IL PIACERE DEI SANTI

Il re e la regina di Francia giacciono nel letto. Sembrano addormentati, forse poco dopo aver fatto sesso.

Il loro apparente sonno li colloca in uno stato di mezzo, tra eros e thanatos. Ma è la loro collocazione in un luogo sacro a condurre il nostro sguardo verso lo stupore: le sculture dei loro corpi nudi non sono in una dimora regale, nel castello dove vivevano, ma nella basilica di Saint-Denis, a Parigi. Tra il 1562 e il 1573, Germain Pilon scolpisce le effigi di Enrico II e Caterina de’ Medici come se la coppia regale fosse nella sua alcova, ancora potenzialmente attiva anche per quanto riguarda la vita sensuale, lì nella dimora sepolcrale. 

E qualsiasi visitatore, fedele, religioso o turista, chiunque entri a Saint-Denis, è costretto suo malgrado a vestire i panni di un voyeur. Caterina, nel sonno, tiene la mano sinistra sopra i seni. Enrico ostenta il suo corpo ancora virile e muscoloso. Lembi delle lenzuola coprono le loro parti intime, strette dal peso delle braccia, come a suggerire una pudicizia inconscia, che agisce anche nel sonno o “post mortem”. 

Ma da dove arriva questa ardita scelta iconografica, l’idea di eternare i re nella loro tomba stesi sul letto come se offrissero la loro nuda vita al Creatore? Due precedenti antichi sono il Sarcofago di Arnth Tetnies e Ramtha Vishnai (fine del IV - inizio del III secolo a.C.) e il Sarcofago di Larth Tetnies e della moglie Thanchvil Tarnai (340 a.C.), realizzati a Vulci, dove le due coppie etrusche sono state eternate a letto, sotto le lenzuola, nude nella loro intimità coniugale, per sempre vive, unite e amoreggianti, con tenerezza, anche dopo la morte.


Germain Pilon, Enrico II e Caterina de’ Medici (1562-1573); Parigi, Saint-Denis.


Arte etrusca, Sarcofago di Larth Tetnies e della moglie Thanchvil Tarnai (da Vulci) (340 a.C.); Boston, Museum of Fine Arts.

Nel Quattrocento, sia Donatello sia Brunelleschi hanno avuto l’ardire di scolpire persino il “Corpus Christi” integralmente nudo, con una ben definita descrizione anatomica, lì appeso alla croce senza che nessun paludamento copra il corpo e il sesso, con le masse muscolari scolpite, sensuali, inchiodate al legno per testimoniare l’incarnazione di Dio in un essere umano, liberato però dal senso della vergogna ereditato dai progenitori edenici. Il crocifisso in legno realizzato a grandezza naturale da Brunelleschi tra il 1420 e il 1425 (conservato a Santa Maria Novella, a Firenze) e quelli di Donatello sono anche documenti del canone proporzionale e della ricerca anatomica, interpretazione “laica” che mette in visione lenticolare i muscoli, le vene, la cassa toracica sotto la pelle. Il figlio di Dio è inteso come nuovo Adamo, senza il peccato originale: non ha di che vergognarsi e mostra la sua umanità sessuata e mortale esente da peccato, nel senso di un ritorno all’origine del disegno creatore divino sull’uomo. Viene mostrato senza quei vestiti utilizzati dai progenitori per coprire la vergogna e per celare la sensazione di essere completamente nudi e indifesi, stato derivato dal peccato originale. 

L’esibizione dei genitali da parte del figlio di Dio assume un significato teologico. Il Rinascimento sottolinea come il cristianesimo non sia tutto dottrina morale o tutto messaggio orientato all’azione: lo scandalo dell’annuncio è Cristo stesso. L’esibizione della nudità di Gesù significa il riconoscimento del fatto che Dio ha assunto in sé l’umana debolezza. È un’affermazione non già di superiore “valentia”, bensì un segno dell’autoumiliazione del Creatore, che si cala nella condizione della sua creatura. L’artista rinascimentale si trova nel conflitto tra il decoro prescritto dal senso comune e il dovere di affermare la vittoria sul peccato. La rilettura del paganesimo fatta dal Rinascimento ci appare come guidata dalla intuizione che quella stessa forma religiosa pre-cristiana sia come già “informata”, già misteriosamente “prende la sua forma” dal Cristo risorto, in un presentimento di ciò che si rivela pienamente al momento dell’incarnazione. Cristo nudo sulla croce, morto o risorto, al pari di Gesù Bambino, è letteralmente senza vergogna. La castità del Cristo trionfa sulla carne peccaminosa. 

