XXI secolo. 2 
I fratelli de Santillana

il profumo
del vetro

I fratelli Laura e Alessandro de Santillana - protagonisti di una recente mostra veneziana - incrociano le loro vite ed esperienze creative con la magia dei vetri e dei vetrai di Murano. Una saga familiare all’insegna dell’eleganza e della padronanza della tecnica. 

Jean Blanchaert

«
Mi tolga le mani di dosso», direbbe il vetro - se potesse parlare - a molti designer zoticoni d’oggi che osano avvicinarglisi, dandogli del tu, per plasmarlo, cercando ridicolmente di aiutare il maestro vetraio e i suoi serventi. Sarebbe come salire sul podio per dare una mano a Riccardo Muti e agli orchestrali.
Bernasconi, leggendario chef del ristorante Tavola di Totone (oggi Seven) del Casinò di Campione d’Italia negli anni Sessanta, non ha mai toccato né un piatto, né un ingrediente. Dava ordini con bigliettini (pizzini) e occhiate. Non urlava, fulminava. In un’epoca nella quale, fortunatamente, non si parlava tutto il tempo di cibo, il grande cuoco, alla fine del lavoro, non doveva neppure lavarsi le mani.
Per creare un’opera in vetro, però, non bastano l’idea, il bozzetto del designer e la capacità tecnica del vetraio, è indispensabile anche una mediazione culturale, un ponte fra artista e artigiano che si chiama telepatia, una magia che non s’impara a scuola. Come Enzo Ferrari riconosceva il rombo di una sua automobile anche da molto lontano, così i fratelli Laura e Alessandro de Santillana riconoscono il profumo del vetro a distanza. Quando sono andati a Praga, per esempio, non hanno dovuto chiedere dove fossero le vetrerie, ci sono arrivati sentendone l’odore, quasi seguissero il suono di una musica, e per loro, nipoti di Paolo Venini e figli di Ludovico Diaz de Santillana, il vetro è anche musica, con un suo pentagramma ermetico che hanno appreso ancora prima delle lettere dell’alfabeto. La mostra I Santillana. Opere di Laura de Santillana e Alessandro Diaz de Santillana - concepita da Martin Bethenod, nell’ambito del programma espositivo Le stanze del vetro, progetto della Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung - si è tenuta sull’isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia, dal 6 aprile al 4 agosto 2014.
Vaso 1, vetro soffiato opalino bianco, e Vaso 2, vetro soffiato nero con fascia rossa, in mostra, sono stati entrambi disegnati da Alessandro Diaz de Santillana per Venini, nel 1969, quando l’autore aveva dieci anni. In musica, appunto, si direbbe “enfant prodige”. Laura e Alessandro sono cresciuti in fabbrica, a Murano. Per loro la scoperta della fornace non c’è stata, perché l’hanno vista da sempre, sin da piccolissimi. Incontrare Gio Ponti, Carlo Scarpa o Fulvio Bianconi era normale. Si sa che i figli delle pianiste nascono assordati dalle note; la pancia della madre, attaccata alla tastiera, li fa uscire con Chopin già memorizzato. Alcuni fra questi, come Alessandro appunto, cominceranno a comporre precocemente.
Anche i tre figli di Anna, figlia di Paolo Venini e moglie di Ludovico, sono nati con una sinfonia già conosciuta, la sinfonia Venini che Laura e Alessandro hanno fatto propria, mentre il fratello Paolo, ultimogenito, ha imboccato la strada del teatro.
Anna Venini Diaz de Santillana è stata da sempre la memoria storica della fabbrica, persino prima che la famiglia, dopo sessantacinque anni di gloria, nel 1986, fosse costretta a cederla a Raul Gardini.
Non è passato giorno senza che Anna Venini parlasse della vetreria, del coraggio artistico e imprenditoriale del padre Paolo - avvocato lombardo, che celebrò le nozze fra le nuove idee e le tecniche millenarie - e della generosità intelligente, poetica e sublime del suo consorte Ludovico, architetto cosmopolita che, oltre a continuare la collaborazione con gli artisti, portò l’illuminazione Venini in tutto il mondo. Avevano talmente tanti ordini che dovettero coinvolgere mezza Murano per poter rispettare le consegne.
Onnipresente, l’attrazione per l’elemento acquatico. Dice Alessandro Diaz de Santillana: «Sembrerà sciocco, ma per me l’ispirazione nasce sempre dopo il contatto con l’acqua». Il nonno di suo padre, l’insigne giurista e islamista ebreo David de Santillana, era di Tunisi, sul Mediterraneo. Un altro bisnonno, materno, Eugenio Gignous, valente pittore a cavallo fra Otto e Novecento, nell’ultima parte della sua vita dipinse prevalentemente il lago Maggiore, il mar Ligure di Varigotti e Venezia. Il nonno paterno, Giorgio de Santillana, celebre filosofo della scienza, professore al MIT, aveva di fronte all’oceano Atlantico e la baia di Boston. I nonni materni, Ginette Gignous e Paolo Venini, s’innamorarono della laguna e non la lasciarono più. Si erano conosciuti a Milano, alla Scala, negli anni Venti, quando la città era ancora bella grazie ai Navigli. Paolo Venini, come il suo vetro del resto, aveva già in sé molte proprietà “liquide”, essendo di Varenna, sul lago di Como. Un fascino al quale non si sono sottratti neppure Ludovico e Anna de Santillana e i figli Laura e Alessandro, che hanno scelto Venezia per vivere.
