IL SOGGIORNO
IN LOMBARDIA

Gli spostamenti di Donato dopo aver lasciato Urbino sono ancora sconosciuti, ma è possibile delineare un itinerario di massima, che investe Pesaro (dove alla corte di Alessandro Sforza, cognato di Federico, si trasferisce Luciano Laurana), Ferrara, Padova (dove Mantegna resterà a lungo una forte suggestione, ma dove ha modo di studiare le facciate dipinte dei palazzi cittadini.

Una di esse, quella di Casa Vitaliani, era stata affrescata da Paolo Uccello), Venezia e Mantova. Deve godere di buone entrature presso l’aristocrazia veneta, se la prima attività nota lo vede impegnato a Bergamo, allora dominio della Serenissima, in qualità di pittore. A Milano, a distanza di qualche anno, si definirà lui stesso «pictore e inzignero», un tecnico a tutto tondo, esperto anche di artiglieria e d’arte militare, come Francesco di Giorgio (ma anche Laurana viene richiesto a Napoli, dove si trattiene tra 1472 e 1474, come esperto d’artiglieria), il che fa sempre gola ai tanti signorotti dell’inquieta Italia dell’epoca. Da testimonianze indirette (anche in questo caso per carenza documentaria) sappiamo che gli affreschi, solo intrapresi da Donato e poi eseguiti da artisti diversi, risalgono al 1477.

Uno spiraglio di luce, un prezioso punto fermo cronologico, ma subito dopo il buio torna a farsi fitto. Il repentino abbandono dell’impresa, dopo il saggio esemplare di uno dei grandi filosofi monumentali della facciata del palazzo del governatore veneziano della città, il Chilone oggi poco più di un lacerto, lascia pensare che Bramante potesse contare su altri contatti e su più allettanti opportunità professionali, già intorno al 1478. Quali fossero, anche in questo caso, resta un mistero: forse viene coinvolto nella fondazione dell’oratorio confraternitale presso l’antico sacello di San Satiro a Milano, che diverrà la chiesa di Santa Maria presso San Satiro, uno dei suoi capolavori lombardi, o forse viene inviato a studiare la sistemazione del palazzo presso Porta ticinese che il suo signore ha da poco ricevuto in dono dal duca Galeazzo Maria Sforza. In realtà, della poliedrica personalità di Donato, a Milano emergono inizialmente altri aspetti, prima il pittore che l’«inzignero», e anche il Bramante che non t’aspetti, il poeta volgare dal gusto assai personale (che, all’epoca, significava poco petrarchesco) e dai tonifaceti, in grado di scherzare sulla propria disagiata condizione (emergerebbe anche un rapporto con la corte sforzesca piuttosto saltuario nelle retribuzioni) ma, in ogni caso, ben inserito negli ambienti sociali elevati del capoluogo lombardo.

In un sonetto paragona con “humour” le proprie calze ridotte a un crivello per l’usura al duomo milanese coi suoi grandi finestroni: un interessante giudizio sul Gotico, pieno di vetrate e di aperture ma, si adombra, carente di solidità, della “firmitas” raccomandata dal buon vecchio Vitruvio. Bramante pittore, e pittore prospettico, vale a dire aggiornato sulle novità spaziali fiorentine e urbinati, da Brunelleschi a Piero della Francesca che, all’apice della propria operatività, lavora per Federico da Montefeltro, è una figura che si staglia imponente, ma dai contorni indefiniti e dall’esiguo catalogo, sul mondo artistico milanese. Resta la fondamentale traccia documentaria di una vicenda non del tutto chiara ma che, almeno questa volta, fornisce un prezioso caposaldo cronologico: la fornitura del disegno da cui lo stampatore Bernardino Prevedari dovrà ricavare la lastra a bulino.

