gli anni romani

La prima attività romana di Donato, a ridosso del giubileo del 1500, resta ancora oggi un problema aperto.

Se ne avvide anche Vasari, che nella seconda edizione delle Vite (1568) tentò di rimpolpare il problematico regesto architettonico del poliedrico artista asdrubaldino con una serie di attribuzioni di vario livello, tuttora rimaste tali senza il riscontro di dati documentari. Ma nel giro di poco tempo l’inafferrabile Donato s’impone all’attenzione con due opere che lasciano il segno, cambiando di colpo l’intonazione dell’architettura romana dell’epoca.

La prima in ordine di tempo (1501-1504) è il chiostro presso la chiesa di Santa Maria della Pace, eretta sotto Sisto IV all’inizio degli anni Ottanta del XV secolo. In uno spazio fortemente limitato dalla chiesa adiacente, dall’isolato irregolare affacciato sul vicolo della Volpe e dal corpo conventuale dei canonici regolari lateranensi, Bramante inserisce un chiostro dal respiro nobile e magniloquente di un’architettura classica, innervato di suggestioni moderne come l’umanistico fregio continuo con iscrizione in eleganti caratteri epigrafici, ripreso dal Palazzo ducale di Urbino, o la brillante trovata della parasta filiforme affiorante nella soluzione angolare, che sviluppa uno spunto brunelleschiano superando in questo caso senza inibizioni il modello del grande cortile urbinate e la sua soluzione d’angolo ideata da Laurana.

Sin da subito Donato offre invoglianti spunti per il dibattito, a oggi mai sopito, se sia da considerarsi un architetto classico o anticlassico. Mentre proseguono i lavori del chiostro che ancora oggi porta il suo nome, commissionati dal cardinale Oliviero Carafa della Stadera, aristocratico napoletano di elevata cultura e committente, a Napoli, della cappella del Succorpo, Bramante viene coinvolto in modo oggi non più giudicabile anche nei lavori patrocinati verso il 1501 dallo stesso Carafa nel chiostro della Cisterna a Santa Maria sopra Minerva, poi sostituito da un radicale rifacimento tardocinquecentesco.


Santa Maria della Pace, chiostro (1501-1504); Roma.

Santa Maria della Pace, soluzione angolare del chiostro (1501-1504); Roma. Sviluppando uno spunto di Brunelleschi, da lui attentamente indagato, l’architetto urbinate risolve con la parasta filiforme appena affiorante dalla parete la difficile soluzione angolare del chiostro, senza alterare il ritmo degli archi inquadrati dall’ordine ionico trabeato adottato alla quota inferiore del chiostro stesso.


il tempietto di San Pietro in Montorio (iniziato nel 1502); Roma.

Il porporato sembra ansioso di lasciare un segno, dopo l’eclisse successiva alla condanna di Savonarola (1498), un duro colpo inferto al suo prestigio di cardinale protettore dei predicatori (ruolo che gli consente pure di essere al corrente del coinvolgimento di Bramante nell’impresa milanese delle Grazie), tanto da costringerlo a lasciare Roma. A proporsi in sua vece come protettore dei domenicani è un altro cardinale filosforzesco (il partito spagnolo cerca di controbilanciare l’aggressiva iniziativa francese in Italia), Bernardino Lopez de Carvajal, in rapporto con i gesuati di San Girolamo a Porta vercellina (la zona dell’ultima residenza milanese di Donato), alla guida dal 1498 del cantiere romano di San Giacomo degli Spagnoli (è forse questa l’impresa che fa muovere l’artista dal ducato), ospite del Moro a Milano nel 1496 e sostenitore tenace della sua politica, tanto che papa Alessandro VI lo definisce con sospetto «amico dil signor Lodovico e di Ascanio».