Racconta Laura de Santillana: «Dopo la vendita della Venini nel 1986 e la morte di nostro padre nel 1989, ci siamo sentiti tristissimi e spodestati, ma vedendo le cose oggi, a ventotto anni di distanza, mi rendo conto che ognuno di noi, senza la perdita della fabbrica, non avrebbe mai spiccato il volo e trovato la propria personalità artistica. Tra l’altro, l’eredità più importante che ho ricevuto è la biblioteca del nonno Giorgio de Santillana». Nella mostra veneziana comparivano trentasei vetri soffiati, sagomati e compressi, disposti ordinatamente come volumi negli scaffali di una libreria. Queste forme filosofiche, chiamate “libri” dalle maestranze della vetreria, stanno a Laura de Santillana come la bottiglia sta a Giorgio Morandi.
Sculture che non sono soltanto nipoti di suo nonno Giorgio, ma anche forme spirituali trasmesse quasi per via genetica dalla bisnonna Emilia de Santillana, una dei primi membri della Società teosofica - movimento sincretistico ed esoterico in voga tra fine Ottocento e primo Novecento -, come scoprì Laura durante un viaggio a Madras. Di fronte a quei vetri si possono immaginare i suoni della musica classica indiana e del sitar di Ravi Shankar. La musica raga della tradizione indiana consente una certa libertà espressiva ma entro certi limiti, che possono essere paragonati alle dimensioni delle forme di vetro create da Laura. Dimensioni che sono perimetri chiusi all’interno dei quali l’artista può fare ciò che vuole. Liberi sì, ma con disciplina, con lo stesso rigore metodologico che Laura aveva appreso anni prima collaborando a New York con l’architetto-designer Massimo Vignelli.
I “fradei”(fratelli), come li chiama l’ideatore della mostra Martin Bethenod, si sono sempre tenuti lontani dalle accademie, hanno studiato da soli le rotte della loro navigazione, ma per fare questo hanno dovuto studiare di più. In mostra, venti teste in vetro massiccio sagomato e iridato si lasciavano interpretare dal visitatore: possono essere teste viste da fuori oppure da dentro (cervelli), pietre preziose africane, animali molto antichi o molto moderni, spiriti buoni, forme che suggeriscono altri mondi, lumache dello spazio, illustrazioni tridimensionali sull’idea di fato, di destino tanto cara a Giorgio de Santillana. La bidimensione, però, non è gelosa, sa che Laura ogni volta che vorrà meditare tornerà da lei con sculture non replicabili, non migliorabili, siano esse soffiate da Simone Cenedese a Murano o da James Mongrain a Mukilteo, Seattle.
Questi pensieri di vetro sono una sorta di “Biblia pauperum” contemporanea, riassumono la vita e il viaggio culturale dell’autrice e ce lo propongono con un soffio luminoso che, se lo desideriamo, possiamo respirare. Si tratta di un percorso in levare al cui centro sta il materiale stesso, troppo bello per non essere insidioso. Sono le immagini di un viaggio di emancipazione il cui motto potrebbe essere: «Vetro, viviamo insieme, ma non mi avrai». In un altro ambiente della mostra, un’inconsapevole installazione darwiniana di Laura in giallo di Boemia illustrava la teoria evoluzionista e dialogava con gli specchi del fratello Alessandro Diaz de Santillana. In una sala non si poteva entrare senza occhiali da ghiacciaio, tale era la luce abbagliante, siderale, non da globo terracqueo che sprigionava da quei vetri soffiati e formati a caldo, specchiati su compensato.
Altrove, gli specchi di Alessandro sono scuri, ripiegati su se stessi. Non cercavano di rimandare immagini, né di proporre una figurazione che veniva però trovata da chi guardava. Sono “glass paintings”, reminiscenze delle lastre fotografiche bianche e nere superstiti dell’incendio Venini del 1972 e di antichi specchi a mercurio. Ineluttabile, viene a galla l’acqua della laguna. Questi lavori, nei quali si può indovinare un intervento pittorico, ci ricordano che anche Francis Bacon amava coprire le sue tele con vetri riflettenti per aumentarne la luminosità.
Alessandro, in un’intervista con Martin Bethenod, dice: «Per me la ricerca della figura è qualcosa che non esiste. Capita che qualcuno vedendo uno dei miei lavori dica: ah, ma è un’Annunciazione! Non do quasi mai titoli, non ne sono capace. Quando una delle mie opere ce l’ha è perché l’ha trovato qualcun altro o le è stato dato a posteriori».
Ho visitato quella mostra a cavallo tra luglio e agosto. A metà dell’estate. Non si trattava di una retrospettiva, ma di una mostra a metà carriera. “A mid career exhibition in a midsummer night dream”.



Le immagini che illustrano questo articolo si riferiscono alla mostra I Santillana citata nel testo. - Alessandro Diaz de Santillana per Venini (1969), vetro soffiato.

Alessandro Diaz de Santillana, C.DI.S. XIII (1993), vetro soffiato battuto.

Laura de Santillana, Testa (2013), vetro massiccio;

Alessandro Diaz de Santillana, 03 (2014), vetro soffiato e formato a caldo; patina; compensato marino e lacca nera.

Laura de Santillana, vetri soffiati, sagomati e compressi (1999-2011).

ART E DOSSIER N. 314
ART E DOSSIER N. 314
OTTOBRE 2014
In questo numero: CHIC! ARTE, STILE ED ELEGANZA Dai dandy del Cinquecento alla scultura dell'Illuminismo da Montesquiou a Iké Udé. IN MOSTRA: Horst, Arte islamica, Dossi.Direttore: Philippe Daverio