È il 1481, e l’incisione Prevedari, di grande formato (insolito per un rame), e di presumibile tiratura limitata (oggi se ne conoscono solo due esemplari) mostra tutto l’armamentario su cui fa leva Donato per far breccia a Milano: ricordi di fra Carnevale, riprese palesi da Piero della Francesca (che è, neanche a dirlo, quello urbinate: Flagellazione e Pala Montefeltro oggi a Brera), l’insolita soluzione del tiburio appoggiato senza raccordi mutuata dalla cosiddetta e discussa Conferenza di Windsor all’epoca nel palazzo feltresco di Gubbio (databile al 1478-1480), la figura monumentale in ginocchio recuperata dall’Ascensione di Cristo di Mantegna.


Eraclito e Democrito (1486 circa); Milano, Brera (già Casa Panigarola-Visconti). Democrito che ride delle pazzie del mondo ed Eraclito che piange delle miserie umane sono un tema di ispirazione neoplatonica. Il mappamondo, molto avanzato per l’epoca, si ispira a un esemplare di proprietà del committente, giustificando la fama di cosmografo attribuitagli nel Cinquecento.

Bernardino Prevedari su disegno di Donato Bramante, Incisione Prevedari (1481), particolare; Milano, Castello sforzesco, Civica raccolta di stampe Achille Bertarelli. Uno dei temi più caratteristici, e spesso imitati, dell’architettura mostrata nell’incisione è la volta a crociera con vele perforate da grandi occhi quasi orizzontali, soluzione che evidenzia la carica innovativa dell’inventiva bramantesca.


Bernardino Prevedari su disegno di Donato Bramante, Incisione Prevedari (1481); Milano, Castello sforzesco, Civica raccolta di stampe Achille Bertarelli. Bramante fornisce il disegno per una rara incisione di grande formato dal soggetto piuttosto misterioso, ambientata in un tempio in parte in rovina, evocatore dell’antica chiesa milanese di San Giovanni alle Quattro Facce, di cui l’artista è a quest’epoca uno dei parrocchiani.

C’è molto del suo percorso formativo, esibito non senza una punta di entusiastica convinzione, e molta Urbino emerge in questo saggio da “prospectivo” che adombra un Bramante fornitore di disegni e di cartoni più che esecutore in proprio di dipinti. A lanciarlo in questo campo, ma dopo qualche anno, sono gli amici influenti, una rete importante di cui qualche frammento emerge dalla produzione letteraria giunta sino a noi. Vano illudersi di poter disporre di un quadro completo, ma almeno in un caso il patrono e committente di Bramante coincide col disinvolto dialogo intellettuale tratteggiato nei sonetti.

