XX secolo. 1
Milano nel secondo dopoguerra

VOLERE È POTERE

Un conflitto assurdo che ha spazzato via milioni di persone e raso al suolo interi edifici. Ma, sulle ceneri della seconda guerra mondiale, Milano trova la forza per risorgere più determinata di prima. E pur nel desiderio spasmodico di voler ricostruire tutto e subito, a volte a scapito dell’aspetto puramente estetico, non rinuncia a mantenere ben salda l’anima dei propri luoghi.

Jean Blanchaert

Il secondo dopoguerra, in Italia, non vide, fortunatamente, gli alleati partire e tornarsene subito a casa. Essi restarono, inglesi o americani che fossero. Alcuni visibili, altri presenti con maggiore discrezione, tutti però impegnati a traghettare l’Italia verso la democrazia, cercando di evitare vendette e focolai di guerra civile. 

Nel 1948 cominciarono ad arrivare i soldi del piano Marshall per evitare che dalla fame e dalla miseria potessero nascere in Europa nuove dittature. Gli alleati dapprima si avvalsero della collaborazione di chi aveva resistito, ma i partigiani, gli antifascisti, non erano stati molti. Vale per l’Italia quello che disse Churchill, il 20 agosto 1940, parlando della resistenza britannica ai tedeschi: «Never in the field of human conflict was so much owed by so many to so fews»(*). L’onore dell’Italia, infangato da Mussolini prima con la dittatura, poi con le leggi razziali e infine con l’alleanza con Hitler, aveva ancora un lumicino, era quello di gente come Alcide De Gasperi e Federico Chabod, pietre rare e forti sulle quali si appoggiò un intero paese per potersi risollevare. Quelli che avevano subito il nazifascismo, quelli che l’avevano contrastato, quelli che l’avevano appoggiato e infine anche quelli che l’avevano guardato passivamente si trovarono a girare tutti insieme in una veloce ruota di resurrezione che non consentiva troppe riflessioni. Bisognava riedificare, rimettere in piedi le proprie vite e l’Italia. 

I bombardamenti aerei su Milano durante la seconda guerra mondiale, dal 1940 al 1945, furono ben sessanta. Particolarmente duri quelli del 1942 e del 1943. Un terzo degli edifici andò distrutto. In piazza San Fedele, la statua di Alessandro Manzoni, miracolosamente rimasta in piedi, osservava palazzo Marino, la Scala e la galleria Vittorio Emanuele semidistrutti dalle bombe incendiarie inglesi. 

In altre parti della città lo spettacolo non era dissimile: Palazzo reale, palazzo Visconti di Modrone, il sacrario ai caduti di Giovanni Muzio, la basilica di Sant’Ambrogio erano gravemente danneggiati. 

La facciata quattrocentesca dell’Ospedale Maggiore, crollata, come anche buona parte della chiesa di Santa Maria delle Grazie dove l’Ultima cena di Leonardo era rimasta incredibilmente al suo posto. Il disastro di una guerra così sbagliata era sotto gli occhi di tutti. Milano era allora la più importante città industriale d’Italia con grandi stabilimenti come l’Alfa Romeo, la Magneti Marelli, la Borletti, la Brown Boveri, la Pirelli, l’Isotta Fraschini, la Caproni, la Breda, l’Ansaldo, la Falck, soltanto per citarne alcuni. Per questo motivo il capoluogo lombardo fu al centro del mirino degli alleati. I milanesi seppero però trovare dentro di loro la forza, la volontà e l’ingegno per rimettersi in piedi. L’11 maggio 1946, alle ore 21, la bacchetta di Arturo Toscanini, tornato in Italia dall’esilio, inaugurò, con musiche di Rossini, Verdi, Puccini e Boito, la Scala ricostruita. Fra le macerie di una città con ben centomila persone senzatetto camminava, immediatamente dopo la liberazione, un euforico Alberto Savinio: «Giro tra le rovine di Milano. Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste, invece sono formicolante di gioia. Dovrei mulinare pensieri di morte, invece pensieri di vita mi battono in fronte come il soffio del più puro e radioso mattino. Perché sento che da questa morte nascerà nuova vita. Sento che da queste rovine nascerà una città più forte, più ricca e più bella». Le cose non andarono poi proprio così, l’edilizia degli anni Cinquanta, nell’ansia a volte prettamente commerciale di fabbricare, di innalzare nuove case, perse il filo estetico e quello etico lasciando di sé un’immagine disordinata e spesso brutta. È un’immagine che non si può cancellare. 