Anche Michelangelo non teme di mostrare il corpo nudo del figlio di Dio, sia nel caso del Cristo risorto (1514-1520), che porta in trionfo la croce, manifestando la purezza della sua carnalità priva del peccato originale, sia nel crocifisso giovanile. Ma con il vento controriformistico, tutti i corpi nudi - dipinti o scolpiti da Michelangelo con un profondo intento teologico - vengono rivestiti da “braghettoni” puritani, da pudende vergognose. Ma come potrebbe colui che riporta la natura umana all’assenza del peccato essere esposto alla vergogna della componente sessuale della sua umanità? Le conquiste culturali e formali raggiungono vette altissime e poi ripiombano negli inferi dell’ottusità.


Filippo Brunelleschi, Crocifisso (1410-1415); Firenze, Santa Maria Novella, cappella Gondi.


Donatello, Crocifisso (1425-1428); San Piero a Sieve (Firenze), convento del Bosco ai Frati.

Donatello, Crocifisso (1440-1445); Padova, Santa Maria dei Servi.


Michelangelo (attribuito), Cristo portacroce (1514-1516 circa), Bassano Romano (Viterbo), monastero di San Vincenzo.


Michelangelo, Crocifisso (1493 circa); Firenze, Santo Spirito, sacrestia.

Nel primo cristianesimo la rappresentazione del nudo è ammessa solo se strettamente funzionale alla scena religiosa. Corpi senza vesti non sono assenti nell’iconografia medievale, nelle facciate delle cattedrali come nei Libri d’ore, perché assimilati dal cristianesimo in qualità di simboli, metafore e personificazioni, o giustificati da episodi biblici o agiografici (tipicamente in scene come il Battesimo e la Crocifissione di Cristo, o nella raffigurazione dei progenitori). Con l’umanesimo si attua un recupero degli ideali classici di bellezza e armonia. I soggetti, non più piegati a contenuti religiosi o moraleggianti, hanno una neoplatonica aderenza al loro significato originario, resa possibile attraverso la conoscenza diretta dei testi e delle opere d’arte greci e latini e dal costante confronto tra fonti iconografiche e letterarie. Il Cristo nudo di Brunelleschi, Donatello e Michelangelo abbraccia i canoni della teoria delle proporzioni e le nuove conoscenze relative alla volumetria e alla struttura plastica del corpo acquisite grazie allo studio dell’anatomia. Apre le braccia in direzione di una conquista formale (e al contempo concettuale) che emana profondi significati spirituali. 

Leo Steinberg ravvisa una serie di opere dove nelle figure del Cristo dolente i sommovimenti del perizoma e i rigonfiamenti di pieghe vuote sono descritte in una maniera che si possa scorgere l’affiorare di forme sottostanti, come se il figlio di Dio avesse una erezione “post mortem”. Nella versione di Ludwig Krug, un’incisione realizzata attorno al 1520, la stoffa del perizoma è marcatamente descritta come a evidenziare il sottostante membro eretto del Cristo dolente, che qui, nonostante siano ben visibili le stimmate sulle mani, pare ancora vivo e con lo sguardo fisso rivolto verso ogni riguardante. 

Come mai alcuni pittori nordici rivelano eventi anatomici supposti attraverso i lombi drappeggiati dei paludamenti? Parrebbe un’idea sacrilega, ma probabilmente il senso profondo alludeva a un vitalismo simbolico, legato alla resurrezione del corpo. In questa accezione un pittore della cerchia di Maarten van Heemskerck descrive il bue (simbolo dell’evangelista san Luca, ed equivalente del toro, che già nei culti arcaici e nelle religioni precristiane, dionisiache e mitraiche è immagine del vitalismo cosmico) come uscisse da sotto le gambe del Cristo risorto e lo innalzasse dal sepolcro al cielo.