Si tratta di Gaspare Visconti (1461-1499), genero del potente segretario ducale Cicco Simonetta (giustiziato nel 1480) e interessante figura di aristocratico intellettuale evoluto dai molti interessi e dalle molte relazioni, lo stesso che ha definito il Bramante poeta uno sviscerato partigiano di Dante, poco allineato al dilagante petrarchismo dell’epoca. Visconti, rievocando l’attiva e opulenta Milano del suo tempo, fornisce l’immagine di una società attiva e assai variegata: «chi mura, chi va a pede e chi sperona». E tra chi mura è il Visconti stesso, che può avvalersi della preziosa consulenza dell’amico Donato. Ne fornisce egli stesso un breve lusinghiero profilo nel poema De Paulo e Daria amanti (edito nel 1495): si fa prima a contare le stelle in cielo o i «corpi de la arena in mare», dice, «che dir le cognition che [ha] in sé Bramante » (I, 2). L’acquisto d’una casa a Milano (poi nota come Casa Panigarola) verso il 1486 (quando Donato è presente alla stipula di atti nella nuova dimora del Visconti, dove alloggia sino al 1492) innesca un ampio intervento di decorazione (che non sappiamo se del tutto completato) secondo un colto programma umanistico non esente da influssi neoplatonici. Una saletta è decorata con gli Uomini d’arme (e non solo), una stanza con camino da Eraclito e Democrito (probabile ritratto dei due amici, committente e artista: ma invecchiati ad arte, come si conviene a filosofi antichi, perché all’epoca Gaspare doveva avere circa ventisei anni), forse una Sala delle muse (un riferimento estense palese, alla Delizia di Belfiore: del resto Visconti allestisce un canzoniere per Beatrice d’Este, giovanissima sposa di Ludovico il Moro) e la singolare Camera degli arbori che probabilmente ha ispirato la nota Sala delle asse di Leonardo e quel gusto per le annodature vegetali che lo stesso maestro di Vinci ha annotato come «gruppi di Bramante ». La prematura morte di Gaspare, coincidente col crollo del ducato sforzesco all’arrivo delle truppe francesi (1499), segna la fine di questo fondamentale rapporto, noto peraltro solo a larghi tratti. Ma intanto Donato si è fatto conoscere e apprezzare, e altre occasioni professionali cominciano a delinearsi. Opera ad alto livello, un po’ come Alberti: dà pareri tecnici, fornisce consulenze, elabora progetti, stimola i potenti.
La sua presenza a Milano sembra gravitare intorno agli ambienti legati allo sfortunato Simonetta (Gaspare Visconti, Filippo Eustachi, Gian Giacomo Trivulzio da cui risulta pagato nel luglio 1485, Cristoforo Cambiaghi epurato dalla cancelleria dopo l’esecuzione del suo protettore, Antonietto Campofregoso che era stato affidato alla tutela di Cicco e si dedicava anch’egli alle lettere, riprendendo verso il 1505 il tema di Eraclito e Democrito nell’Opera nova de Doi philosophi), per il quale invano si adopera la corte di Federico (e il cui figlio Gian Giacomo Simonetta aveva non a caso trovato rifugio a Urbino). Più che direttamente all’ombra di Ludovico il Moro, che lo impiega prevalentemente come tecnico militare ma senza soluzione di continuità, Bramante pare muoversi con prudenza sulla scia dell’amico Visconti che godeva a corte della protezione di Beatrice d’Este, l’acculturata moglie «piacevolina» del Moro (la tiepida definizione è di quest’ultimo, in realtà molto più attratto dall’amante Cecilia Gallerani, la celebre dama con l’ermellino immortalata da Leonardo), e degli influenti dignitari ducali Marchesino Stanga e Bergonzio Botta (apertamente citati in un sonetto bramantesco), ma in ogni caso non sembra sopravvivere professionalmente alla caduta del regime sforzesco. Come l’amico Leonardo, che pure farà ritorno nella città lombarda, o come Luca Pacioli, Donato va in cerca di altre opportunità senza dar prova di tentennamenti, e senza neppure attendere l’esito dell’effimero tentativo di ritorno al potere del Moro. Si muove con risolutezza alla volta di Roma, attratto dalla grande committenza ecclesiastica e dai lavori annunciati per l’anno giubilare 1500. Anche in questo caso sembra disporre di buone entrature e proficui contatti, e in più può vantare le importanti referenze professionali acquisite nel ducato sforzesco.

Bernardino Prevedari su disegno di Donato Bramante, Incisione Prevedari (1481), particolari; Milano, Castello sforzesco, Civica raccolta di stampe Achille Bertarelli.


Bramante immagina un’architettura ricca di festoni e di rilievi figurati, ricorrendo ai conci fuori assetto per accentuare il sapore rovinistico del tempio.


Bernardino Prevedari su disegno di Donato Bramante, Incisione Prevedari (1481), particolare; Milano, Castello sforzesco, Civica raccolta di stampe Achille Bertarelli.

