Letterature iconologiche
L’immagine di Cleopatra attraverso i secoli

dall'egitto
a hollywood

Dopo nove generazioni di matrimoni “in famiglia”, non una stilla di sangue egizio scorreva nelle vene di Cleopatra, della stirpe dei Tolomei, di origine greca. Eppure, quando pensiamo alla regina che ammaliò Giulio Cesare e Marco Antonio, l’immagine che abbiamo è quella di una sovrana dai capelli corvini, con gli occhi pesantemente truccati, carica d’ori e caratterizzata dai simboli regali degli antichi faraoni.

Lorenzo Bonoldi

cleopatra, o meglio Cleopatra VII Thea Philopatore, è passata alla storia come donna dotata di un magnifico aspetto, capace di fare innamorare di sé due degli uomini più potenti e importanti nella storia di Roma: Giulio Cesare prima e Marco Antonio poi. Tuttavia le fonti antiche sono discordi sulla leggendaria bellezza dell’ultima sovrana d’Egitto. Se infatti Cassio Dione, descrivendo la regina al tempo del suo incontro con Cesare, parla di una bellezza straordinaria(1), Plutarco afferma invece che l’aspetto della sovrana non era in realtà per nulla eccezionale(2). Su un punto, però, le testimonianze antiche sembrano concordare: più che la bellezza esteriore, il fascino della regina emanava dalla sua voce, dai suoi modi e dalla sua levatura intellettuale: donna estremamente colta, Cleopatra intratteneva rapporti con gli eruditi del Museion e della Biblioteca di Alessandria. Non una stilla di sangue egizio scorreva nelle sue vene: per nove generazioni la sua famiglia, la dinastia dei Tolomei, aveva praticato l’endogamia, senza mai mescolarsi alla popolazione dell’Egitto. Notevole era la sua conoscenza delle lingue. Parlava fluentemente latino e greco, e senza avvalersi di interpreti intratteneva conversazioni con arabi, ebrei, etiopi, medi, siri e parti. Ma qual era l’aspetto di questa regina che, dandosi la morte, seppe diventare immortale? Lo studio della ritrattistica di Cleopatra si configura in realtà piuttosto problematico: come tutti i membri della dinastia tolemaica, infatti, anche Cleopatra soleva farsi rappresentare sia secondo i canoni estetici della tradizione egizia, sia attraverso il linguaggio dell’arte greco-ellenistica. Attraverso tale “bilinguismo figurativo” i Tolomei, insediatisi alla guida dell’Egitto come successori di Alessandro il Grande a partire dal 305 a.C., si presentavano da un lato come gli eredi di una tradizione faraonica antica di oltre trenta dinastie, e dall’altro come i legittimi successori del dominio alessandrino sull’Egitto. Fra i ritratti di Cleopatra realizzati secondo i canoni ieratici della tradizione figurativa dei faraoni, spicca un rilievo scolpito su una delle pareti del tempio di Dendera, in Egitto, ove la sovrana tolemaica compare di profilo, coronata da ureo (il serpente che simboleggia la regalità faraonica), disco solare e corna d’ariete in forma di lira. È questa una delle rarissime raffigurazioni delle regina accompagnate dal suo nome scritto in geroglifici, elemento che rende certa l’identificazione del soggetto. Un’altra interessante rappresentazione di Cleopatra secondo i canoni estetici egizi è offerta da una scultura in basalto nero, conservata all’Ermitage di San Pietroburgo. In questo caso non compare nessun cartiglio recante il nome della regina, ma il riconoscimento del soggetto ritratto è possibile attraverso una lettura iconografica degli attributi presenti nella statua: la figura reca infatti in mano una doppia cornucopia, simbolo che compare anche su alcune monete emesse da Cleopatra. Inoltre, sul capo della figura femminile compaiono non due, ma tre urei. Si tratta di un caso eccezionalmente raro: generalmente, infatti, nei ritratti dei faraoni compaiono al massimo due urei, a simbolo dei regni dell’Alto e del Basso Egitto. La presenza di un terzo elemento regale può essere giustificata dal fatto che nel 34 a.C., in occasione delle Donazioni di Alessandria, i possedimenti di Cleopatra vennero estesi, comprendendo, fra i vari territori, anche Cipro. Il terzo ureo sulla fronte della statua sembrerebbe quindi ricondursi a queste estensioni territoriali, confermando l’identificazione del soggetto ritratto nella scultura con Cleopatra. Tuttavia, per quanto il rilievo di Dendera e la statua oggi all’Ermitage siano sicuramente effigi di Cleopatra, entrambi mostrano la regina divinizzata, e non sono quindi in grado di restituircene un ritratto fedele.



