VITTORIO ED EMMA CORCOS
TRA CARDUCCI E PASCOLI

Nel 1913 - siamo nell’anno inquieto, alla vigilia della Grande guerra che avrebbe travolta l’epoca euforica della Belle époque


di cui era uno dei protagonisti - Vittorio Corcos consegnava alle Gallerie fiorentine l’Autoritratto che gli era stato chiesto dal potente Corrado Ricci allora direttore generale nel Ministero della pubblica istruzione. Aveva guidato gli Uffizi dal 1904 al 1908 e ora intendeva ampliare la collezione degli autoritratti. Questa decisione incontrò l’ostilità di Ugo Ojetti che non approvava l’invito rivolto in quella occasione appunto a Corcos e a Filadelfo Simi. Forse non era d’accordo per la presenza di quest’ultimo, dati invece i rapporti sempre molto cordiali intrattenuti con il primo. Ne aveva anche scritto con favore in diverse occasioni e lo aveva addirittura intervistato nel 1907 sull’“Illustrazione Italiana”. Era stato proprio Ojetti a notare come Corcos fosse stato solito trattare di sé e della propria opera con la discrezione con cui ora si era rappresentato al di là di ogni intento autocelebrativo.
Per questo dipinto, che considererà tra i suoi più riusciti, aveva preferito indossare il dimesso abito da lavoro, uno spolverino chiaro che diveniva invece oggetto di un brano efficace di pittura luminosa, fatta di veloci pennellate, stese di getto, in modo da creare un riuscito contrasto con il volto più definito, dallo sguardo concentrato, rivolto a quel pubblico di cui aveva sempre cercato il consenso. Il ritrattista di successo, impegnato dalle corti e conteso dalla mondanità più esclusiva, si presentava adesso, con ormai alle spalle una lunga e fortunata carriera, in un’immagine cordiale, quasi feriale dove appariva appagato nei suoi cinquantaquattro anni ben portati, con «i gran baffi bianchi» che «arricciati col ferro, erano diventati biondi pel gran fumare». Così lo ricorderà nelle sue popolari Cose viste (1934) proprio Ojetti, colpito dal «bell’uomo, lindo ed elegante, il volto ovale, il mento rotondo, la carnagione rosea, […] i capelli candidi, lisci e lucidi, la memoria sicura, le maniere squisite, senza pose d’artista, l’epigramma pronto quanto il complimento». La conclusione dell’affettuoso ritratto era che Corcos «era fatto, come la sua pittura, per piacere».
Il pittore livornese era apparso altrettanto olimpico, ma fermato in un’immagine più sfaccettata, nella penetrante e spiritosa “istantanea” che nel 1904 a firma «Kodak» gli aveva dedicato nel “Marzocco” - la prestigiosa rivista di cui lui stesso era stato collaboratore - il direttore e amico Angelo Orvieto. «Con la testa bianca», aveva scritto «un po’ inclinata da una parte, i baffi arditamente arricciati, atteggia la fisionomia ad un sorriso di soddisfazione, come se dinanzi ai suoi occhi carezzevoli passassero - lunga e leggiadra teoria - tutte le belle signore che egli ritrasse sulla tela. È il pittore delle eleganze femminili, com’è l’uomo di tutte le eleganze. Sulla sua bonarietà livornese il pariginismo ha disteso una vernice indelebile: una graziosa vernice di spirito e di scetticismo che è diventata una corazza impenetrabile. E non c’è siluro di critica o d’invidia che sia riuscito a intaccarla. Così più incanutisce, più si fa giovane. Da qualche anno è in continui viaggi fra Roma, Firenze, Venezia e Milano: da per tutto trova le belle donne che vogliono diventare bellissime e quelle altre che, più modeste per forza, si contentano di diventar belle. La sua tavolozza è una miniera di felicità per le leggiadre creature e una miniera non simbolica per lui. Ma come se non gli bastasse dipingere dalla mattina alla sera, scrive, fa bozzetti e conferenze. È un patriarca mondano. Patriarca per sentimento, mondano per professione. Nelle riunioni eleganti, nelle feste da ballo egli coglie e vigila i suoi soggetti sul campo della gloria. In famiglia, nella ristretta cerchia degli amici Vittorio Corcos rivela la sua indole e l’ossatura livornese si libera della corazza parigina».

