Nell’ottobre 1455 Andrea ottenne la commissione dell’affresco raffigurante il Monumento equestre a Niccolò da Tolentino per la cattedrale fiorentina, inteso a celebrare la città attraverso le effigi di personalità legate alla sua storia, come Niccolò. Questi era il condottiero che aveva vinto nel 1432 i senesi, alleati con milanesi e genovesi, alla battaglia di San Romano ma che, catturato in seguito dai nemici, era morto in carcere. L’opera doveva dialogare col Monumento equestre a Giovanni Acuto (vittorioso nella battaglia di Cascina del 1364), affrescato venti anni prima da Paolo Uccello. I l dipinto di Andrea era stato commissionato dalla Signoria, anche per volontà di Cosimo de’ Medici che già alla morte del condottiero (1435) aveva avuto intenzione di fargli erigere un monumento equestre.
Lapidaria la descrizione del più volte citato Albertini dei due monumenti: «il cavallo del verde terra per mano di Pau. Uccell., et il bianco di Andreino», individuandoli attraverso il colore. Per imitare una statua marmorea i due artisti hanno utilizzato gamme quasi monocrome, anche se differenti, ravvivate da tocchi di rosso. Paolo Uccello ricrea il monumento equestre attraverso forme geometriche e una perfetta impostazione prospettica di una visione dal basso ma - avendo elaborato un’immagine d’inusuale astrazione, quasi metafisica - fu accusato di aver eseguito un’opera troppo poco realistica, tanto da dover ritoccare l’affresco su richiesta della committenza. Andrea divide l’affresco in due parti, ciascuna con la sua prospettiva: il sarcofago con ai lati le figure reggi-stemma rappresentato “di sotto in su” e il monumento vero e proprio di cui offre una visione frontale. Il sarcofago riprende le forme di quello della Resurrezione di Sant’Apollonia, con il pesante coperchio embricato, motivo qui ripetuto nella sella del cavallo, e che sarà in seguito copiato in opere di oreficeria. La “tabula ansata” che accoglie l’iscrizione dedicatoria “all’inclito condottiero” è richiamo all’antico, mentre i due giovani nudi e con un grande cappello - che reggono da un lato lo scudo con lo stemma del leone rampante e dall’altro il nodo gordiano, emblema del condottiero - sono un riferimento al David donatelliano e ai due putti laterali del già citato Monumento funebre di Carlo Marsuppini in Santa Croce, opera di Desiderio da Settignano. Nel Monumento equestre Andrea vuole rendere l’illusione del movimento grazie ai nastri, al mantello, alla coda, alla bardatura mossi dal passo del cavallo, che si gira verso lo spettatore. La sua vitalità contrasta con la fissità del cavaliere dall’altero profilo, le gambe distese nelle staffe e la destra ferma nella posa ufficiale con cui stringe il bastone del comando. Andrea si è ispirato a esempi scultorei, come la Testa di cavallo Medici Riccardi del IV secolo a.C., la Protome Carafa donatelliana, i monumenti equestri dell’antichità quali il Marco Aurelio, ma soprattutto il Gattamelata che Donatello aveva eseguito a Padova fra il 1446 e il 1450 e di cui poté probabilmente vedere i disegni o un modello, da cui trasse ispirazione per il senso del movimento e l’impostazione diagonale. Sia Paolo che Andrea nei due Monumenti riuscirono a trasferire in pittura un genere fino ad allora proprio della scultura.
CONDOTTIERI
Le tre donne che seguono non appartengono alla storia fiorentina, ma al mondo classico o biblico. La Sibilla cumana “che profetizzò la venuta di Cristo” punta l’indice destro verso l’alto per alludere alla natura divina delle sue profezie e guarda verso il Bambino raffigurato sul lato corto. La figura di Ester è andata distrutta nella parte inferiore quando è stata aperta una porta. La Bibbia narra che la giovane ebrea, moglie di Serse, re dei persiani, ebbe il coraggio di intercedere presso il marito per scongiurare la distruzione del suo popolo. Della Regina Tomiri che “vendicò suo figlio e liberò la propria patria” tratta il De mulieribus claris di Boccaccio, che ne ripercorre le vicende: vedova, si mise a capo del popolo dei massageti per vendicare la morte del figlio combattendo e sconfiggendo Ciro, re di Persia. La regina unisce abiti e monili femminili a un’arma dalla lunga impugnatura e a bracciali per i quali Andrea potrebbe essersi ispirato a quelli dei massageti descritti da Erodoto (Storie I, 215). Sia di Ester che di Tomiri, nel testo che accompagna il nome, viene rimarcata la volontà di assicurare la libertà al proprio popolo. La parte destra è riservata ai tre grandi poeti fiorentini Dante Alighieri (1265-1321), Francesco Petrarca (1304-1374) e Giovanni Boccaccio (1313-1375), e le loro iscrizioni riportano solo i nomi, essendo inutile una spiegazione, data la loro fama incontrastata. Dante e Petrarca sembrano dialogare tra loro superando il limite dello spazio che li racchiude. Tutte le figure del ciclo, in una dimensione maggiore del vero, danno l’impressione di statue lignee o di persone reali, che illusionisticamente travalicano l’area loro riservata, invadendo lo spazio dello spettatore. In alto, sulla parete lunga, sei bambini nudi - che a coppie si rivolgono all’osservatore con sguardo vivace sollevando un braccio - camminano reggendo sopra la spalla un nastro collegato a un festone di alloro. Simili puttini compaiono nei più importanti monumenti fiorentini del primo Quattrocento impostisi, grazie soprattutto a Donatello - per esempio nella Cantoria per la cattedrale fiorentina del 1433-1438 -, come protagonisti in numerosi complessi scultorei. Andrea stesso aveva già dipinto degli “spiritelli” a Venezia, nel sottarco della cappella Tarasi.