Non ci sono testi o documenti che rivelino i veri intenti di questa scelta iconografica, apparentemente sacrilega. Il motivo dell’erezione è rappresentato da Maerten van Heemskerck in più versioni del Cristo dolente. Quello più evidente è nella predella che reca l’iscrizione «Ecce Homo». Che mistero resta celato nel motivo itifallico? Il pene velato funge da rimando a qualcos’altro descritto nei testi sacri, come fosse un eufemismo biblico della carne? Secondo Steinberg nei dipinti di Heemskerck il dettaglio rimanderebbe alla «carne risorta nell’ergersi dell’organo sessuale. Non c’è poi molta distanza tra l’una e l’altro: non ci vuole certo troppa fantasia per istituire un’equazione tra erezione e carne vivificata»(7)

Questo simbolo di reviviscenza “post mortem” ha una parentela molto stretta con il membro di Osiride, dio egizio dell’oltretomba, con l’itifallo dionisiaco, che era considerato emblema di immortalità nell’area mediterranea. E non è solo un involontario o inconscio travaso proveniente da culture precedenti al cristianesimo. Anche la teologia cristiana associa il pene della circoncisione alla purificazione dal peccato originale, e, in senso traslato, alla resurrezione: la letteratura patristica coglie un nesso tra la circoncisione di Cristo, che è collocata all’ottavo giorno dopo la Natività, e la Resurrezione, anch’essa simboleggiata dal numero otto (nel Nuovo Testamento il “dies octavus”, ovvero la domenica dedicata al Messia, è il giorno della resurrezione di Cristo), che rimanda al rinnovamento, alla rigenerazione, a ciò che riparte di nuovo dopo i sette giorni della Creazione(8).


Ludwig Krug, Cristo dolente (1520 circa).


Pieter Paul Rubens, Cristo risorto (1616 circa); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

(7) L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’epoca moderna, Milano 1986, p. 86.
(8) Per questi motivi simbolici e teologici la maggior parte dei battisteri erano edificati con forma ottagonale. Da san Giustino martire (II secolo) a Tommaso d’Aquino la circoncisione dell’ottavo giorno prefigura la Resurrezione di Cristo, e quindi la resurrezione di tutti coloro che credono nel suo mistero.

Chissà se anche gli autori italiani e bizantini dei crocifissi dipinti nel XII e XIII secolo nelle loro opere abbiano voluto alludere all’itifallo dionisiaco. Come mai hanno enfatizzato la muscolatura addominale di Gesù in croce, in una maniera che non è poi così inverosimile riconoscervi anche un riferimento fallico? Esemplari sono il Crocifisso di San Damiano (1100), ora nella basilica di Santa Chiara ad Assisi, la Croce della chiesa del Santo Sepolcro (dipinta da un artista anonimo pisano tra il 1150 e il 1200) e il Crocifisso di Pisa (1210 circa), realizzato da un maestro bizantino, entrambe le opere ora conservate nel Museo nazionale di San Matteo nella città toscana. Nella storia dell’arte sono presenti innumerevoli esempi in cui figure di santi, soprattutto quelle di san Sebastiano, sono dipinte in una maniera che spesso denuncia un esercizio forse più interessato alla resa anatomica del corpo che alla traduzione in figura di un racconto agiografico religioso. Sembra che la resa sensuale dei loro corpi induca i fruitori ad ammirare la bellezza scultorea di memoria greco-romana più che a indirizzare i pensieri verso meditazioni religiose e teologiche.

Artista anonimo pisano, Croce della chiesa del Santo Sepolcro (1150-1200 circa); Pisa, Museo nazionale di San Matteo.


Maestro bizantino, Crocifisso (1210 circa); Pisa, Museo nazionale di San Matteo.

Dosso Dossi raffigura il San Sebastiano (1526 circa) della Pinacoteca di Brera completamente nudo, in una posa effeminata leggermente arcuata, con le braccia legate al ramo della pianta, colto mentre rivolge gli occhi verso il cielo, con le labbra dischiuse. Anche Lorenzo Lotto, nel 1531, dipinge Sebastiano in un atteggiamento ammiccante. Giulio Cesare Procaccini, in San Sebastiano morente risanato dagli angeli (1610-1612), descrive il fisico nudo del santo in una maniera sensuale, simile a quella di un soldato pagano che si è allenato duramente ogni giorno per avere muscoli pronti nel momento della chiamata alle armi, reso alla stessa maniera in cui i giovani atleti e soldati venivano raffigurati o scolpiti da artisti greci e romani nell’antichità. Un’altra versione erotica è stata dipinta da Carlo Saraceni nel San Sebastiano (1610 circa) di Praga, dove il giovane soldato senza armatura pare sia al culmine del godimento, nonostante abbia una freccia conficcata poco sopra il pube. 

