Si è visto come nel tempo e nello spazio Dada abbia navigato su rotte avventurose, fino ad attecchire un po’ dappertutto. Nessuna forzatura, allora, ad ammettere che Dada “esistesse” prima di Dada. Il primo ready-made “aiutato” in assoluto (Ruota di bicicletta), a realizzarlo, senza saperlo, è Duchamp. Siamo a Parigi nel 1913, quando Zurigo e il Cabaret Voltaire sono di là da venire. L’artista confessa peraltro di aver sentito parlare di Dada solo verso la fine del 1916, quando Tzara gli aveva inviato una copia di La première aventure céleste de Monsieur Antipyrine(1).
Qualcosa del genere avviene sul fronte americano del “movimento”, che è poi quello newyorkese, il quale ancor prima di confluire nell’alveo europeo, mostra una propria autonomia, tanto da poter dire che a New York Dada si sia sviluppato «senza nome, senza bandiera né manifesti»(2).
Ma è pur vero che a New York la messa in accusa dell’arte comincia a delinearsi intorno al 1915, quando arrivano i primi “agitatori” europei in fuga dalla guerra: gli antesignani Duchamp e Picabia innanzitutto, grandi “aficionados” della metropoli americana e dei suoi artisti nuovi, che sono Max Weber, Abraham Walkovitz, John Storrs. Con loro ci sono Gabrielle Buffet-Picabia, Albert et Juliette Gleizes, Jean e Yvonne Crotti, Edgar Varèse e Arthur Cravan, l’eccentrico nipote di Oscar Wilde.
Pretesto di questa transumanza intellettuale era stata la grande mostra d’arte europea all’Armory Show del 1913, dove Duchamp espone Nudo che scende le scale, opera-“monstre” nella quale cubismo e futurismo si ritrovano per produrre qualcosa che non è ancora nato. Due anni dopo, con La sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche, sarà ancora enigma. Destino vuole che nella trasparenza del Grande vetro (che è il suo altro titolo) si annunci il tramonto dell’arte e nasca la “non-opera”.
Come ricorda Duchamp, è in casa di Louise e Walter Arensberg che si forma il nucleo dada “americano”. «Si giocava a scacchi, si beveva soprattutto una gran quantità di whisky. Verso mezzanotte si mangiava il dolce e tutto finiva verso le tre del mattino. Qualche volta era una vera e propria sbornia collettiva…»(3).
Il resoconto di Gabrielle Buffet appare più esplicito: «Appena arrivati fummo inghiottiti da una banda eteroclita e internazionale per la quale la notte diventava il giorno e dove convivevano obiettori di coscienza di ogni genere, in uno scatenamento incredibile di sesso, jazz e alcol»(4).
A farci capire meglio che cosa succedesse a New York in quegli anni, è Man Ray: «Non si trattava di Dada. Era solo gente venuta da ogni angolo del mondo che pensava che l’ambiente fosse propizio per incontrare altra gente»(5).
La gran festa americana di Dada dura fino al 1921, quando i suoi protagonisti compiono la diaspora di ritorno in direzione di Parigi. Fondamentale è il trasferimento nella capitale francese di Man Ray, come peraltro decisivo era stato nel 1918 il rientro di Picabia e il suo incontro con Tzara a Zurigo, perché il fenomeno Dada si immettesse in un unico, quasi inevitabile collettore per diventare, una volta di più, qualcosa d’“altro”.