che racchiuda una enorme dose di contraddizione apparente»(13)

Se nel 1925 lo stesso Breton profetizza che in futuro «le vere rivoluzioni saranno compiute attraverso la forza delle immagini », il grido di battaglia dei surrealisti, quello in cui tutti si riconosceranno, malgrado e oltre le roventi divergenze e le continue scissioni, è solo uno: «La bellezza sarà convulsiva, o non sarà!».

Quasi a negare qualsiasi debito di continuità con i dadaisti, i surrealisti disertano Montparnasse e si ritrovano ai piedi della Butte, al caffè Cyrano di place Blanche, in rue Fontaine dove abita Breton o in rue Château, in casa di Marcel Duhamel, di cui sono assidui Jacques Prévert e Yves Tanguy. 
La domenica il gruppo si trasferisce al mercato delle pulci di Porte Clignancourt e Saint-Ouen dove può fare incetta di “objets trouvés”. E questo quando sull’altra riva della Senna l’Ecole de Paris sta vivendo la massima fioritura, affollando La Coupole, le Dôme e la Cloiserie de Lilas di una fauna che avrebbe costretto Duchamp a intensificare la sua spola a New York: il tasso di concentrazione di artisti supposti geniali, gli rendeva, come riferisce Robert Lebel(14), l’aria irrespirabile. 
In certi giorni a Montparnasse si potevano ritrovare insieme, in un’area di appena trecento metri quadrati: Brancusi, Soutine, Severini, Kupka, De Chirico, Van Dongen, Picasso, Foujita, Pascin, Gabo, Pevsner, Mondrian, Lipchitz, Chagall, Zadkine, Calder e Giacometti. A non tener conto degli “indigeni” Villon, Derain, Dufy, Laurens, Vuillard, Signac e Marquet. 
Ma non è questo genere di concorrenza che spaventa i surrealisti. In attesa che la rivoluzione faccia il suo corso, puntano tutto sulla più sistematica provocatorietà. Chiunque, artista, filosofo, politico, poeta o militare che appaia in odore di conservatorismo, viene attaccato da volantini, manifesti, lettere pubbliche, pamphlet. Ogni evento pubblico diventa alibi per le più deliranti aggressioni verbali: dai funerali di Anatole France del 1924 agli incarichi diplomatici di Paul Claudel, fino alla guerra del Marocco (1921-1926), culminata con la feroce repressione di Abd-el-Krim. 
Insieme a Breton, a firmare il primo manifesto, quello del 1924, sono, tra i surrealisti storici, Aragon, Soupault, Éluard, Péret e Raymond Queneau. Quest’ultimo, con toni da slogan pubblicitario, nel comunicato che lo annuncia, ha modo di avvertire: «Siamo gli specialisti della rivolta. Non c’è mezzo d’azione che all’occorrenza non siamo capaci di utilizzare […] Se necessario, frantumeremo le pastoie dello spirito con martelli materiali». 
Il secondo manifesto esce nel dicembre 1929, quando il gruppo si trova nella tormenta dei disaccordi e delle purghe. Allora si trattava di firmare l’impegno dell’osservanza politica - oggetto del contendere, la difesa di Trockij perseguitato da Stalin - e Breton ne aveva approfittato per pubblicare la lista di quanti avevano optato per una linea scettica, non condividendo la sua venerazione per il grande esule. Tra gli altri, l’“enfant terrible” Antonin Artaud, André Masson e Soupault. 
Fatto è che da questa data in poi l’ascesa di Breton diventa irresistibile fino a sfiorare, agli occhi di accoliti e oppositori, il dispotismo e il plagio. Resta lui l’elemento catalizzatore del gruppo, il messia che apre al surrealismo campi d’azione che sembravano essergli preclusi. In questo senso d’importanza capitale diventa il saggio Il surrealismo e la pittura, pubblicato nel 1928, vera summa della sua teoretica: «Una concezione troppo stretta dell’imitazione data come scopo all’arte», scrive con implacabile lucidità, «è all’origine del grave malinteso che si è andato perpetuando fino ai giorni nostri […] L’errore commesso fu di pensare che il modello non poteva essere preso che nel mondo esteriore […] L’opera plastica, per rispondere alla necessità di revisione assoluta dei valori reali sui quali oggi tutti gli spiriti sono d’accordo, si rifarà dunque a un modello interiore, o non potrà esistere». 
Invenzione chiave del movimento, quella che porta l’automatismo alle sue estreme conseguenze - tra i suoi sperimentatori ci sono Ray, Prévert, Joan Miró, Tanguy, Masson, Valentine Hugo e lo stesso Breton - è il “cadavre exquis”: gioco collettivo che consiste nel comporre una frase o un disegno su carta ripiegata, senza che nessun partecipante possa vedere gli interventi che hanno preceduto il suo (il nome deriva dalla frase ottenuta al primo esperimento: «Il cadavere / squisito / berrà / il vino / nuovo»). 
Nel 1921, quando i dadaisti montano la farsa del “processo Barrès” e condannano il manichino che lo rappresenta, Ernst e Miró espongono a Parigi alla galleria Au Sans Pareil. Il primo presenta La parola o Donna-uccello e L’elefante Celebes, vetta dell’iconografia surrealista. Della sua ortodossia fa prova anche quella sorta di ritratto di famiglia in esterno che è L’incontro degli amici (1922), dove il gruppo, ripreso nella sua quasi totalità con stile provocatoriamente naïf, si stringe intorno ai “convitati di pietra” Dostoevskij e Raffaello Sanzio. 
Il “primitivo” del surrealismo, il catalano Miró, che era approdato a Parigi nel 1919, solo alla prima mostra surrealista del 1925 alla Galleria Pierre ha però modo di farsi notare con opere che si rifanno agli elaborati grafico-automatici di Masson.