Sarà una figura chiave per la carriera romana dell’architetto, cui concorre addirittura la corona di Spagna. Il secondo “exploit” romano non deve farsi attendere a lungo, perché verso il 1502 (l’anno in cui, a vent’anni dalla scomparsa dell’autore, vengono rivelate le visioni profetiche del beato Amadeo Menez da Silva, il cui manoscritto non a caso è custodito gelosamente dal Carvajal) gli viene commissionato il tempietto di San Pietro in Montorio: è il primo edificio cristiano moderno che riprenda lo schema dell’antico tempio periptero rotondo, descritto da Vitruvio e pervenuto in alcuni edifici antichi che Bramante ha studiato a fondo, come il tempio della Sibilla a Tivoli, quello di Vesta al Foro romano, quello di Ercole Vincitore al Foro boario. Il Tempietto per antonomasia, citato da Serlio e Palladio a degno confronto dell’antico, e presenza costante in tante opere pittoriche di un secolo entusiasta, Vasari compreso (Notte di San Bartolomeo o Assassinio di Coligny), oltre che, ovviamente, nei dipinti dell’urbinate Federico Barocci (Fuga di Enea da Troia) incline all’omaggio all’illustre conterraneo. L’edificio ha un vano ipogeo, come il mausoleo del divo Romolo sull’Appia, evocante il sito della grotta in cui il beato Amadeo riceveva le sue mistiche visioni, che veniva così a coincidere con quello dell’antica tradizione romana che vi localizzava il martirio di Pietro (donde l’intitolazione): un contemporaneo, Francesco Albertini, lo definisce «mons crucifixionis».


Federico Barocci, Fuga di Enea da Troia (1598), particolare; Roma, Galleria Borghese. Nel dettaglio si evidenzia, nello sfondo, un edificio chiaramente ispirato da San Pietro in Montorio.


Maestro IHS, Alessandro e il gran sacerdote di Gerusalemme (1560 circa); Washington, National Gallery, Mellon Collection. Nella vigorosa fortuna iconografica del tempietto di San Pietro in Montorio, l’edificio è in questo caso assunto dall’anonimo incisore a immagine del Tempio per eccellenza, quello di Gerusalemme.

Un incarico prestigioso: il cortile del Belvedere
Per un artista cortigiano come Vasari, per la fortuna di un grande artista ci vuole un ingrediente fondamentale, un grande committente: «Giovò ben molto alla virtù sua il trovare un principe, il che a gli ingegni grandi avviene rare volte, a le spese del quale e’ potesse mostrare il valore dello ingegno suo e quelle artificiose difficoltà che nella architettura mostrò Bramante». Il principe in questione è un papa, l’energico Giuliano della Rovere, succeduto nel 1503 al breve pontificato di Francesco Todeschini Piccolomini (Pio III) col nome di Giulio II. Uomo di chiesa e di armi, principe, sacerdote e politico secolare, Giulio II è personaggio che intesse rapporti complessi, talvolta anche sofferti, con gli artisti di cui ama circondarsi, tra cui Giuliano da Sangallo, Bramante, Michelangelo e Raffaello. Per il nostro rappresenta qualcosa di più d’una felice opportunità, è il protagonista o trascinatore d’un autentico salto di scala. Bramante, nel giro di poco tempo, è chiamato a misurarsi con tematiche inaudite, con problematiche complesse come mai, con dimensioni iperboliche da dominare. Il primo incarico di rilievo ne è già un esempio terrificante: il papa chiede il collegamento diretto tra il palazzo vaticano, in cui risiede, e il Belvedere di Innocenzo VIII sito su una collina vicina, immerso nel verde del giardino pontificio.

Si tratta di padroneggiare un invaso di circa trecento metri (nell’asse maggiore: quello minore è circa un terzo), un fatto senza precedenti se non gli impianti circensi dell’antichità, accuratamente indagati dall’urbinate. Non solo: c’è da misurarsi con i bruschi salti di quota, perché il Belvedere sorge in collina e anche gli appartamenti del papa, trasferitosi al livello delle Stanze di Raffaello, si sono alzati di un piano.

Appare subito chiaro che una quinta multipiano a fronte di palazzo non possa risolvere i problemi. L’asse centrale del cannocchiale, l’albertiano «razzo centrico», è fatto coincidere con la veduta dallo studio del pontefice, la futura Stanza della Segnatura, ma lo spazio da dominare è immenso.