Contro il fondo oro, sulla sinistra è in piedi san Giuliano riconoscibile dalla spada con cui ha involontariamente ucciso i genitori, sulla destra san Miniato cinto dalla corona regale e con in mano una bacchetta: le loro aureole, come quella della Madonna, hanno un tono rossastro che le distingue dal fondo. Al pari di molti nimbi dipinti da Andrea appaiono come dischi piatti di consistenza metallica. L’opera riunisce il realismo del primo Rinascimento, rivelato da una prospettiva accuratamente studiata e dalla fisicità dei corpi, al retaggio di un passato dominato dal simbolismo del fondo oro e della mandorla: una richiesta di gusto attardato da far probabilmente risalire al committente. Il fondo della mandorla è solcato da striature colorate, che riportano alla memoria quelle di mosaici romani del VI secolo, riprese in scultura da Donatello nella Tomba del cardinale Brancacci a Napoli (1426-1428 circa).
David con la testa di Golia, che si conserva oggi alla National Gallery of Art di Washington è databile intorno al 1450. Dipinto a tempera su cuoio applicato su legno, è un rarissimo scudo decorato da una scena e non dai consueti temi araldici, destinato dunque a sfilate cerimoniali più che come protezione in battaglia o in un torneo. Il David è un soggetto radicato nella tradizione figurativa di una città come Firenze che si identificava all’epoca nel giovane e indifeso David in lotta contro giganti Golia rappresentati dal papa, dal duca di Milano, dal re di Napoli e dal doge di Venezia. La narrazione biblica del ragazzo che inaspettatamente sconfigge il colosso aveva il compito di rappresentare un monito per i nemici. Nello scudo sono compendiati il momento iniziale, con David che sta lanciando la frombola armata di un sasso, e quello finale quando ai suoi piedi ha la testa già spiccata dal corpo del gigante con al centro della fronte la grande pietra che lo ha tramortito. La posa è desunta da uno dei due grandi gruppi scultorei dei Dioscuri di Montecavallo, sul Quirinale a Roma, che alla metà del Quattrocento erano ritenuti di Fidia e Prassitele. Considerati una delle meraviglie di Roma, furono disegnati da artisti come Pisanello e Benozzo Gozzoli utilizzando forse copie in scala ridotta.
David ha il volto di un ragazzo, ma le gambe sono possenti, le cosce e le braccia muscolose, le proporzioni del corpo perfette. È abituato a camminare scalzo tra i sassi, tra i quali ha scelto l’arma, e si muove a suo agio tra le rocce e le selve che si aprono per lasciare posto alla figura in movimento, la cui azione è dimostrata dalle vesti e dai lunghi capelli svolazzanti. Attesta l’interesse suscitato dal David di Andrea negli artisti di poco successivi la citazione presente nella figura a destra sul fondo del San Girolamo nel deserto di Desiderio da Settignano (1461) anch’esso oggi alla National Gallery di Washington: coincidono il gesto, la mano in forte scorcio, gli abiti mossi per la concitazione. Anche nell’acquaforte del 1470-1475 attribuita a Maso Finiguerra o Baccio Baldini, con la Morte di Assalonne (Londra, British Museum), è ripetuto il gesto delle braccia e l’ambientazione in un bosco e fra le rocce.
OPERE PERDUTE
Numerose sono le opere citate dalle fonti ma non più conservate, a cominciare da quelle che compaiono negli inventari di Lorenzo de’ Medici e di Giovanni Rucellai, ma altre ne registrano l’Albertini, il Libro di Antonio Billi, il Vasari. L’aretino rimpiange soprattutto la perdita di un Cristo alla colonna affrescato nel chiostro grande del convento di Santa Croce, dove era raffigurata «una loggia con colonne in prospettiva, con crociere di volte a liste diminuite, e le pareti commesse a mandorle, con tanta arte e con tanto studio, che mostrò di non meno intendere le difficultà della prospettiva, che si facesse il disegno nella pittura. Nella medesima storia sono belle e sforzatissime l’attitudini di coloro che flagellano Cristo, dimostrando così essi nei volti l’odio e la rabbia, sì come pazienza et umiltà Gesù Cristo, nel corpo del quale, arrandellato e stretto con funi alla colonna, pare che Andrea tentasse di mostrare il patir della carne, e che la divinità nascosa in quel corpo serbasse in sé un certo splendore di nobiltà; dal quale mosso, Pilato che siede tra’ suoi consiglieri, pare che cerchi di trovar modo per liberarlo».
La scena era rovinata già al tempo di Vasari, essendo stata danneggiata «da’ fanciulli et altre persone semplici» che avevano graffiato le figure «de’ Giudei, come se così avessino vendicato l’ingiuria del Nostro Signore contro di loro». La descrizione vasariana dà conto della capacità di finissimo prospettico di Andrea e il suo attento studio psicologico dei personaggi.
ANDREA DEL CASTAGNO
Ludovica Sebregondi
Andrea di Bartolo, detto Andrea del Castagno (Castagno 1421 - Firenze 1457) è il volto “espressionista” del Quattrocento fiorentino. Appartiene alla generazione di Paolo Uccello, Beato Angelico, Domenico Veneziano, e come loro porta avanti le innovazioni prospettiche e naturalistiche di Donatello e Masaccio, ma rispetto ai colleghi le sue forme appaiono più contorte, le espressioni più marcate, i colori più scuri. Nel contesto mediceo del tempo, in cui si promuoveva una pittura raffinata e ispirata al culto dell’Antico, le sue posizioni rimangono ai margini, e troveranno invece sviluppo nella scuola ferrarese.