La stragrande maggioranza degli abitanti di Milano non aveva tempo per molte elucubrazioni, eppure le sensazioni e i sentimenti espressi da Savinio fanno parte, se non altro, dell’inconscio di allora della città.


«La torre Velasca si propone
di riassumere culturalmente
e senza ricalcare il linguaggio
di nessuno dei suoi edifici,
l’atmosfera della città
di Milano», così disse
Ernesto Rogers nel giorno
dell’inaugurazione


La galleria Vittorio Emanuele a Milano bombardata nell’agosto 1943.


Il duomo di Milano durante i bombardamenti del 1943.


La torre Velasca (1956-1958).

L’architettura italiana perde nei campi di concentramento alcuni dei suoi esponenti migliori: Giuseppe Pagano, Raffaello Giolli, Giorgio Labò e Gian Luigi Banfi. I colleghi di quest’ultimo, gli architetti Belgiojoso, Peressutti e Rogers conservarono il suo nome nell’acronimo del loro studio, che continuò a chiamarsi BBPR. Ludovico Belgiojoso, fraterno amico di Gian Luigi Banfi, era stato deportato con lui nel campo di Mauthausen-Gusen a causa della attività antifascista di entrambi. Tornò da solo. Ernesto Rogers, ebreo, aveva trascorso il periodo della guerra rifugiato in Svizzera per sfuggire alle leggi razziali. Enrico Peressutti rimase invece a Milano e tentò di mandare avanti i loro progetti, aiutato da un altro amico, l’architetto Marco Zanuso. 

L’edificio più importante di quel periodo, ancora oggi simbolo riconosciuto della Milano di allora, è la torre Velasca (1956-1958), grattacielo neomedievale, in cemento armato, che dialoga, senza imitarla, con la quattrocentesca torre del Castello sforzesco, opera del Filarete. «La torre Velasca si propone di riassumere culturalmente e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l’atmosfera della città di Milano», così disse Ernesto Rogers nel giorno dell’inaugurazione. Appositamente meno elegante del suo coetaneo grattacielo Pirelli (1956-1960), ideato da Gio Ponti e reso possibile dai calcoli d’ingegneria strutturistica di Pier Luigi Nervi, la torre Velasca, dedicata a Gian Luigi Banfi, si innalzò, antica e moderna, nella nebbia di allora, una fredda nebbia che accoglieva d’inverno gli emigranti che arrivavano dal Sud con le famose valigie di cartone legate con lo spago. Facevano, senza accorgersene (avevano altro a cui pensare), un viaggio nella storia dell’architettura. 

Arrivati nella maestosa Stazione centrale in stile fascista progettata dall’architetto Ulisse Stacchini (1931) dovevano far timbrare il foglio d’arrivo o quello di transito verso la Germania alla caserma di polizia (1830) di piazza Sant’Ambrogio, edificio neoclassico dell’architetto Rossi, posto di fronte al Monumento ai caduti (1928) di Giovanni Muzio, anch’esso in stile littorio, posto di fianco alla facciata dell’Università cattolica (1931) e in dialogo con i chiostri quattrocenteschi dell’ateneo. Dall’altra parte della piazza c’è casa Caccia Dominioni (1949-1953), una delle prime importanti ricostruzioni - che tale si può definire, anche se totalmente diversa rispetto all’edificio preesistente - dopo la guerra. Se la torre Velasca ha interpretato Milano, questo edificio di Luigi Caccia Dominioni così solido e così austero, rappresenta l’anima lombarda. 

Di fianco a casa Caccia, gli emigranti non potevano non vedere casa Boretti (ricostruita, con il suo nuovo aspetto, tra il 1948 e il 1961), palazzo in marmo bianco di Asnago e Vender. Al centro di tutto ciò, la basilica romanica di Sant’Ambrogio di mille anni prima. Era una Milano completamente diversa da quella di oggi soprattutto per il clima. L’effetto serra ha fatto sparire la nebbia, rendendo la città meno misteriosa e meno affascinante. 