La cultura del “prospectivo” viene messa a dura prova. La soluzione è fondata sulla flessibilità del metodo: Donato scompone lo spazio in tre segmenti di diversa ampiezza, che definiscono un cortile inferiore, uno intermedio di raccordo (un vero e proprio viridario pensile come nel palazzo d’Urbino), uno superiore. Gli snodi sono marcati da torri che fanno da quinta prospettica e occultano i bruschi salti di quota. Un grande emiciclo conclude il tutto, raccordando la pianta longitudinale del cortile alla palazzina quadrangolare quattrocentesca, che risulta ruotata rispetto all’asse lungo dell’invaso. Scaloni monumentali, ispirati al santuario della Fortuna di Preneste (Palestrina), accedono al ripiano superiore, mentre nell’esedra terminale del cortile più elevato spicca la brillante invenzione della scala concavo-convessa.


Cortile del Belvedere e aula per conclave (1505-1506); Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. UA 287. Particolare con il tempietto periptero mai realizzato ma previsto da Bramante a coronamento del Torrione di Niccolò V, su probabile modello del tempietto di San Pietro in Montorio.

Una soluzione che, benché sacrificata da Michelangelo, diventa un’autentica icona del Cinquecento, imitata tante volte dai pittori e ripresa nel 1594 da Orazio Porta per ricavare un degno spazio davanti alla chiesa di San Michele a Lucignano (Arezzo), succedaneo d’una piazza che il fitto tessuto dell’abitato medievale non poteva consentire. L’articolazione ritmica delle pareti, a questa quota, riprende la partitura degli antichi archi trionfali e l’autorevole esempio moderno dell’interno d’ispirazione albertiana di Sant’Andrea a Mantova. Molteplici elementi concorrono a definire questo spazio inusitato: la distanza di mille piedi evocata nelle medaglie celebrative richiama il modello antico della “porticus miliaria” (ma i valori metrici sono diversi) e con essa un’idea di benessere psicofisico, il collegamento soprelevato diretto («corridore», o addirittura «via Julia») un’idea di sommo sacerdozio che rinvia all’archetipo del Tempio di Gerusalemme, mentre il rapporto palazzocirco è palesemente neocostantiniano (non a caso a Costantino verrà intitolata una delle Stanze).

Cortile del Belvedere (1505-1514), travata ritmica; Città del Vaticano. Le grandi quinte prospettiche dei bracci laterali e le notevoli dimensioni dell’invaso impongono all’architetto notevoli difficoltà. I prospetti del cortile superiore sono scanditi secondo un’articolazione basata sulla cosiddetta “travata ritmica”, desunta dagli archi trionfali romani e dall’interno di Sant’Andrea a Mantova.


Palazzina di Innocenzo VIII, cortile del Belvedere (1505-1509 per la parte bramantesca); Città del Vaticano.

I lavori procedono con la «prestezza» lodata dalle fonti (dall’Albertini, 1510, a Vasari quarant’anni dopo) come caratteristica dell’architetto asdrubaldino, ma si dà realisticamente la precedenza a un braccio solo, quello orientale. Coll’avanzare dei lavori prende corpo anche l’intervento alle Logge vaticane (dal 1507). Raffaello, sullo sfondo della Disputa del Sacramento, mostra il cantiere in uno stato ancora embrionale, e alla morte di Giulio II è realizzato solo l’ordine inferiore. Con Leone X, inizialmente assai interessato all’impresa, Bramante è chiamato a rivedere il progetto, ampliando il fronte a tredici campate: sarà Raffaello, alla sua morte, a raccogliere il testimone proseguendo i lavori.

