Rembrandt non abbellisce la realtà e nemmeno la storia; presenta idee, cose e personaggi così come appaiono
Non per questo si adegua al mercato e al gusto che cambiano, anzi.
E qui si affaccia l’altra sua caratteristica, per la verità già espressa in molte altre occasioni: l’anticonformismo. I suoi colleghi, anche i suoi stessi allievi, assecondano le richieste della nuova borghesia olandese, ormai lontana dalla sobrietà dei padri e volta a imitare gusti e mode del resto d’Europa, con ritratti e ambientazioni raffinate, begli abiti, suppellettili e decori all’altezza di uno status ambito, se non raggiunto. Rembrandt si rifiuta di compiacere il pubblico. E non perché perda di vista la realtà. La maniera fine sembra perseguire alla perfezione l’obiettivo di sembrare “più vera del vero”, di rendere al meglio luci, materiali, consistenze. Ma anche la maniera ruvida, a suo modo, insegue una mimesi: i contorni si sfumano, i bordi si fanno frastagliati, e qua e là una forma pare prodursi quasi per vie accidentali. In fondo Leonardo stesso scriveva dell’importanza della casualità nel processo creativo; suggeriva di guardare un muro, o una macchia, e di usarla come punto di partenza per un confronto mentale con il repertorio di immagini immagazzinato grazie all’esperienza. E Joshua Reynolds, nel XVIII secolo, avrebbe lodato la “naturalezza” indotta proprio da effetti accidentali.
Un quadro è un evocatore di oggetti e figure, ma se la maniera fine fa di tutto per “scomparire” in quanto pittura per lasciare l’illusione di trovarsi davvero davanti al soggetto raffigurato, il quadro “ruvido” rivendica il suo ruolo di diaframma concreto, cercando di sostituirsi all’oggetto raffigurato, è l’arte che reclama il proprio ruolo: guardate me, non il bicchiere o il volto o il paesaggio che vi mostro.
L’apparente trascuratezza, la mancanza di rifinitura che le opere tarde di Rembrandt mostrano non sono nuove. Ancora Vasari (tradotto in olandese da Carel van Mander nel 1604) ne apprezzava l’effetto in Donatello, dicendo che una figura appena sbozzata appariva più efficacemente naturale se vista da lontano, mentre quelle troppo rifinite mancavano di vigore:
«La troppa diligenza alcuna fiata toglie la forza e il sapere a coloro che non sanno mai levare le mani dall’opera che fanno», scrive. La troppa rifinitura tradisce l’artigiano al cospetto dell’artista, distingue chi segue le linee guida della gilda o della corporazione da chi si libera da ogni vincolo e segue solo la propria creatività. E Rembrandt per convincere i curiosi a star lontano dai suoi quadri non risparmiava qualche esagerazione: «Non mettete il naso sui miei dipinti», diceva, «i colori potrebbero avvelenarvi».
È evidente da che parte vuole stare Rembrandt. Il suo orgoglio di artista lo porta a scegliere la misurata negligenza, a non fornire tutti i dettagli fidando nella capacità propria e altrui - del pubblico scelto cui idealmente mira - di integrare e compensare con l’immaginazione ciò che l’opera si limita a suggerire e sottintendere.
È lo stesso anticonformismo venato di orgoglio che lo porta a dipingere opere su commissione che finiscono per scontentare il committente. Il caso più eclatante è quello della Congiura di Giulio Civile (Il giuramento dei batavi), del 1661-1662 (Stoccolma, Nationalmuseum). Rembrandt ottiene la committenza dalla municipalità di Amsterdam; si tratta di illustrare, per la sede del Comune, uno dei miti fondanti della nazione, la rivolta contro i romani della tribù neerlandese dei batavi sotto la guida del loro capo, Caio Giulio Civile, nel I secolo d.C. Rembrandt concepisce, coerentemente con la storia, una scena barbarica, con un gruppo di guerrieri raccolti attorno a un tavolo e al loro capo; non nascondendo, nel volto di Civile, l’orbita vuota di un occhio perso in battaglia. Un’opera vibrante di luce, essenziale, scarna nella sua struttura, priva di orpelli, insomma il contrario di quel che si aspettava il committente. Il dipinto viene rimosso su richiesta delle autorità e restituito all’artista, che probabilmente lo ridimensiona per dargli una speranza di vendibilità.
Rembrandt non abbellisce la realtà e nemmeno la storia; presenta idee, cose e personaggi così come appaiono, eventualmente brutti, poco presentabili e magari antieroici. E ne paga le conseguenze.
Alla luce di queste considerazioni appare del tutto comprensibile che proprio un’opera come La sposa ebrea fosse fra le preferite di un altro pittore olandese “materico” e fuori dagli schemi, Vincent van Gogh, che, dopo averla vista per la prima volta nel 1885, scrive a un amico che avrebbe «volentieri dato dieci anni di vita per poter stare una quindicina di giorni a guardarla, con solo una crosta di pane secco da mangiare».