Riunione al “Bureau de Recherches Surréalistes” di rue de Grenelle, a Parigi, nel dicembre 1924. Da sinistra, in piedi: Charles Baron, Raymond Queneau, Pierre Naville, André Breton, J. A. Boifford, Giorgio de Chirico, Roger Vitrac, Paul Éluard, Philippe Soupalt, Robert Desnos, Louis Aragon; seduti: Simone Breton, Max Morise, Mick Soupault.

(10) A. Breton, Manifeste du Surréalisme, Parigi 1924.
(11) P. Éluard, Donner à voir, Parigi 1939, pp. 79-87.
(12) A. Breton, P. Eluard, Dictionnaire abrégé du Surréalisme, Parigi 1946, p. 845.
(13) Ivi, pp. 816-817.
(14) R. Lebel, Paris-New York et retour avec Duchamp, Dada et le Surréalisme, in Paris-New York, catalogo della mostra (Parigi, Centre Georges Pompidou, 1° giugno-19 settembre 1977), Parigi 1977, p. 67.

A benedire quella mostra storica - cui prendono parte il riconosciuto anche se scomodo “capostipite” De Chirico, Ernst, Klee, Arp, Masson, l’onnivoro Picasso e il non allineato Ray - sono Breton e Robert Desnos che scrivono l’introduzione in catalogo. L’annuncio tipografico forma sull’affiche una grande “X”, a simbolica cancellazione dell’arte del passato. 

L’anno dopo farà notizia la rissa a suon di pugni in rue Campagne Première tra Breton e il “pictor optimus”, che si guadagna l’espulsione dal gruppo. Del resto Breton aveva una certa inclinazione allo scontro fisico, se si pensa agli schiaffi assestati a Ilja Erenburg, reo di non prendere sul serio la militanza comunista dei surrealisti (l’incidente era avvenuto nel 1935 al congresso internazionale degli scrittori aderenti al partito). 

L’intemperanza più virulenta continua a ispirare le scelte ideologiche come gli scontri privati. Marcel Raymond l’ha esplicitato chiaramente: «Il surrealismo, nel senso più esteso del termine, rappresenta il più recente tentativo per rompere con le cose che sono e per sostituirle, in piena attività, in piena genesi, con altre i cui contorni mobili si inscrivono in filigrana in fondo all’essere […] Mai in Francia una scuola di poeti aveva confuso così tanto, e del tutto consapevolmente, il problema della poesia con il problema cruciale dell’esistenza»(15)

Ma del resto, nei processi operativi e nelle opzioni intellettuali, tutto sembra muoversi sotto il segno della contaminazione e dell’ibrido, anche se la sintesi dialettica tra poesia e azione, tra pensiero e vita resterà un traguardo irraggiunto. La mutazione, la metamorfosi, il paradosso, diventano il “terrain vague” su cui lo sdoppiamento tra realtà e surrealtà può agire per smascherare le illimitate possibilità dell’inconscio. 