Intanto, nonostante la vastità delle imprese che lo vedono protagonista, l’architetto asdrubaldino ha modo di cimentarsi con un’altra commissione gigantesca. Si tratta di un moderno palazzo in cui Giulio II pensa di riunire tutti i tribunali dello stato ecclesiastico, che dovrà sorgere sulla modernissima strada Giulia e che le fonti chiamano «Palatium Iulianum», il palazzo giuliano per antonomasia. Un fronte stradale di circa novantasei metri, che Donato pensa di risolvere con grandi risalti angolari e un corpo centrale in aggetto, una grande torre sul modello evidente del Castello sforzesco di Milano col torrione di Filarete. Al centro del complesso è prevista una chiesa, Santi Faustino e Giovita, una sorta di sperimentazione per il cantiere vaticano, di San Pietro in corpo minore. Nel maggio 1509 il papa visita il cantiere, già in grado di ospitare la stipula di un atto notarile nel settembre successivo. Due anni dopo, col papa impegnato in Emilia sul piano militare e una situazione generale sempre più difficile, ha inizio la crisi, la perdita di slancio. Oggi pochi conci giganteschi in travertino, tuttora in opera, testimoniano l’originaria ambiziosa scala dell’edificio, anche in questo caso senza precedenti.

Un’altra vicenda senza fortuna è la ricostruzione di San Celso, nella frequentatissima via che immette a ponte Sant’Angelo: un’altra sperimentazione sulla pianta centrale parallela a San Pietro. Ne restano, della fase bramantesca, alcuni disegni rinascimentali, nessuno di suo pugno. Vasari tace dell’impresa, nella sua biografia di Bramante, ma l’opera (che già risulta non finita in una guida romana del 1518) gli è ascritta da un’altra fonte, il cosiddetto Anonimo Gaddiano, verso il 1546. Parlare dei palazzi riferibili a Bramante condurrebbe in un mare di difficoltà anche maggiori, un ginepraio di controversie attributive, di vicende poco chiare e ancor meno documentate, di edifici molto trasformati nel tempo. Ciò deriva in larga parte dall’estrema variabilità del livello di coinvolgimento, perché a Donato, negli anni della maturità, il lavoro certo non manca, ma non mancano neppure alti prelati e dignitari curiali ambiziosi di cooptarlo o di consultarlo.


Giulio Romano, decorazione della sala di Costantino, particolare (1521-1523 circa), particolare con la scala concavo-convessa del Belvedere; Città del Vaticano, Musei vaticani. Sacrificata da Michelangelo, la piccola ma scenografica scala ideata da Bramante per il cortile superiore del Belvedere esercitò una grande suggestione sugli artisti cinquecenteschi, dando vita a soluzioni ancor più complesse come in questo ninfeo monocromo dipinto nello sguincio di una finestra della grande sala affrescata da Giulio Romano.

La “Lumaca” di Belvedere (1506-1512); Città del Vaticano, Belvedere.


La necessità di assicurare agili collegamenti tra i vari livelli del corpo longitudinale suggerisce all’architetto una delle sue più celebrate invenzioni, in cui la logica degli ordini classici in sovrapposizione diventa una compenetrazione graduale nella spirale continua della scala.

Un edificio della sua tarda attività romana si segnala per modernità di concezione: palazzo Caprini, che sarà non a caso scelto da Raffaello per propria abitazione e, quello che più conta, come riferimento obbligato per i palazzi da lui progettati. Vasari sottolinea l’innovativo finto bugnato a concrezione, «invenzion nuova del fare le cose gettate». Ma è soprattutto la novità linguistica a colpire: un basamento bugnato all’ordine inferiore, aperto da botteghe, e un piano superiore scandito dall’ordine classico che inquadra grandi finestre a edicola timpanata. Viene così inventata la formula caratteristica di tanti palazzi cinquecenteschi, da Raffaello a Giulio Romano, da Sammicheli a Palladio. Che si procura, non a caso, un disegno di palazzo Caprini ancor oggi conservato.