Altre imprese pittoriche e influenza sulla pittura lombarda
Il profilo di Bramante pittore è non meno elusivo di quello dell’«inzignero» di corte: un catalogo assai rarefatto, qualche opera scomparsa da tempo e alcune imprese andate a vuoto, incerte circostanze di committenza, discusse cronologie. Eppure è stata una presenza importante e incisiva nella cultura figurativa lombarda dello scorcio del Quattrocento. Ambrogio da Fossano detto il Bergognone è tra i primi ad accorgersene, riprendendo spunti dall’incisione Prevedari per la decorazione della residenza suburbana di Filippo Eustachi, e dagli Uomini d’arme di Casa Visconti-Panigarola nelle figure di santi affrescate nel transetto della Certosa di Pavia verso il 1488, data da considerarsi un caposaldo cronologico per la più significativa impresa pittorica bramantesca a Milano. Non sorprende che Ambrogio venga chiamato, a cavallo del 1495-1496, ad affrescare in Santa Maria presso San Satiro, verosimilmente sotto l’attenta supervisione di Bramante. Non meno decisivo il rapporto col giovane Bartolomeo Suardi, non a caso passato alla storia come il Bramantino, più giovane di Donato di circa vent’anni. In questo caso si passa da un momento di vera e propria collaborazione, come nell’Argo della sala del tesoro della Rocchetta in Castello sforzesco, all’aperto omaggio dell’Uomo di dolori Thyssen, dal vibratile patetismo innestato su una plastica solidità monumentale chiaramente memore dell’enigmatico Cristo di Chiaravalle di Donato, raro esempio di dipinto bramantesco su tavola dall’incerta cronologia (ma collocabile verso il 1488-1490) e dalla complessa iconologia. Probabilmente un’eccezione, perché Bramante non sembra aver tenuto una bottega di pittore in senso tradizionale. Del resto pure del suo maestro urbinate, l’enigmatico Corradini, si può dire altrettanto: un frate domenicano che, all’apice della maturità artistica, lascia la pittura per dedicarsi alla cura d’anime di un paese nei pressi di Urbino, Cavallino, rappresenta tutt’altro che una figura di “dipintore” professionista tipico della sua età. L’Argo della Rocchetta, appena ricordato, non costituisce un contributo molto chiarificatore sull’attività pittorica bramantesca in Lombardia, perché è un’altra vicenda non documentata e dalle vicende piuttosto tormentate.

La prima commissione dovrebbe risalire a poco dopo il 1485 e provenire a Donato dal castellano Filippo Eustachi, amico e protettore dell’artista, ma l’impresa viene poi affidata al giovane Bramantino perché, verosimilmente, Bramante è assorbito dalla decorazione di Casa Visconti, cui l’Eustachi è strettamente legato. Verso il 1490-1491, l’iniziale programma neoplatonico dell’affresco (Argo dona all’umanità le scienze e le lettere) viene modificato per adattarlo alla nuova funzione della Rocchetta, destinata a contenere il tesoro ducale: così diventa l’ovidiano Argo dai cento occhi, custode del tesoro, e non manca un motto latino che invita a non usare fraudolentemente chiavi non autorizzate, “adulterinae”. Entro il 1498-1499 il dipinto viene in parte compromesso dalla nuova copertura a volta dell’ambiente che lo ospita, col conseguente traumatico inserto di un peduccio al posto del volto della monumentale figura scorciata dal basso, residuo di un complesso impianto prospettico che sembra chiaro ricordo dell’iniziale ideazione bramantesca. E forse di Donato resta anche un sommario ritratto nel medaglione monocromo inferiore, nella figura riversa a terra che estrae dalla cassa il tesoro (della scienza, delle lettere) che sembra evocare il ritratto dell’altrettanto riverso Bramante-Euclide con le seste in mano effigiato da Raffaello nella celebre Scuola d’Atene. In entrambi i casi una figura attiva, concentrata, ma dal profilo sostanzialmente elusivo: un’immagine emblematica.

Raffaello, Scuola d’Atene (1510), particolare col ritratto di Euclide-Bramante; Città del Vaticano, Musei vaticani, Stanza della Segnatura.


