LA “LEGGENDA NERA”

Vasari non perde occasione per denigrare Andrea, che rappresenta a tinte fosche, pur riconoscendo ripetutamente la sua maestria («non meno sagace simulatore che egregio pittore, allegro quando voleva nel volto, della lingua spedito e d’animo fiero et in ogni azzione del corpo, così come era della mente, risoluto»). Lo descrive capace di graffiare le opere dei colleghi, di picchiare e ingiuriare i detrattori dei suoi lavori, tanto iracondo «come bestiale uomo che egli era», da rincorrere a lungo un fanciullo che aveva fatto dondolare la scala su cui stava lavorando. La denigrazione (riprendendo e ampliando il Libro di Antonio Billi), culmina nel racconto del presunto omicidio di Domenico Veneziano durante il lavoro nella chiesa fiorentina di Sant’Egidio, annessa all’ospedale di Santa Maria Nuova. Andrea, invidioso del successo del compagno, si vuole vendicare, e per questo ne conquista l’amicizia: Domenico gli insegna a suonare il liuto, trascorrono piacevolmente le serate, fanno insieme serenate alle innamorate. Domenico gli insegna anche i segreti della pittura a olio, tecnica ancora sconosciuta in Toscana ma utilizzata a Venezia (anche se pare che nessuno dei due ne abbia fatto uso). Andrea, accecato dalla gelosia per il successo del compagno, e approfittando del legame instaurato, decide di «levarselo d’attorno»: una sera d’estate l’artista veneziano esce con il liuto dall’ospedale di Santa Maria Nuova dove i due alloggiano, lasciando Andrea in camera a disegnare.

Questi però, uscito furtivamente, gli tende un agguato, distrugge il liuto e colpisce Domenico a morte, con una «maza ferrata» secondo le due versioni del Billi, con «certi piombi» per Vasari. Tornato altrettanto di nascosto in camera, viene chiamato dai servigiali dell’ospedale accorsi per il trambusto, e riesce a simulare un dolore irrefrenabile nel momento in 9 cui Domenico spira tra le sue braccia. Nonostante le ricerche, l’assassino non viene scoperto e sarebbe rimasto senza nome se Andrea non avesse confessato l’omicidio in punto di morte. Questa la dettagliata descrizione vasariana, che ha condizionato anche il giudizio sull’artista toscano: nell’edizione del 1550 la Vita di Andrea si chiude con un epitaffio denigratorio posto sulla tomba che Vasari, erratamente, dice in Santa Maria Nuova.


Pagina miniata con, nei riquadri, dall’alto: Gherardo di Giovanni detto Fora, L’accoglienza al papa davanti alla chiesa di Sant’Egidio il 9 settembre 1420 e La consacrazione della chiesa di Sant’Egidio l’8 settembre 1420, ms. A 67, c. 428r; Firenze, Museo nazionale del Bargello.
La pagina miniata mostra sia l’esterno che l’interno della chiesa di Sant’Egidio, parte dell’ospedale di Santa Maria Nuova, alcuni decenni prima degli interventi di Domenico Veneziano, Piero della Francesca e Andrea del Castagno.

Il testo infamante viene poi eliminato nell’edizione del 1568. Già dal 1862 è stato dimostrato come la notizia fosse falsa, poiché Domenico è vissuto quattro anni più di Andrea. Ma l’accusa di comportamenti violenti da parte degli artisti sono frequenti nei secoli, basti pensare a Cellini o Rosso Fiorentino (anch’egli ingiustamente incolpato di omicidio da Vasari), spesso legati a una competizione fra maestro e allievo. Quali che siano state le vicende che hanno segnato la sua vita, Andrea - all’incirca quarantenne - muore di peste a Firenze il 19 agosto 1457 e viene sepolto insieme alla moglie alla Santissima Annunziata. Al padre, che gli sopravvive, lascia delle perle ma, insieme, ingenti debiti con l’orafo Forzore di Niccolò Spinelli e il pittore Ventura di Moro. Chiosa Vasari: «Visse Andrea onoratamente, e perché spendava assai e particolarmente in vestire et in stare onorevolmente in casa, lasciò poche facultà».


Gherardo di Giovanni detto Fora, L’accoglienza al papa davanti alla chiesa di Sant’Egidio il 9 settembre 1420, ms. A 67, c. 428r, particolare; Firenze, Museo nazionale del Bargello.

ANDREA DEL CASTAGNO
ANDREA DEL CASTAGNO
Ludovica Sebregondi
Andrea di Bartolo, detto Andrea del Castagno (Castagno 1421 - Firenze 1457) è il volto “espressionista” del Quattrocento fiorentino. Appartiene alla generazione di Paolo Uccello, Beato Angelico, Domenico Veneziano, e come loro porta avanti le innovazioni prospettiche e naturalistiche di Donatello e Masaccio, ma rispetto ai colleghi le sue forme appaiono più contorte, le espressioni più marcate, i colori più scuri. Nel contesto mediceo del tempo, in cui si promuoveva una pittura raffinata e ispirata al culto dell’Antico, le sue posizioni rimangono ai margini, e troveranno invece sviluppo nella scuola ferrarese.