Il tempio massimo: il progetto di San Pietro
Sembra un paradosso, ma anche l’impresa più eroica e grandiosa della carriera romana di Bramante architetto, la ricostruzione di San Pietro in Vaticano, ha un avvio sfuggente, poco documentato e denso di mistero. Non sappiamo neppure se il coinvolgimento di Donato sia stato il naturale sviluppo dei numerosi incarichi vaticani dell’architetto, o se sia stato egli stesso a proporsi e a farsi largo, conscio dell’importanza dell’impresa. Anche Giulio II sembra aver precisato col tempo i suoi obiettivi: all’inizio pensa a una propria cappella funeraria a terminazione del coro quattrocentesco all’epoca ancora stancamente in costruzione sulle fondazioni gettate da Niccolò V e Rossellino. Ancora nell’ottobre 1505, autorizzando il trasferimento della famiglia di Giuliano da Sangallo a Roma, il papa dà prova di volersi servire dell’architetto fiorentino, magari in collaborazione con Bramante che si è nel frattempo ritagliato uno spazio, col tempo destinato a profilarsi sempre più concorrenziale. Da mesi è tutto un forsennato rincorrersi di varie opzioni progettuali, e lo stesso Vasari parla in modo sbrigativo di «infiniti disegni» (alcuni dei quali finiscono in suo possesso: è quindi una materia che conosce bene, a tacere dei legami d’amicizia con Francesco da Sangallo, figlio di Giuliano, e Orazio da Sangallo, figlio di Antonio il Giovane, che possono aver fornito ulteriori informazioni), ma tutto questo lavoro non ha lasciato tracce dirette.

A mettere un deciso punto a capo a questa incerta fase d’avvio è l’elaborazione di un ricco disegno di presentazione, eseguito su grande formato e costoso supporto: è il celebre “Piano di pergamena” (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, UA 1). Nell’estate 1505 se ne consuma rapidamente l’effimera vicenda, con la presentazione al pontefice e il rifiuto quasi immediato del progetto. Il cardinale e cronista Egidio da Viterbo, una delle fonti più informate sui fatti, riferisce come Bramante avesse proposto anche un nuovo orientamento della chiesa, rivoltata come un guanto in seguito a considerazioni di tipo urbanistico che oggi possiamo solo intuire. Un risultato strategico, però, viene portato a casa: non si parla più d’ora in avanti di una semplice «Cappella Giulia» (per la sepoltura di Giulio II prevista per questo ambiente Michelangelo parte per le cave apuane a sceglier marmi, ignaro dei recenti sviluppi), ma si fa strada un’autentica ricostruzione integrale, anche se ancora poco attenta alla realtà preesistente e alle diverse, complesse esigenze cultuali, liturgiche, cerimoniali della nuova fabbrica. Il tentativo bramantesco di forzare il gioco in ogni caso non sortisce un effetto risolutivo: il papa tiene ferma l’esigenza di rispettare l’orientamento primitivo, di tener conto dell’inamovibilità della tomba dell’apostolo (è su questo particolarmente perentorio: Egidio lascia intendere che Bramante avesse pensato di ricollocarla), impone di coprire con la nuova chiesa tutto il terreno consacrato della vecchia, e infine esige di riutilizzare, per economia di tempi e risorse, le strutture del coro semiottagono quattrocentesco di cui invece il piano di pergamena non tiene alcun conto. A questo punto è Giuliano da Sangallo, che reagisce alle brusche sollecitazioni impresse dal sempre più apertamente rivale Bramante, a proporre un progetto alternativo.


Maarten van Heemskerck, La piazza e le Logge vaticane (1532); Vienna, Albertina. Il disegno a chiaroscuro enfatizza le grandi strutture faticosamente realizzate per sostenere la grande cupola di San Pietro. L’impresa verrà conclusa alcuni decenni dopo la scomparsa di Bramante, secondo progetti sempre più distanti dalle intenzioni dell’architetto urbinate.

Maarten van Heemskerck, Veduta del fianco di San Pietro; Berlino, Kupferstichkabinett.


Veduta degli arconi di San Pietro in costruzione (1538-1539 circa); Berlino, Kupferstichkabinett.


La veduta di piazza San Pietro mostra la situazione visibile nel quarto decennio del XVI secolo. Sulla destra troneggia il corpo elevato delle Logge, impostate da Bramante e completate da Raffaello. La veduta laterale della basilica in costruzione mostra invece il coro in avanzato stato esecutivo ma ancora privo della copertura, e i grandi arconi, solo impostati da Bramante, destinati a sorreggere la grande cupola centrale.