Arte egizia, Statua di Cleopatra VII (I secolo a.C.), San Pietroburgo, Ermitage.

Cleopatra con due serpenti, miniatura dalla Vita di donne celebri di Antoine du Four (Francia, 1505 circa).

Nelle miniature che illustrano il suicidio della regina compaiono spesso
due serpenti


Fattezze più realistiche sono invece riscontrabili nell’ambito della monetazione delle zecche di Alessandria e Cipro, che offrono immagini di Cleopatra realizzate secondo i canoni della numismatica ellenistica. La regina, peraltro, fu l’unica fra le sovrane tolemaiche a coniare monete con il proprio nome e la propria effigie senza accompagnarli a quelli di un consorte. Anche grazie al confronto con questi esemplari, nei quali attorno al ritratto compare la dicitura «KLEOPATRAS BASILISSES» (Cleopatra regina), è stato possibile identificare la regina d’Egitto come soggetto di un gruppo di teste in marmo, il cui miglior esemplare è oggi esposto all’Altes Museum di Berlino (una copia meno integra si trova in Vaticano, nel Museo gregoriano profano, mentre una terza copia si trova nel museo di Cherchell, in Algeria)(3). È possibile che queste teste siano repliche parziali della statua in bronzo dorato, effige di Cleopatra, che Giulio Cesare volle far collocare a Roma, all’interno del tempio di Venere genitrice, nel Foro romano. Si trattò di un fatto straordinario: per quanto la cultura romana contemplasse il concetto di apoteosi, il collocamento del ritratto di una persona ancora in vita - perlopiù una regina straniera - all’interno di uno spazio sacro, corrispondeva in tutto e per tutto a una divinizzazione di stampo orientale. Cleopatra, chiamata con l’appellativo “Thea” (dea) e già assimilata a Iside nel nativo Egitto, assumeva in questo modo, nell’ancora repubblicana Roma, uno status quasi divino. Non fu questo l’unico ritratto di Cleopatra mostrata pubblicamente a Roma. Un’altra effige della regina venne infatti realizzata per volontà del suo più acerrimo nemico, Ottaviano, che dopo la vittoria nella battaglia di Azio (31 a.C.), avrebbe voluto far sfilare per le vie di Roma la regina d’Egitto, come prigioniera. Ma dacché questa aveva preferito darsi la morte facendosi mordere da un aspide, Ottaviano fece predisporre un simulacro che raffigurava la regina morente, adagiata su un letto, con un serpente attorcigliato attorno al braccio. Tale immagine, esibita nel corteo che accompagnò il trionfo di Ottaviano, segnò la nascita del tema iconografico del suicidio di Cleopatra, che, a secoli di distanza, avrebbe goduto di una grande fortuna, contribuendo all’immortalità figurativa del mito dell’ultima regina d’Egitto. Dal canto loro, i poeti della cerchia di Ottaviano, nel frattempo nominato imperatore col nome di Augusto, iniziarono ben presto a usare toni decisamente ostili per descrivere la faraona: Properzio la definì «regina puttana »(4), Orazio la rappresentò come «mostro fatale»(5) e Lucano la chiamò «vergogna d’Egitto, feroce Erinni del Lazio, immonda sventura di Roma»(6). La cattiva fama di donna lasciva, aggravata dalla colpa del suicidio, temi enfatizzati dalla propaganda filoaugustea, contribuirono a connotare negativamente la figura di Cleopatra nei secoli successivi, al punto tale che Dante collocò la regina nell’Inferno, fra le anime dannate del girone dei lussuriosi. Petrarca, nel suo Trionfo della fama avvicinò la regina d’Egitto a Semiramide e Zenobia, quali esempi di arroganza e vanagloria, nominandola anche nel Trionfo d’amore, come figura seduttrice. Ma fu soprattutto Boccaccio a dare grande risalto alla figura di Cleopatra dedicandole una intera biografia - in vero non troppo lusinghiera - all’interno del suo De claris mulieribus. È proprio in questo contesto letterario e culturale che si riscontrano, nelle miniature che illustrano il suicidio della regina, le prime riemersioni dell’immagine di Cleopatra. In molti di questi esempi, è curioso notarlo, compaiono spesso due serpenti. Il dettaglio è dovuto alla versione della storia riportata proprio da Boccaccio, che, sulla scia di Virgilio, Orazio, Properzio e Floro, parla di due aspidi (come farà successivamente anche Shakespeare). Successivamente, con la riscoperta di fonti antiche più attendibili (prima fra tutte la Vita di Antonio di Plutarco) il numero di serpi verrà riportato a uno. Da queste prime riemersioni nel campo delle miniature, che accompagnano i testi dedicati alle vite delle eroine dell’antichità, la figura di Cleopatra approda ai cicli pittorici dedicati alle donne illustri (come per esempio un dipinto del Maestro delle Eroine nella collezione Chigi- Saracini a Siena, un altro attribuito a Girolamo di Benvenuto già in collezione Grassi e un terzo, di Bartolomeo Neroni, al Musée Bonnat di Bayonne). Il passaggio dalle miniature ai cicli pittorici corrisponde a una rivalutazione della figura di Cleopatra, motivata anche dal rinnovato grande interesse per le antichità egizie che caratterizzò la cultura umanistica del Rinascimento italiano(7).


