NOVELLO GIOTTO

Un uomo cupo, come le sue opere: così per secoli è stato presentato Andrea del Castagno, forse a causa della “leggenda nera” che, ingiustamente, ne ha avvolto la biografia.

Potrebbero aver anche contribuito il linguaggio severo, la linea potente, l’espressione spesso corrucciata dei personaggi, insieme al cattivo stato di conservazione dei suoi affreschi, che ne ha offuscato gli effetti luminosi e coloristici. Sicuramente hanno concorso notizie errate, frammentarie, e l’impossibilità di conoscere gran parte delle sue opere, a lungo scialbate o conservate in luoghi inaccessibili. Questo, nonostante il ruolo fondamentale di Andrea, uno degli artisti che hanno segnato il passaggio dai “padri fondatori” del Rinascimento - Brunelleschi, Masaccio, Donatello - alle nuove generazioni di Pollaiolo, Botticelli, Ghirlandaio. Poco dopo la sua morte Andrea era tenuto in grande considerazione, come testimoniano le parole di Cristoforo Landino nel proemio al Comento sopra la Comedia di Dante del 1481, in cui riunisce le glorie fiorentine: «Andreino fu grande disegnatore et di gran rilievo: amatore delle difficultà dell’arte et di scorci, vivo et prompto molto et assai facile nel fare».
Andrea nasce in una data incerta, intorno al 1419, da Bartolo di Simone di Bargiella e da Lagia, a Castagno di San Godenzo alle pendici del monte Falterona in Toscana. Il padre, contadino che era riuscito ad acquisire dei terreni, nella portata al catasto del 1427 elenca tra i familiari il primogenito «Andreino» di circa sei anni (ma i dati anagrafici in queste “dichiarazioni fiscali” sono molto approssimative, puramente indicative). E Andreino rimarrà il suo appellativo, anche in vari documenti ufficiali. Il nome della frazione in cui nasce indica la posizione di Castagno di San Godenzo tra foreste dell’albero la cui coltura era molto diffusa, perché le castagne hanno rappresentato per secoli l’alimento base delle popolazioni montane, e non solo. Una zona verdeggiante, impervia, di cui Andrea porterà con sé il ricordo, facendolo riemergere nei paesaggi del Cenacolo di Sant’Apollonia e nel San Giuliano della chiesa dell’Annunziata. Nel 1957 il centro abitato ha aggiunto il nome del figlio illustre, divenendo Castagno d’Andrea.


Ritratto di Andrea del Castagno, in Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, et architettori, Firenze 1568.

Vasari narra che Andrea, rimasto orfano ancora fanciullo, sarebbe stato allevato da uno zio che gli avrebbe affidato il gregge al pascolo. Secondo lo storico aretino (in entrambe le edizioni delle Vite: 1550 e 1568), l’artista avrebbe da subito dimostrato un carattere malvagio di cui lo accusa ripetutamente nella biografia a lui dedicata (Vita di Andrea dal Castagno di Mugello e Dominico Viniziano). Una narrazione che presenta, insieme, Andrea e Domenico Veneziano in cui - erroneamente, come vedremo - Vasari accusa il primo dell’omicidio del secondo, accomunandoli in vita e in morte. Vasari non descrive l’aspetto di Andrea, sottolineando invece ripetutamente la sua cattiveria, che fa trapelare anche dall’incisione posta ad apertura della Vita dell’artista toscano nell’edizione del 1568, in cui - offrendo una lettura quasi “lombrosiana” del volto - lo presenta con lo sguardo sfuggente, duro e una zazzera di capelli disordinati. L’eclettico autore aretino informa anche che Andrea aveva dipinto il proprio autoritratto nella perduta Dormitio Virginis di Sant’Egidio a Firenze «con viso di Giuda Scariotto, come egl’era nella presenza e ne’ fatti». Possiamo solo ipotizzare, ma non è certo, essendo stato utilizzato già quando era piccolo, che l’appellativo «Andreino» fosse dovuto alla corporatura minuta dell’artista. È l’unico nome usato dal Memoriale di Francesco Albertini (1510) e dal Libro di Antonio Billi, il cui originale (databile fra 1506 e 1530) è andato perduto, ma che è conosciuto nelle due trascrizioni del Codice strozziano e del Codice Petrei.


Il paese di Castagno, ai piedi del monte Falterona.