Ne è immagine fedele il disegno UA 8 degli Uffizi, in cui è accolta l’idea di uno schema cruciforme inscritto nel quadrato, con campanili angolari e cinque cupole disposte a “quincunx” (quattro minori e una cupola maggiore al centro), ma con una dilatazione dell’impianto che già tiene conto delle obiezioni papali, perché l’edificio previsto viene portato a rispettare, inglobandola, le proporzioni della basilica costantiniana. Inutile dire che tale dilatazione solleva ulteriori problemi aperti: i grandi piloni liberi a sostegno di una cupola cresciuta di dimensioni e di peso rappresentano una sfida di cui, all’inizio, non sembra si tenesse il debito conto. Bramante replica con ulteriori studi, puntando su una concezione spaziale più fluida e flessibile, e sul retro dello stesso disegno lui (o, forse meglio, un suo stretto collaboratore) traccia schizzi planimetrici che comprendono San Lorenzo e il duomo di Milano: i trascorsi lombardi si fanno sentire e gli suggeriscono l’introduzione di ampi deambulatori nei bracci absidati della croce.


Maarten van Heemskerck, Veduta di San Pietro in costruzione: il tiburio di Bramante eretto a protezione della Confessione di San Pietro (1538-1539 circa); Berlino, Kupferstichkabinett. Il disegno mostra la struttura realizzata per proteggere l’altare di San Pietro durante i lavori. Si tratta dell’ultima significativa impresa dell’architetto urbinate. Destinata alla rimozione alla chiusura dei lavori, l’opera fu realizzata in peperino nella consapevolezza dei tempi lunghi previsti per il gigantesco cantiere.

La gerarchia spaziale si arricchisce di nuovi vani di raccordo e di spazi interni di disimpegno, in un gioco di continuità e compenetrazioni che rompe col passato. Si tratta di rapidi schizzi a sanguigna: un disegno, l’Uffizi UA 8 verso, destinato a non lasciare l’ambito dello studio dell’architetto. Il disegno Uffizi UA 20 riassume i termini del problema, questa volta attento a valutare l’impatto sulla preesistenza e gli ingombri della nuova fabbrica. È un disegno messo in pulito ma redatto in fretta, e la minuta quadrettatura del foglio lascia intendere che, almeno per il corpo quattrocentesco, si sia utilizzato un disegno precedente, trasportato in scala e riconvertito alle misure d’uso locale in canne e palmi romani (un decimo di canna). Pareti inflesse scavate da nicchie, robusti piloni mistilinei, grandi colonne e lesene ispirate al Pantheon (ma di proporzione più che doppia), deambulatori avvolgenti: è dispiegata una visione spaziale plastica e innovativa. Ma non è ancora il progetto definitivo, molto ancora resta da precisare: probabilmente è lo stesso metodo progettuale dell’architetto a essere particolarmente flessibile, al di là di ogni convenzione dell’epoca. La vicenda prende accelerazioni parossistiche, perché per un’importante occasione liturgica della primavera successiva, il sabato “in albis”, viene fissata la posa solenne della prima pietra. È il 18 aprile 1506, e la fabbrica ha inizio da uno dei quattro giganteschi piloni destinati a sorreggere la cupola centrale, quello della Veronica. Bramante ha già superato i sessant’anni e difficilmente può illudersi di vedere l’opera compiuta.


Marcantonio Raimondi da Raffaello, Ultima cena (1520 circa). La scena è idealmente ambientata in Vaticano, nella Sala regia: sullo sfondo è chiaramente evidenziata la finestra a serliana di Bramante.

Variante del progetto per San Pietro (1505); Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. UA 8 verso. Sul retro di un disegno sangallesco (UA 8 recto) Bramante abbozza nuove proposte, con un’interpretazione plastica degli spazi che evidenzia le difficoltà del progetto del rivale.


Maarten van Heemskerck, San Pietro, veduta del pilastro sud-occidentale in costruzione (1538-1539 circa); Berlino, Kupferstichkabinett.

