Da un lato si può ricordare che le espressioni artistiche della cultura maya, che si sviluppa per un periodo di circa duemila anni, sono così varie e articolate che, analogamente a quello che si potrebbe dire delle culture europee, possono alimentare una serie di esposizioni non ripetitive ben più lunga di quella di cui abbiamo parlato sopra.
Dall’altro occorre dire con franchezza che le mostre dipendono da chi le fa e che effettivamente c’è il rischio di promuovere iniziative poco originali che, invece di approfondire un aspetto o l’altro di questa cultura, si riducono a una sorta di manuale di archeologia reificato.
In ogni caso la mostra del Musée du Quai Branly, ospitata nella Galerie Jardin, lo spazio espositivo più importante del museo parigino, non ripropone le opere delle precedenti manifestazioni della capitale francese, ma offre al visitatore la possibilità di soffermarsi su tipologie interessanti e poco conosciute, che, secondo l’efficace modello “strutturante” della museografia messicana, consentono di presentare tutti gli aspetti della cultura maya: dalla flora e dalla fauna, fino alle classi sociali, alla religione, al calendario e alla scrittura.
È fondamentale sottolineare, inoltre, che lungo il percorso espositivo emergono alcuni reperti ciascuno dei quali, da solo, meriterebbe una mostra ad hoc per via della sua importanza o delle sue qualità formali.
Tra questi è doveroso segnalare: le due teste in stucco di K’inich Janaab Pakal da giovane, più conosciuto come Pakal il Grande; la cosiddetta Regina di Uxmal che, nonostante il nome, rappresenta un antenato dal volto scarificato che emerge dalle fauci di un serpente; l’Architrave 48 di Yaxchilan, che presenta i più eleganti esempi delle varianti “testa” dei numeri; il Disco di Chinkultic, un “marcador” (un segnaconfini) del gioco della palla che può essere considerato uno dei capolavori dell’arte precolombiana per l’armonia della composizione e la nitidezza della figura e dei glifi; il cosiddetto Re di Kabah e l’Adolescente di Cumpich.
Su tutti, però, emergono due pezzi di Palenque sui quali occorre soffermarsi con estrema attenzione: la piattaforma del Tempio XXI e la testa in stucco di un re che probabilmente decorava una costruzione del centro cerimoniale.
La piattaforma del Tempio XXI è stata scoperta solo nel 2002 e, per quanto risulta a chi scrive, è la prima volta che viene esposta in Europa. Al centro della composizione è raffigurato Pakal il Grande, rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra compaiono il re di Palenque Ahkal Mo’ Nahb III e il fratello minore U Pakal K’inich Janaab Pakal, destinato a succedergli.
Di fronte ai due si trova un sacerdote con un costume di un essere mitologico, che li assiste in un rituale di purificazione e di autosacrificio. Con la piattaforma del Tempio XIX, che, tuttavia, fu realizzata da un altro artista (nessuna delle due è firmata), abbiamo il capolavoro della corte di Ahkal Mo’ Nahb III, quattordicesimo re di Palenque, che fu incoronato il 30 dicembre del 721 e regnò una ventina d’anni. Entrambe le piattaforme rappresentano il vertice dei bassorilievi di Palenque e mostrano una leggera, ma netta evoluzione stilistica rispetto a quelli realizzati solo cinquant’anni prima dagli artisti al servizio di Pakal il Grande e di Kan B’ahlam.
In particolare nella piattaforma del Tempio XXI si riconosce uno stile nuovo, che accentua l’enfasi sulla linea, rinuncia il più possibile a quel minimo di profondità degli artisti precedenti, appiattisce il bassorilievo (si potrebbe dire che abbiamo un bassorilievo stiacciato “sui generis” o di verso opposto, perché, a differenza di quello di Donatello non cerca la prospettiva) e lo tratta come il dipinto di un vaso di stile Codex. Inoltre si sfrondano gli elementi decorativi e si riducono i testi glifici, che, coerentemente con l’accentuata enfasi sulla linea, sono incisi dentro i blocchi per il testo. In questo modo emergono importanti spazi vuoti attorno ai personaggi, che così diventano i veri protagonisti della scena.
Per quanto riguarda la testa in stucco di un re, un’opera giustamente molto famosa, basti dire che rappresenta il vertice assoluto di tutte le sculture maya in stucco, una tipologia diffusa soprattutto nell’Occidente dei bassipiani. Rappresenta uno degli esempi più straordinari del naturalismo palencano, che qui riesce mirabilmente a raffigurare sia l’aspetto esteriore sia i pensieri e la personalità del personaggio.