Raffaello inserisce tra i numerosi personaggi della scena la figura del filosofo greco Euclide dandogli le sembianze di Bramante.

Architetto a Milano
Fare architettura a Milano, per un forestiero del XV secolo, non è semplice: in città manca una solida organizzazione corporativa e questo ha lasciato il campo a vere e proprie dinastie professionali di tipo familiare o clanico, come nel caso esemplare dei Solari. In più, Bramante non incarna la figura tipica dell’ingegnere né quella dell’architetto-imprenditore, assumendo piuttosto un profilo professionale più elusivo e onnicomprensivo, tipico dell’età dell’umanesimo. E forse un ruolo “alla Alberti” non gli dispiace, perché garantisce ampi margini di manovra e consente di coltivare altri interessi, come quelli di letterato e di geografo, di pittore e di allestitore di feste e spettacoli teatrali che le fonti gli hanno riconosciuto esaltandone la notevole versatilità. La prima importante vicenda architettonica milanese che lo vede coinvolto è un grande “work in progress”, l’edificazione dell’oratorio presso il sacello carolingio di San Satiro, impresa beneficiata dalla reggente Bona di Savoia e da molti personaggi della cerchia di Simonetta, tra cui Gaspare Visconti che dispone un lascito ventennale per il completamento della fabbrica, per un totale di ottomila lire (1483).

Ponticella (1495 circa); Milano, Castello sforzesco. La «ponticella», così definita da Cesare Cesariano, fu fatta completare da Ludovico il Moro con una loggetta trabeata che lo stesso Cesariano ha attribuito a Bramante, definito nell’occasione suo «primo preceptore».


Sant’Ambrogio, ciborio (XI secolo); Milano.

Sant’Ambrogio, canonica (dal 1492), capitello a cesto di lesena dell’arco trionfale;


Sant’Ambrogio, canonica (dal 1492), capitello di colonna d’angolo;


Sant’Ambrogio, canonica (dal 1492), capitello di colonne intermedie.


Il modello del capitello a cesto del ciborio, interpretato come caratteristico dell’antica chiesa ambrosiana, ispira molte formulazioni dell’ordine corinzio di Bramante in Lombardia, in particolare il capitello del tempio in prospettiva dell’Incisione Prevedari.

L’oratorio è a nave unica, con le pareti a successione di nicchie depresse, una versione del Santo Spirito di Brunelleschi che era stata elaborata dalla pittura senese (Sposalizio della Vergine del polittico di San Pietro a Ovile attribuito a Giovanni di Pietro, circa 1460: oggi la tavola è a Filadelfia, Johnson Collection) e adottata nella ricostruzione del duomo di Urbino (dal 1474: prima del coinvolgimento di Francesco di Giorgio c’è una misteriosa prima fase probabilmente da ascrivere a Corradini, che proprio nel 1474 risulta in stretti rapporti con Matteo de’ Benedetti, ambasciatore feltresco a Milano). Il favore dell’aristocrazia e del mondo mercantile milanesi hanno ben presto portato a dilatare la portata dell’intervento, per cui il corpo di fabbrica dell’iniziale oratorio viene trasformato nel transetto di una nuova chiesa, dedicata alla Vergine (Santa Maria presso San Satiro), riorientata con una rotazione di novanta gradi e con l’accesso dalla contrada della Lupa. Ne scaturisce una pianta a T, resa obbligata dalla presenza di via del Falcone, che non poteva essere tagliata dall’edificazione di un eventuale presbiterio a prolungamento del corpo longitudinale come nella tradizionale pianta a croce latina. Per armonizzare l’insieme e riscattare questa vistosa lacuna la sofisticata cultura del “prospectivo” asdrubaldino elabora, con un colpo d’ala senza precedenti, la brillante soluzione del celebre “finto coro”: una macchina scenica dalla forte presa illusionistica, forse mutuata dai tabernacoli marmorei prospettici fiorentini (uno, realizzato da Michele di Giovanni di Bartolo, detto il Greco di Fiesole, è ancora oggi a Urbino, conservato in Palazzo ducale), che in poco meno d’un metro di profondità dà all’osservatore l’assai persuasiva impressione dell’esistenza del coro al di là dell’incrocio.