Testa di Cleopatra VII (prima del 31 a.C.), Berlino, Altes Museum.

Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto L’Antico, Busto di Cleopatra (1519-1522 circa), Boston, Museum of Fine Arts.

È curioso notare come, negli affreschi di Tiepolo, Cleopatra sia raffigurata non come un’esotica sovrana, ma come una tipica bellezza veneziana
del Settecento, dai capelli biondo dorato




Esemplare da questo punto di vista è il busto bronzeo di Cleopatra che Pier Jacopo Alari Bonacolsi, noto come L’Antico, realizzò per Isabella d’Este. In esso la sovrana non è ritratta nell’atto del suicidio, e l’unico accenno all’episodio della sua morte è rappresentato dal piccolo serpente posto sul piedistallo. Per il resto la scultura è intesa per essere immagine stessa della regalità al femminile: il ritratto di una donna di potere commissionato da un’altra donna di potere. L’immagine di Cleopatra, intesa come figura maestosa e incarnazione di sovranità, potere, ricchezza e fasto regale fu riecheggiata anche da Ludovico Ariosto, che con Isabella d’Este ebbe frequenti rapporti, e che, nel suo Orlando furioso, citò la regina d’Egitto, ricordandola come organizzatrice di sontuosi banchetti(8). Il rapido passaggio ariosteo fa riferimento al celebre banchetto che Cleopatra organizzò in onore di Marco Antonio. Durante il convito, per stupire il proprio ospite, la sovrana non esitò a dissolvere una preziosa perla in un calice d’aceto. L’episodio, narrato da Plino il Vecchio nella Naturalis historia, e poi ripreso da Boccaccio nel De claris mulieribus, iniziò a godere di una certa fortuna iconografica già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, per giungere infine a un esito monumentale negli affreschi settecenteschi dipinti da Giambattista Tiepolo a palazzo Labia, a Venezia. È curioso notare come, negli affreschi di Tiepolo, Cleopatra sia raffigurata non come un’esotica sovrana, ma come una tipica bellezza veneziana del Settecento, dai capelli biondo dorato. Per raffigurare le avvenenti fattezze della regina d’Egitto, decantate dalle fonti antiche, ogni epoca ha infatti utilizzato i canoni estetici propri del tempo, adattando anche gli abiti secondo il gusto della moda corrente. Per un ritorno a rappresentazioni di Cleopatra storicamente più plausibili occorrerà attendere il secolo XIX, quando, a seguito della campagna di Napoleone in Egitto, della vittoria dell’ammiraglio Nelson nella battaglia del Nilo e, non da ultimo, della traduzione dei geroglifici della Stele di Rosetta, la cultura artistica europea scoprirà un nuovo e forte interesse per l’archeologia egizia. Significativo da questo punto di vista è un quadro eseguito nel 1883 dal pittore vittoriano Lawrence Alma-Tadema, raffigurante