Sollecitazioni sessuali tratte dai racconti biblici sono state tradotte pittoricamente attraverso le versioni di Lot concupito dalle figlie, dei vecchioni che vorrebbero possedere sensualmente Susanna, della moglie di Putifarre che desidera lo schiavo Giuseppe, di Noè ebbro che denudato mostra i genitali, di Davide che desidera ardentemente Betsabea, di Amnon che violenta la sorellastra Tamar. Il filone erotico-biblico ha, nonostante sia stato fortemente combattuto e censurato dallo sbilanciatissimo senso morale del cristianesimo, innescato ardite fantasie sessuali anche nelle menti dei più castigati osservanti cattolici e riformati, o dei volenterosi fautori dell’amor platonico, o dei nobili cuori della stagione cortese. Gli artisti hanno colto anche le varie declinazioni emotive di chi doveva opporre una sovrumana resistenza alle insidie dell’eros: i santi eremiti, nel loro autoisolamento nel deserto o in qualche luogo lontano dalle tentazioni, vengono insidiati dai diavoli che si sono tramutati in bellissime fanciulle molto seducenti.


Dosso Dossi, San Sebastiano (1526 circa); Milano, Pinacoteca di Brera.

Carlo Saraceni, San Sebastiano (1610 circa), Praga, Galleria del Castello.
Prima del sensuale San Sebastiano (1615 circa) di Guido Reni, che aveva erotizzato e indotto alla sua prima masturbazione il giovane scrittore giapponese Yukio Mishima, altre versioni dei protettori dalla peste avevano attirato l’attenzione di chi ama la sensuale bellezza plastica del corpo maschile e al contempo prova una forte attrazione nei confronti di un’opera d’arte.


Guercino, Giuseppe e la moglie di Putifarre (1649); Washington, National Galery of Art.


Joachim Wtewael, Lot e le figlie (1600); San Pietroburgo, Ermitage.

Hendrik Goltzius, Lot e le sue figlie (1616); Amsterdam, Rijksmuseum
Dopo la distruzione di Sodoma e Gomorra, Lot va ad abitare in una caverna sulla montagna, insieme con le due figlie. Una sera le due giovani fanno ubriacare Lot e poi si congiungono sessualmente con lui. La maggiore partorirà Moab, ovvero colui che è considerato il padre dei Moabiti, mentre la più piccola darà alla luce «Figlio del mio popolo», il capostipite degli Ammoniti.


Jan van Doornik, Amnon desidera Tamar (1520 circa); Baltimora, Walters Art Museum.


Jan Matsys, Davide e Betsabea (1562); Parigi, Musée du Louvre.

Nelle tre versioni delle Tentazioni di sant'Antonio immaginate nel XIX secolo da Théodore Chassériau, Paul Cézanne e Lovis Corinth lo spazio del quadro è occupato prevalentemente dalla seduzione carnale, dai corpi nudi delle fanciulle, che stanno cercando di indurre l’abate eremita al peccato. 

Gli autori hanno cercato di visualizzare quella terra di mezzo in cui la pulsione sessuale e l’autocastrazione convivono nella mente e nel corpo del religioso. Chi ha una formazione razionale potrebbe chiedersi da dove provengano veramente i corpi nudi delle giovani donne, se non dall’interiorità e dalla fantasia erotica dell’abate. È una proiezione interiore, che forse si manifesta attraverso il medium onirico ed è vissuta come se stesse accadendo veramente nella realtà diurna? Chi non ha ancora conquistato la santità probabilmente non può comprendere la portata mistica che sta dietro alla creazione delle tentazioni, del diavolo, delle donne vogliose che desiderano indurre un religioso al peccato della lussuria. La sublimazione del desiderio può condurre all’esperienza mistica? Vari artisti, che non hanno avuto il privilegio di diventare mistici, si sono cimentati nella traduzione in opera di questa possibilità emotiva. Le versioni più interessanti sono state realizzate da persone creative che hanno sondato intensamente le questioni della vita terrena e la mondanità.


Un’immagine dal film di Luis Buñuel Simon del deserto (1965).


Paul Cézanne, Le tentazioni di sant'Antonio (1870); Zurigo, Stiftung Sammlung E. G. Bührle.


Lovis Corinth, Le tentazioni di sant’Antonio abate (1897); Monaco, Bayerische Staatsgemaeldsammlungen, Neue Pinakothek.