Se Ernst nel 1922 è tra i primi a illustrare un libro di poesie - nel caso alcuni poemi di Éluard -, non lo fa per abbellire o “traslitterare” in forma figurativa un certo racconto; ma esegue un intervento autonomo che si pone in parallelo a quello. È appunto per questo, per corrispondere al gioco incessante di integrazionespiazzamento giocato fino alla fine, che le collaborazioni a quattro mani tra poeti e pittori si intensificano, fino ad arrivare, più tardi, alle prove di “Minotaure” e ai “Grands Livres” di Tériade, il greco di Parigi: Aragon-Masson, Breton-Picasso, Péret-Tanguy, Limbour-Masson, Hirtz- Miró. Le complicità sono tante e brillanti, le soluzioni rivelano la più strepitosa congenialità con le istanze del verbo surrealista.


Max Ernst, La parola o Donna uccello (1921).


Pablo Picasso, a Parigi, nel 1930 circa.

(15) M. Raymond, in A. Breton, P. Éluard, op.cit., p. 846.

Max Ernst, L’incontro degli amici (1922); Colonia, Museum Ludwig.


André Breton, Diego Rivera, Leone Trotskij e Jacqueline Breton, in Messico, nell’estate del 1938.

Sostenere a questo punto, come è stato fatto da più parti, che nel surrealismo le arti figurative non sono che “letteratura dipinta” (o, ma con minore frequenza, scolpita), significa avallare un falso problema. Il superamento dei generi e delle discipline - cioè dei canoni che hanno segnato nel tempo le sorti dell’arte - non è un enunciato caduto dal cielo. È piuttosto una emanazione spontanea di quel principio di cambiamento globale prefigurato dal surrealismo. È una necessità reale perché i modelli interiori a cui si ispira il movimento possano trovare diritto di asilo tra le invenzioni del pensiero liberato. 

Per Breton, infatti, non c’è soluzione di continuità tra libertà dello spirito e libertà sociale. Dunque non esistono due rivoluzioni; anzi, l’arte può farsi lo strumento per perseguire l’unica rivoluzione possibile: «Riteniamo che il compito supremo dell’arte della nostra epoca sia partecipare coscientemente e attivamente alla preparazione della rivoluzione», è ancora un suo proclama. 

Ma l’arma dell’arte si sarebbe rivelata incapace di coincidere con quel progetto. Nel percorso politico del surrealismo, i veleni, le espulsioni, le intese e le congiure si alternano a ritmo vertiginoso. Breton, entrato nel 1927 nel Partito comunista francese insieme a Péret, Aragon ed Éluard, ne esce nel 1933 per aver sostenuto l’ipotesi della rivoluzione permanente. A sostituirlo, e a fare da intermediario tra il movimento e i comunisti francesi, è il moderato René Crevel, mentre Aragon abiura e guarda a Mosca. 

La strenua opposizione al comunismo sovietico e filobolscevico, nel 1938 spingerà Breton a raggiungere in Messico, approfittando di un incarico avuto dal Ministero degli esteri, il suo mito assoluto, l’interprete più puro della rivoluzione: Trockij, il quale, come d’altronde era successo a Freud, si mostrerà più incuriosito che interessato a questo incontro (due anni dopo sarebbe finito sotto i colpi di piccone del sicario di Stalin). 

Insieme a lui Breton avrà una lunga frequentazione con Diego Rivera e la “pasionaria” Frida Kahlo, surrealista «pura e pericolosa», «una bomba con i nastrini» (ma non sappiamo quanto lei abbia apprezzato quella gratificazione…). 

Altrettanto deciso era stato lo schieramento di Breton e dei surrealisti in generale contro l’ascesa dei regimi totalitari in Europa, dall’Italia di Mussolini alla Germania di Hitler, fino alla Spagna di Franco e alla guerra civile del 1936 il cui requiem sarà Picasso a recitarlo con Guernica, destinata a diventare l’icona del secolo.


Paul Eluard, Valentine Hugo, Nusch Eluard, Cadavre exquis (Parigi 1930).


Max Ernst, Autoritratto, 1920. Max Ernst è stato sicuramente il vero “traghettatore” tra Dada e surrealismo. Adepto della prima ora del movimento di Tzara, intuì presto i limiti del suo nichilismo integrale rivolgendosi a Parigi, dove Breton e compagni l’accolsero a braccia aperte. Nella sua complessità tecnica e poetica, l’opera di Ernst ha saputo interpretare ai massimi livelli l’urgenza “ricostruttiva” dell’ideologia surrealista.

SURREALISMO
SURREALISMO
Giuliano Serafini
La presente pubblicazione è dedicata al Surrealismo. In sommario: La ragione a morte; Dada è morto: viva il surrealismo!; Così parlò André; I protagonisti. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.