Nel primo cristianesimo la rappresentazione del nudo è ammessa solo se strettamente funzionale alla scena religiosa. Corpi senza vesti non sono assenti nell’iconografia medievale, nelle facciate delle cattedrali come nei Libri d’ore, perché assimilati dal cristianesimo in qualità di simboli, metafore e personificazioni, o giustificati da episodi biblici o agiografici (tipicamente in scene come il Battesimo e la Crocifissione di Cristo, o nella raffigurazione dei progenitori). Con l’umanesimo si attua un recupero degli ideali classici di bellezza e armonia. I soggetti, non più piegati a contenuti religiosi o moraleggianti, hanno una neoplatonica aderenza al loro significato originario, resa possibile attraverso la conoscenza diretta dei testi e delle opere d’arte greci e latini e dal costante confronto tra fonti iconografiche e letterarie. Il Cristo nudo di Brunelleschi, Donatello e Michelangelo abbraccia i canoni della teoria delle proporzioni e le nuove conoscenze relative alla volumetria e alla struttura plastica del corpo acquisite grazie allo studio dell’anatomia. Apre le braccia in direzione di una conquista formale (e al contempo concettuale) che emana profondi significati spirituali.
Leo Steinberg ravvisa una serie di opere dove nelle figure del Cristo dolente i sommovimenti del perizoma e i rigonfiamenti di pieghe vuote sono descritte in una maniera che si possa scorgere l’affiorare di forme sottostanti, come se il figlio di Dio avesse una erezione “post mortem”. Nella versione di Ludwig Krug, un’incisione realizzata attorno al 1520, la stoffa del perizoma è marcatamente descritta come a evidenziare il sottostante membro eretto del Cristo dolente, che qui, nonostante siano ben visibili le stimmate sulle mani, pare ancora vivo e con lo sguardo fisso rivolto verso ogni riguardante.
Come mai alcuni pittori nordici rivelano eventi anatomici supposti attraverso i lombi drappeggiati dei paludamenti? Parrebbe un’idea sacrilega, ma probabilmente il senso profondo alludeva a un vitalismo simbolico, legato alla resurrezione del corpo. In questa accezione un pittore della cerchia di Maarten van Heemskerck descrive il bue (simbolo dell’evangelista san Luca, ed equivalente del toro, che già nei culti arcaici e nelle religioni precristiane, dionisiache e mitraiche è immagine del vitalismo cosmico) come uscisse da sotto le gambe del Cristo risorto e lo innalzasse dal sepolcro al cielo.
Non ci sono testi o documenti che rivelino i veri intenti di questa scelta iconografica, apparentemente sacrilega. Il motivo dell’erezione è rappresentato da Maerten van Heemskerck in più versioni del Cristo dolente. Quello più evidente è nella predella che reca l’iscrizione «Ecce Homo». Che mistero resta celato nel motivo itifallico? Il pene velato funge da rimando a qualcos’altro descritto nei testi sacri, come fosse un eufemismo biblico della carne? Secondo Steinberg nei dipinti di Heemskerck il dettaglio rimanderebbe alla «carne risorta nell’ergersi dell’organo sessuale. Non c’è poi molta distanza tra l’una e l’altro: non ci vuole certo troppa fantasia per istituire un’equazione tra erezione e carne vivificata»(7).
Questo simbolo di reviviscenza “post mortem” ha una parentela molto stretta con il membro di Osiride, dio egizio dell’oltretomba, con l’itifallo dionisiaco, che era considerato emblema di immortalità nell’area mediterranea. E non è solo un involontario o inconscio travaso proveniente da culture precedenti al cristianesimo. Anche la teologia cristiana associa il pene della circoncisione alla purificazione dal peccato originale, e, in senso traslato, alla resurrezione: la letteratura patristica coglie un nesso tra la circoncisione di Cristo, che è collocata all’ottavo giorno dopo la Natività, e la Resurrezione, anch’essa simboleggiata dal numero otto (nel Nuovo Testamento il “dies octavus”, ovvero la domenica dedicata al Messia, è il giorno della resurrezione di Cristo), che rimanda al rinnovamento, alla rigenerazione, a ciò che riparte di nuovo dopo i sette giorni della Creazione(8).