Casa Caccia Dominioni, una delle prime importanti ricostruzioni dopo la guerra, solida e austera, rappresenta l’anima lombarda


Nel 1951 Vittorio De Sica gira Miracolo a Milano. In piazza Duomo si vedono le insegne al neon della pubblicità mentre i poveri, i barboni, a cavallo di scope, volano sopra le guglie della cattedrale «verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno». Nel 1956, nel film Totò, Peppino e la malafemmina, di Camillo Mastrocinque, i due protagonisti, sempre in piazza Duomo, scambiano un “ghisa” (un vigile urbano) per un generale tedesco. Luchino Visconti, nel 1960, mostra una Milano nordica, lontana come il Polo Nord. Rocco e i suoi fratelli, giunti dalla Lucania, vedono le prime immagini della città attraverso i finestrini gelati del treno. Fuori, i “montarozzi” di neve di cui parla Ottiero Ottieri nelle sue poesie. Oggi non esistono più. 

Alla Casa della cultura, costituitasi nel 1946 per volere di Antonio Banfi, s’incontravano medici, filosofi, ingegneri, artisti, letterati, politici, scienziati e giuristi per promuovere gli ideali di libertà e giustizia. Lucio Fontana e Piero Manzoni erano invece assidui del bar Jamaica. Al ristorante Bagutta, sede già dal 1926 dell’omonimo premio letterario, riprese, subito dopo la guerra, la tradizione di celebrare chi si fosse distinto nel suo campo professionale con una cena durante la quale il pittore Mario Vellani Marchi disegnava sul retro della lista del locale un ritratto del festeggiato e tutti i presenti apponevano la loro firma. Uno dei primi menu, del 1946, è dedicato a Filippo de Pisis, ritratto di profilo mentre dipinge il duomo di Milano. Nel 1947, è la volta di Lucia Bosè, miss Italia di quell’anno; nel 1950, di Eugenio Montale, nel 1951, di Fausto Coppi. Altri protagonisti dell’ambiente baguttiano sono stati Riccardo Bacchelli, Orio Vergani e Giuseppe Novello che nei suoi disegni ha saputo descrivere con grande ironia i tempi che stavano cambiando. 

La volontà di fare, da sempre vera caratteristica dei milanesi, ha generato un fermento creativo nell’arte, nella musica, nella letteratura, nelle botteghe artigianali e nei laboratori, fucina di idee per le grandi industrie. Dalle ceneri della guerra, stava già nascendo ciò che ancora oggi chiamiamo “made in Italy”. Moda e design. Milano ancora una volta non si è smentita.


Il grattacielo Pirelli (1956-1960).


Due edifici ricostruiti nel secondo dopoguerra in piazza Sant’Ambrogio: a sinistra, casa Caccia Dominioni (1949-1953); a destra, in marmo bianco, casa Boretti (1948-1961).


Di Giuseppe Novello, Il vecchio dominatore della città, da Sempre più difficile (1957);

Di Giuseppe Novello, Ritorno alla luce (Cavour), da Dunque dicevamo (1950).

Di Mario Vellani Marchi, caricatura dipinta sul retro dei menu del ristorante Bagutta a Milano: l’editore, collezionista e mercante d’arte Carlo Cardazzo, durante la centesima mostra della Galleria milanese del Naviglio. (17 marzo 1951);


Di Mario Vellani Marchi, caricatura dipinta sul retro dei menu del ristorante Bagutta a Milano: Filippo de Pisis, spesso presente alla mensa dei baguttiani (30 ottobre 1946);


Di Mario Vellani Marchi, caricatura dipinta sul retro dei menu del ristorante Bagutta a Milano: Eugenio Montale, dopo la vittoria del premio di poesia San Marino nel 1950 chiamato a far parte della giuria del premio Bagutta (13 dicembre 1950).

ART E DOSSIER N. 317
ART E DOSSIER N. 317
GENNAIO 2015
In questo numero: MILANO CAPUT MUNDI Leonardo designer di corte; La città al tempo della Spagna; Il laboratorio del contemporaneo, dal Futurismo al dopoguerra, a oggi. IN MOSTRA: Rembrandt, I Maya.Direttore: Philippe Daverio