Caravaggio immagina (si figura) l’estasi provata da Maria Maddalena, che secondo la tradizione cristiana è considerata una prostituta redenta. La descrive come fosse in stato di trance, pallida, stesa su una linea obliqua, con la testa riversa all’indietro, con gli occhi semiaperti, come in un sonno misterico(9), la bocca appena dischiusa, la fronte corrugata, le dita intrecciate in un gesto silente; lascia intuire un evento misterioso, che si manifesta alla velocità di una contrazione, di un brivido o di un raptus. Potrebbe anche essere appena morta, mentre la sua anima sta lasciando il corpo, in viaggio verso l’eterno, come un pianto liberatorio, per entrare in comunione con la Verità, travalicando tutti i limiti posti dall’intelletto e dai sensi. La modella potrebbe essere veramente una prostituta frequentata dal pittore. Ma poco importa. Qui è potente il rapporto tra la luce e l’oscurità in una sospensione tragica, l’astrazione dalle vanità terrene, la manifestazione dell’estasi mistica, l’apertura della coscienza individuale all’accesso del divino. Insomma, in sintesi è rappresentata una trasverberazione, l’esperienza dell’essere attraversati dall’amore di Dio, il quale dona una dolcezza che nessun amore al mondo potrebbe mai donare. E qui, nella figura della Maddalena in estasi, forse è ravvisabile anche un travaso di derivazione pagana, ovvero l’idea della prostituta sacra che attraverso una ierogamia mistica giunge al cospetto del mondo divino, inteso come suo sposo.

(9) Il termine greco “myein” (“chiudere gli occhi”, come per dormire) ha la stessa radice sia per la parola “mistica” sia per il termine “mistero”.

Caravaggio (attribuito), Maria Maddalena in estasi (1606).


Gian Lorenzo Bernini, Transverberazione di santa Teresa d’Avila (1647-1652); Roma, Santa Maria della Vittoria.

La traduzione in immagine della trasverberazione di Caravaggio influenza molti artisti, per esempio Pieter Paul Rubens, Simon Vouet e soprattutto Gian Lorenzo Bernini, che riprende idealmente la tensione emotiva condensata nel volto della Maddalena, quando scolpisce la sensuale Estasi di santa Teresa d’Avila (1647-1652) nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, e l’Estasi della beata Ludovica Albertoni (1674), nella chiesa di San Francesco a Ripa, a Roma. Bernini rende tangibile l’esperienza della pulsione erotica, che si esprime sublimandosi nel deliquio dell’afflato spirituale. 

Riprende la tradizione millenaria dei mistici, secondo cui la comunione con Dio è come diventare tutt’uno con l’essere amato, una unione moltiplicata all’ennesima potenza. In una tensione sospesa tra il biblico Cantico dei cantici e gli scritti dei mistici, Bernini scopre il valore ineffabile della trasverberazione. Teresa vive ciò che Georges Bataille chiama «erotismo sacro», una visione erogena indotta per isteria. È l’estasi amorosa di una donna prostituita alle sue fantasie con lo sposo divino, il ferimento dell’amore che raggiunge il cuore, sconvolgendolo di gioia e diletto, ma che crea il bisogno assoluto della presenza dell’amato, l’esperienza del “dolore gustoso”, la “unio mystica” cristiana, il delirio dei folli? Lasciamo che a rispondere siano direttamente le parole scritte da Teresa: «L’anima si duole per l’assenza di Dio, ma non è lei che ne procura la pena, bensì una certa saetta che di quando in quando le penetra il cuore e le viscere così al vivo, da lasciarla come incapace di fare e di volere alcuna cosa. […] È inesprimibile il modo con cui Dio ferisce l’anima. Il tormento è così vivo che l’anima esce fuori di sé, benché insieme sia tanto dolce da non poter essere paragonato ad alcun piacere sulla terra. Perciò, come ho detto, l’anima vorrebbe star sempre morendo per la forza di quel male. 

[…] Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscire nei gemiti […], ma insieme pure tanto dolce da impedirmi di desiderarne la fine e di cercare altro diversivo fuori che Dio. Benché non sia un dolore fisico ma spirituale, vi partecipa un poco anche il corpo, anzi molto. Allora tra l’anima e Dio passa come un soavissimo idillio»(10).


Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni (1674); Roma, San Francesco a Ripa.


Guido Cagnacci (attribuito), Maddalena penitente (o in estasi) (1626); Roma, Galleria nazionale d’arte antica - palazzo Barberini.

(10) Teresa d’Avila, Libro della vita (1563), XXIX, 10.13.

ARTE ED EROS
ARTE ED EROS
Mauro Zanchi
Il binomio Arte ed Eros permea di sé la storia dell’uomo. Questo dossier ne ripercorre e delinea alcuni aspetti fondamentali e sorprendenti, indagando la presenza dell’erotismo in ambiti inattesi come quello dell’arte sacra. Il viaggio proposto spazia dall’antichità e dalla mitologia classica alle culture extraeuropee, fino ad approdare alla contemporaneità della performance e dei sex toys.