Con un topos letterario che ricorda la narrazione degli esordi di Giotto, pastorello mugellano che disegna le pecore su un masso e viene “scoperto” da Cimabue, Vasari racconta come Andrea fosse rimasto folgorato quando, per ripararsi dalla pioggia, si era imbattuto in uno di quei «dipintori di contado che lavorano a poco pregio» intento a dipingere il tabernacolo di un contadino; «assalito da una sùbita maraviglia, cominciò attentissimamente a guardare e considerare la maniera di tale lavoro». Da quel momento iniziò «per le mure e su per le pietre co’ carboni o con la punta del coltello, a sgraffiare et a disegnare animali e figure».

Il ruolo avuto da Cimabue per Giotto è svolto secondo il Libro di Antonio Billi nella versione Petrei da un non meglio precisato artista fiorentino che nota Andrea mentre disegna pecore su un sasso; la versione strozziana, invece, cita genericamente un «cittadino» fiorentino. È Vasari che narra come Bernardetto de’ Medici, giuntagli notizia dai contadini dei dintorni delle capacità del giovane, volle conoscere Andrea e lo portò con sé a Firenze mettendolo a bottega con «uno di que’ maestri che erano allora tenuti migliori ». Bernardo d’Antonio de’ Medici (1383 circa-1465), noto come Bernardetto, era un personaggio di spicco a Firenze, forse proprietario di beni in Mugello, zona di origine della casata medicea e territorio in cui vari membri della famiglia avevano estesi possedimenti. Parente alla lontana - i bisnonni erano fratelli - di quel Cosimo (1389-1464) che dal momento del ritorno dall’esilio nel 1434 aveva assunto di fatto il potere a Firenze, Bernardetto avrebbe influito nel suggerire il nome di Andrea per alcune committenze.


Giovan Battista Cecchi, Ritratto di Andrea del Castagno (1770 circa); Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe. Il ritratto si ispira all’incisione vasariana, ma ne attenua la caratterizzazione negativa.

La battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440 rappresenta un evento cruciale per il potere di Cosimo de’ Medici, in quanto vittoria di Firenze sul duca di Milano, che mise fine all’espansionismo dei Visconti, ma insieme affermazione sulla fazione degli Albizi alleatasi coi nemici. Bernardetto era commissario dell’esercito e grazie a questo ruolo potrebbe aver ottenuto per Andrea «servitore et obligato alla casa de’ Medici», l’incarico di rappresentare sul Palazzo del podestà l’impiccagione “in effigie” dei ribelli fuoriusciti. L’artista rappresentò le dieci figure secondo la tradizione delle pitture infamanti che dovevano riprodurre il più fedelmente possibile i ritratti dei condannati in contumacia, impiccati per un piede. Ciascuno dei dieci era contraddistinto inferiormente dal nome e da una quartina ingiuriosa. Se nel Due e Trecento simili dipinti erano spesso affidati ad artisti che avevano avuto problemi con la giustizia, in seguito in Toscana furono commissionati a pittori legati politicamente alle diverse fazioni.


Vasari evidenzia la varietà delle pose e il grande successo ottenuto a Firenze, tanto è vero che l’artista da quel momento fu detto «degl’Impiccati». La carriera di Andrea iniziò dunque all’insegna di una rappresentazione violenta, che sembra aver bollato il suo intero percorso. Quasi un secolo dopo Andrea del Sarto trasse insegnamento da quanto avvenuto e, «per non si acquistare, come Andrea dal Castagno, il cognome degl’Impiccati», eseguì pitture infamanti solo di notte, nascosto da una impalcatura e trincerandosi dietro il nome di un allievo. Le figure di Andrea del Castagno furono cancellate dopo la cacciata dei Medici nel 1494, sorte toccata spesso alle rappresentazioni legate agli alti e bassi delle fortune politiche. Sarebbe stato ancora Bernardetto, mentre negli anni Cinquanta era vicario per il Mugello a Scarperia, a commissionare ad Andrea per il palazzo dei Vicari una figura, perduta, della Carità «igniuda, certo bellissima» secondo la descrizione della versione Petrei del Libro di Antonio Billi.

ANDREA DEL CASTAGNO
ANDREA DEL CASTAGNO
Ludovica Sebregondi
Andrea di Bartolo, detto Andrea del Castagno (Castagno 1421 - Firenze 1457) è il volto “espressionista” del Quattrocento fiorentino. Appartiene alla generazione di Paolo Uccello, Beato Angelico, Domenico Veneziano, e come loro porta avanti le innovazioni prospettiche e naturalistiche di Donatello e Masaccio, ma rispetto ai colleghi le sue forme appaiono più contorte, le espressioni più marcate, i colori più scuri. Nel contesto mediceo del tempo, in cui si promuoveva una pittura raffinata e ispirata al culto dell’Antico, le sue posizioni rimangono ai margini, e troveranno invece sviluppo nella scuola ferrarese.