l’incontro fra Marco Antonio e Cleopatra. Per quanto il tema del dipinto non raffiguri di per sé una novità - il dramma shakespeariano Antonio e Cleopatra veniva infatti messo in scena con una certa regolarità nei teatri londinesi del tempo - un dettaglio dell’opera mette in luce un’erudita ricerca da parte dell’artista: sul fianco della barca di Cleopatra compare infatti il nome della regina, vergato in caratteri geroglifici. Un’assoluta novità, se si considera che gli studi di Champollion dedicati alla decrittazione dei geroglifici venivano dati alle stampe meno di un decennio prima.
Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento, a seguito del taglio dell’istmo di Suez (1869) e della messa in scena dell’Aida di Giuseppe Verdi (1871), la tendenza al revival egizio nell’arte europea conobbe un ulteriore incremento. In questa temperie culturale l’immagine di Cleopatra fu ricondotta - non senza alcune esagerazioni stilistiche - a quella degli antichi faraoni d’Egitto, dimenticando quasi completamente gli aspetti della ritrattistica in stile ellenistico-romano legati al mito figurativo dell’ultima regina d’Egitto. Contemporaneamente una nuova forma d’arte prendeva vita: il cinema. La prima comparsa di Cleopatra al cinematografo si deve a una pellicola girata da Georges Méliès nel 1899. Da allora a oggi, le apparizioni della regina d’Egitto sul grande schermo, e poi in televisione, sono state centotrentasei: dai kolossal in stile “peplum” ai film di animazione, passando per Totò e Cleopatra e Xena, la principessa guerriera, senza dimenticare pruriginose pellicole vietate ai minori di diciotto anni come I sogni erotici di Cleopatra. Nella quasi totalità dei casi, queste epifanie cleopatrine in celluloide risultano modellate sull’immagine in stile “faraonico”, così come codificata a fine Ottocento(9). Fra queste, quella che più di ogni altra ha contribuito a ridefinire la figura di Cleopatra nell’immaginario collettivo è stata quella che ha visto come protagonista Elizabeth Taylor (1963). Pur in una ricostruzione storica non sempre attendibile, fra tradizione e tradimento, la diva di Hollywood ha così contribuito a rendere ancor più immortale l’eterno fascino dell’ultima regina dei Tolomei.

Giambattista Tiepolo, Il banchetto di Antonio e Cleopatra (1746-1747), Venezia, palazzo Labia.

Lawrence Alma-Tadema, L’incontro di Antonio e Cleopatra (1883)

Elizabeth Taylor in Cleopatra (1963), di Joseph L. Mankiewicz.

ART E DOSSIER N. 316
ART E DOSSIER N. 316
DICEMBRE 2014
In questo numero: CORPO E METAMORFOSI Da Cleopatra al Posthuman; La carne e il dolore; Da Carpaccio a Pirandello. IN MOSTRA: Memling, Dai samurai a Mazinga, Doni di nozze.Direttore: Philippe Daverio