Santa Maria delle Grazie, tribuna di Antonio Amadeo (1492-1499); Milano. Nel 1492 ha inizio l’edificazione di una monumentale cappella-mausoleo destinata ad accogliere le tombe di Ludovico Sforza e della moglie Beatrice d’Este. Bramante, documentato solo marginalmente nel 1494, viene coinvolto nell’ideazione, ma i lavori furono eseguiti da Giovanni Antonio Amadeo.


Michele di Giovanni di Bartolo detto il Greco di Fiesole, Tabernacolo di Urbino (1450 circa); Urbino, Palazzo ducale, Galleria nazionale delle Marche. Da opere come questa Donato può aver tratto lo spunto per ideare, con un brillante salto di scala di forte carica illusionistica, il “finto coro” prospettico di Santa Maria presso San Satiro.

Al cantiere della canonica di Sant’Ambrogio (il chiostro dei canonici sul fianco sinistro della celebre basilica romanica) si lega l’avvio del citato poema visconteo De Paulo e Daria amanti, in cui si finge di ritrovare la storia di due giovani inumati (Paolo Visconti e Daria Pusterla) in un antico manoscritto redatto «in let[te]re longobarde » e, pertanto, di difficile lettura. L’impresa, destinata a restare incompiuta, vede coinvolto Bramante nei primi anni Novanta (dal 1492), e una miniatura del manoscritto di Gaspare Visconti mostra la fabbrica in costruzione. Un classicheggiante portico, ispirato agli Innocenti di Brunelleschi, fiancheggia il corpo longitudinale dell’antica chiesa milanese, scandito da un arcone trionfale di accesso di proporzioni maggiori. Con un’assoluta novità, l’inserimento di colonne angolari “ad tronconos”, a forma di tronco arboreo appena sbozzato. Un’allusione polisemica, all’origine lignea dell’architettura in riferimento a Vitruvio, alla salvezza nel legno (della Croce di Cristo) in riferimento ad Ambrogio e ad Agostino, alla clava di Ercole in riferimento a Massimiano Erculeo, il socio di Diocleziano che fece di Mediolanum la capitale imperiale d’Occidente. Dopo questo “exploit”, forte dell’appoggio del cardinale Ascanio Sforza (fratello del Moro e protettore dell’ordine cistercense), Donato è richiesto di progettare, sul fianco opposto della basilica, i chiostri del monastero cistercense di Sant’Ambrogio, destinati a restare a lungo sulla carta e a essere eseguiti solo nel Cinquecento inoltrato, ben oltre la morte del loro ideatore e, naturalmente, con un maggiore rigore nell’uso degli ordini classici (dorico e ionico) rispetto al più libero sperimentalismo bramantesco.

Finto coro; Milano, Santa Maria presso San Satiro (1487-1490 circa).
La scelta di aggiungere un corpo longitudinale a tre navate ha comportato l’impossibilità di prolungarlo oltre l’incrocio per non invadere la pubblica strada (via del Falcone). Con una brillante soluzione scenografica, Bramante aggiunge una struttura fortemente prospettica, che offre l’illusione dell’esistenza di un coro profondo, ricavato invece in uno spessore di circa un metro di profondità.


Interno del battistero; Milano, Santa Maria presso San Satiro (1487-1490 circa).

BRAMANTE
BRAMANTE
Stefano Borsi
La presente pubblicazione è dedicata a Bramante (1444-1514). In sommario: Il soggiorno in Lombardia; Altre imprese pittoriche e influenza sulla pittura lombarda; Architetto a Milano; Gli anni romani; Un incarico prestigioso: il cortile del Belvedere; Il tempio massimo: il progetto di San Pietro. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.