Il papa, neanche a dirlo, la spunta sul riutilizzo del coro quattrocentesco: una soluzione chiaramente subita dall’architetto, per cui Donato studia ampi finestroni nell’attico per l’illuminazione interna, con un grande fregio dorico al di sotto, una dilatazione di quello già sperimentato nel Tempietto. Non c’è scampo per il capocroce dell’antica basilica costantiniana: i disegni dell’epoca, in particolare quelli di Maarten van Heemskerck databili al 1532 (il cantiere è nel frattempo andato avanti), mostrano una situazione drammatica. La fama di “ruinante” che circonda l’architetto se ne avvantaggia inevitabilmente. La satira più pungente è quella del Simia di Andrea Guarna, del 1517: in essa Bramante critica l’assetto del paradiso e si offre a san Pietro di rifarlo ex novo, ma l’apostolo stronca anche il progetto di San Pietro perché non si capisce bene dove sia l’ingresso della nuova chiesa, e l’autore fa persino dire all’architetto, ormai defunto, di attendere il suo ritorno dal regno dei morti prima di prendere decisioni sulle porte del nuovo tempio. Sono gli echi delle incertezze e delle perplessità dell’età leonina (nell’opera l’apostolo esprime comunque grande ottimismo sul destino della basilica: «il mio Leone la finirà di certo»), ma anche una fonte del pontificato roveresco, Sigismondo de’ Conti, parla nel 1512 di titubanze e ambiguità dell’architetto marchigiano che a suo dire causerebbero il rallentamento dei lavori. La carica innovativa del progetto bramantesco stenta a essere compresa: anche il grado di flessibilità del suo metodo offre il fianco a riserve e fraintendimenti. E innovativi sono anche gli strumenti e le soluzioni tecniche: le grandi volte a concrezione, i nicchioni gettati a stampo, i ponteggi pensili elevati (“impiccati”), le grandi centine per realizzare gli arconi sono frutto d’una scala amplificata d’intervento che deriva direttamente dall’ambiziosa ed eroica fase bramantesca del progetto. Se ne avvede Michelangelo, chiamato a misurarsi con la fabbrica “terribile” alla morte di Antonio da Sangallo il Giovane (1546): il disegno di Bramante è chiaro e schietto, scrive in una lettera, e chiunque si è allontanato da Bramante si è allontanato dalla verità. Nei centoventi anni di costruzione (dalla posa della prima pietra) in realtà la fabbrica si allontanerà progressivamente dal disegno di Donato, un po’ perché è sempre meno facile identificarlo, un po’ perché la storia fa sentire tutto il proprio peso. E la storia, si sa, è fatta di molte verità.

Cristoforo Foppa detto il Caradosso, medaglia di Giulio II con progetto di San Pietro (1506). La medaglia, coniata in occasione della fondazione della nuova basilica, fornisce l’immagine di una fase più avanzata del progetto rispetto a quanto tramandato dai disegni a noi noti riconducibili alla fase bramantesca.


Progetto per San Pietro (1505); Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. UA 20. Il disegno analizza la situazione delle preesistenze del capocroce della basilica vaticana.


Il “Piano di pergamena” (1505), con sovrapposizioni che evidenziano il rapporto tra opzione progettuale bramantesca e strutture preesistenti; Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. UA 1.

Giorgio Vasari, Papa Paolo III Farnese dirige la costruzione di San Pietro (1546); Roma, palazzo della Cancelleria, Salone dei cento giorni. L’inquadratura evidenzia il coro quattrocentesco proseguito da Bramante con la grande trabeazione dorica e le finestre dell’attico per guadagnare l’illuminazione delle parti alte, rivoluzionando quanto previsto da Bernardo Rossellino oltre mezzo secolo prima.


Giuliano da Sangallo, Progetto per San Pietro (1505); Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. UA 8 recto. Giuliano da Sangallo si mostra al corrente delle difficoltà incontrate dai primi progetti bramanteschi per San Pietro e tenta di inserirsi. Il suo disegno tiene conto delle principali obiezioni esternate dall’energico Giulio II dinanzi al primo progetto di Bramante, di cui riprende comunque l’impianto generale.

BRAMANTE
BRAMANTE
Stefano Borsi
La presente pubblicazione è dedicata a Bramante (1444-1514). In sommario: Il soggiorno in Lombardia; Altre imprese pittoriche e influenza sulla pittura lombarda; Architetto a Milano; Gli anni romani; Un incarico prestigioso: il cortile del Belvedere; Il tempio massimo: il progetto di San Pietro. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.