È proprio l’età del secondo dei Borromeo, eletto arcivescovo di Milano nel 1595, a segnare una svolta decisiva nel rinnovamento pittorico della città. Allo scadere del secolo una singolare congiuntura aveva visto lo spegnersi dei protagonisti della pittura all’epoca di san Carlo: l’unico che sopravvisse all’avvento del XVII secolo fu Giovanni Ambrogio Figino. Ci volle una personalità straordinaria come quella del cardinale Federico per importare a Milano un’aria nuova e internazionale. Federico veniva da Roma dove aveva trascorso un lungo periodo di studio e formazione.
La sua passione per l’arte lo aveva portato a ricoprire la carica di principe dell’Accademia di San Luca, istituzione prestigiosa che radunava gran parte degli artisti della città capitolina. Insediatosi a Milano solennemente il 27 agosto 1595, il Borromeo dovette nutrire inizialmente una certa sfiducia verso le capacità dei pittori locali, e infatti la commissione per la decorazione del Collegio borromeo di Pavia toccò a due protagonisti della pittura romana del tempo, chiamati appositamente alla bisogna, Cesare Nebbia e Federico Zuccari. Un anno dopo la sua nomina il cardinale rientrò nell’Urbe per far ritorno a Milano nel 1601.
A partire dal 1602 la Veneranda Fabbrica del duomo aveva dato il via a una delle imprese pittoriche più importanti della città, la realizzazione di una serie di tele di dimensioni consistenti che celebrassero i fatti della vita di Carlo Borromeo, interpretati da alcuni giovani artisti che divennero protagonisti della pittura milanese nel primo trentennio del secolo: Giovan Battista Crespi detto Cerano, Giulio Cesare Procaccini e Pierfrancesco Mazzucchelli detto Morazzone. Una volta rientrato a Milano, Federico aveva in animo un progetto gigantesco: l’apertura di un’istituzione culturale che sviluppasse il sapere e il gusto artistico della città. Entro il 1607 il progetto della Biblioteca ambrosiana prese forma, parallelamente a essa Federico donò la propria collezione di dipinti raccolti soprattutto nel periodo romano e istituì l’Accademia ambrosiana con a capo il Cerano. Il respiro internazionale della collezione di Federico dove, accanto al grande cartone per la Scuola di Atene di Raffaello, si potevano ammirare maestri contemporanei come Jan Brueghel e soprattutto Caravaggio, doveva servire da scuola per gli artisti locali, che tuttavia si tennero sempre rispettosamente a distanza dalle novità centroitaliane, mantenendo una cifra stilistica assolutamente personale che singolarmente costituisce ai nostri occhi di moderni il pregio della pittura lombarda di primo Seicento.
Ancorché dotata di un’accademia artistica cittadina, come soltanto Roma e Firenze possedevano in questi decenni, e dunque sostanzialmente all’avanguardia nel panorama delle città italiane, come forse non lo era stata dai tempi di Leonardo, Milano poteva comunque contare su un gruppo di artisti che avrebbe formato una scuola pittorica locale di livello altissimo, costituendo una straordinaria alternativa alla dialettica naturalismo-classicismo in cui si dibatteva la pittura nel cuore dell’Italia, e dunque dell’Europa, nei primi due decenni del Seicento.