L’antico mito della corsa sembra quasi un preludio all’istituzione dei giochi. Enomao, re di Pisa (antica città greca poi soppiantata appunto da Elide), aveva proclamato che avrebbe dato in sposa la figlia Ippodamia solo a un pretendente capace di batterlo nella corsa dei carri; Pelope lo sconfisse e uccise con la complicità dell’auriga Mirtilo, che sabotò le ruote del carro regale (strano, certo, che nella patria dello spirito olimpico tutto nasca con una gara truccata). La fase raffigurata è quella della presentazione a Zeus dei contendenti; sono visibili anche la fanciulla contesa, l’auriga traditore, le personificazioni dei fiumi Alfeo e Cladeo. Figure immobili ma cariche di tensione, in attesa che si scateni la gara fatale. Nell’altro frontone, invece, una lotta violenta è già in pieno svolgimento. Durante la festa che celebra le nozze di un’altra Ippodamia, figlia di Adrasto re di Argo, con Piritoo, re dei lapiti, i centauri tentano di strappare a questi ultimi le donne. I lapiti, con l’aiuto dell’eroe ateniese Teseo, reagiscono. La convulsione degli scontri è evidente, le figure si avvinghiano drammaticamente, ma non si perde una sorta di solenne compostezza, evidente soprattutto nella dominante figura centrale di Apollo, che sembra si accinga a mettere ordine (questa figura è quella in cui forse meglio si apprezza lo splendore del marmo: ed è strano pensare che, come quasi sempre nell’arte classica, in origine la scultura era colorata). La stessa impressione di forza sovrumana, esposta però in forma contenuta, caratterizza le metope dedicate a Eracle, come quella che raffigura l’episodio dei pomi delle Esperidi, in cui l’eroe sostiene, sostituendo momentaneamente Atlante, la volta celeste. Siamo nella fase iniziale del periodo classico, denominata convenzionalmente “arte severa”: sta per compiersi il lungo cammino dell’arte greca verso la resa perfetta (organicità, equilibrio delle proporzioni, disposizione nello spazio) della figura umana, vista quasi come rappresentazione simbolica dell’armonia dell’universo. Sarebbe stato significativo, in questo contesto, osservare la già ricordata, colossale statua “crisoelefantina” (cioè di oro e avorio) raffigurante Zeus: Fidia la eseguì in un secondo momento, intorno al 440, in una pausa dei suoi lavori ad Atene.
Per lui e per i suoi collaboratori fu allestita a ovest del tempio un’officina, di cui si sono rinvenuti cospicui resti. La statua era una delle sette meraviglie del mondo. Il dio era seduto su un trono di ebano ornato con figure eseguite con varie tecniche (a rilievo, a tutto tondo, a incrostazione); teneva una statua di Nike (Vittoria) nella mano destra, lo scettro nella sinistra. La grande opera, però, è perduta, e la conosciamo solo da riecheggiamenti in opere minori. Ma torniamo alle grandi sculture del periodo “severo”, e più recisamente a quelle che si trovavano in altri santuari. La più universalmente nota è l’Auriga di Delfi: qui i giochi facevano parte del complesso culto oracolare di Apollo. Come nel frontone est di Olimpia, siamo in una fase di stasi (resa evidente dalla pesante veste scandita da pieghe verticali) che precede il movimento. Efficacia nel rappresentare questa energia potenziale, ma anche altissima perizia nei dettagli: sui capelli disegnati quasi calligraficamente si posa una tenia (benda) decorata a meandri con incrostazioni di rame e argento; le ciglia sono di rame, gli occhi di pietra dura. La stessa perizia si dispiega nella naturalezza di esecuzione dei piedi: evidenti le vene e i tendini. Queste caratteristiche («rendere perfetta l’anatomia dei vasi sanguigni») sembrano corrispondere con quelle che Plinio il Vecchio attribuisce a un grande maestro, Pitagora di Samo, autore della raffigurazione di un auriga illustre, Polyzalos tiranno di Gela, vittorioso appunto a Delfi nella corsa dei carri nel 478 a.C. e forse nel 474. La celebre statua, dunque, dovrebbe essere opera di uno degli artisti più celebrati e raffigurare un eminente leader politico.
Viene da qualcuno attribuito a Pitagora, sia pure con dubbi, un altro celebre Auriga (ma in marmo) scoperto a Mozia, isola presso Trapani che si trovava sotto il controllo dei cartaginesi: furono forse loro a razziarlo da un santuario della Sicilia. Anche qui troviamo una lunga veste resa con una perizia ai limiti del virtuosismo: ma per la verità il ritmo delle pieghe non sembra paragonabile a quello del “collega” di Delfi. È stato autorevolmente proposto da Paolo Moreno (studioso di cui riparleremo) di vedere in questa statua una raffigurazione della divinità fenicia Melqart eseguita da un artista di formazione greca. Ancora in bronzo, invece, è realizzata una grande statua nuda (altezza circa due metri) trovata in mare presso il capo Artemisio: come i Bronzi di Riace, è priva di contesti, né si sa come, quando e perché stesse navigando da queste parti (predata, o acquistata, dai romani e affondata durante il viaggio?). È difficile inoltre dire se si tratti di un atleta che scaglia una lancia, di Poseidone che brandisce un tridente o di Zeus che lancia un fulmine: di sicuro si tratta di un altro capolavoro, attribuito (molto dubitativamente) ad Ageladas, notevole soprattutto per l’equilibrio che mantiene malgrado il movimento piuttosto vivace, le gambe divaricate, le braccia tese in due direzioni opposte. Non è da escludersi che fosse stato collocato proprio sull’Artemisio, parte di un donario (ex voto) panellenico offerto fra il 480 e il 470 dopo la vittoria sui persiani. Il naufragio della nave che probabilmente (come si è detto) trasportava questa statua in Italia avvenne nel 200 a.C. circa: i materiali datanti non sono però molti, poiché, poco dopo il ritrovamento (1926), le ricerche furono interrotte a causa della morte di uno dei partecipanti e mai più riprese. Notissimo scultore di età severa è anche Mirone, le cui opere sembrano concentrarsi soprattutto nel 460-440. Dèi, eroi, atleti sono i suoi temi preferiti: le sue statue erano presumibilmente in bronzo, ma ci sono pervenute solo copie in marmo di età romana. Molto originale era il gruppo di Atena e Marsia: la dea ha appena gettato il flauto, Marsia sta per coglierlo e per sfidarla in una gara che gli costerà non solo la sconfitta, ma una tremenda punizione da parte di Apollo (sarà scorticato). Si raffigura vivacemente, quindi, una sorta di attimo fuggente fra una fase e l’altra della drammatica vicenda.