Autoritratto (1913); Firenze, Uffizi.

Ritratto della moglie Emma (1889); Livorno, Museo civico Giovanni Fattori.

Il seminatore di Parc Monceau (1884).


Giovane donna a passeggio al Bois de Vincennes (1885-1886 circa).


La vergine moderna (1885 circa).

Il pittore affermato non si è rappresentato con in mano la tavolozza e i pennelli lasciati, invece, dentro un recipiente, davanti alla lampada a petrolio. Forse non è una scelta casuale e la si potrebbe commentare con una sua frase celebre, riportata nel 1894 dall’amico livornese Guido Menasci, fine letterato rimasto celebre come autore del libretto di Cavalleria rusticana di Mascagni, in un articolo che gli aveva dedicato nel “Fanfulla della Domenica”.«Se fra l’anima e la tela non ci fossero di mezzo quegli infami pennelli», aveva sospirato, a sostenere lui, artista spesso di straordinario, quasi eccessivo virtuosismo formale, l’inadeguatezza della tecnica rispetto alla complessità dell’ispirazione, del processo creativo. Come del resto si intravedeva nel citato “ritratto” di Orvieto, la sua era una personalità complessa e il suo successo, la sua qualità di ritrattista - ma non solo - capace di interpretare lo spirito di un’epoca, di catturare le luci e le inquietudini “fin de siècle”, si doveva non solo al mestiere, ma anche e soprattutto allabilità nelle relazioni sociali, che lo misero al centro della mondanità nazionale e internazionale; alla non trascurabile attività letteraria quale autore di racconti brevi - la raccolta intitolata Mademoiselle Leprince nel 1901 venne recensita favorevolmente da Enrico Corradini; a quella di giornalista, collaboratore di “Il Marzocco” portavoce a Firenze dell’estetismo dannunziano soprattutto negli anni in cui fu diretto dal fondatore, lo stesso Corradini, cui subentrerà nel 1900 Angelo Orvieto; e non da ultimo a quella di brillante conferenziere.
Nella riuscita di queste sue aspirazioni mondane e letterarie ebbe un ruolo fondamentale la moglie che un ritratto verso il 1889 ci consegna - era nata nel 1860 - ancora nel pieno della gioventù, della bellezza e di un’eleganza che appare innata. Eppure, quando Corcos l’aveva sposata nel 1886, dopo essere rientrato a Livorno dal lungo soggiorno parigino iniziato nel 1879 o nel 1880, Emma Ciabatti era una vedova con già tre figli e altrettanti ne avrà dal secondo matrimonio. Un po’ come Leontine de Nittis, sarà un’abile conduttrice del salotto della bella casa di via Marsilio Ficino a Firenze, ma saprà anche gestire la numerosa famiglia, riuscendo addirittura a ritagliare del tempo da dedicare alla passione letteraria e a una eletta corrispondenza che la vide addirittura in fitto colloquio, dal 1897, con il prediletto Pascoli. Il poeta ammirava la «signora», scrisse, «di tanto spirito, di tanta finezza, di tanta profondità, di tanta cultura». Le dedicò una delle sue liriche più popolari, L’ora di Barga, rivolgendosi all’amica in questi termini: «E pensi a me, ascoltando il suono de L’ora di Barga, pensi a me la Donna Gentile Emma Corcos, la quale, forse consente con me che la poesia è contemplazione». E si mise anche lei a comporre, a orecchio, nei ritagli di tempo (quando «dormono tutti in casa», confessò, «scrivo di notte, perché di giorno non ho tempo»), chiedendo poi il loro parere agli amici intellettuali che frequentavano la casa, personaggi come Enrico Nencioni, Carducci, D’Annunzio, Renato Fucini, Enrico Panzacchi, i citati Corradini e Orvieto, Pirandello e tanti altri.

Visita al convento (1887).


Signora con ombrellino (1884-1887 circa).

CORCOS
CORCOS
Fernando Mazzocca
Un dossier dedicato al pittore Vittorio Matteo Corcos (Livorno, 4 ottobre 1859 - Firenze, 8 novembre 1933). In sommario: Vittorio ed Emma Corcos tra Carducci e Pascoli; La formazione e i primi successi: Firenze, Napoli e Parigi; A Firenze: l'affermazione di un grande ritrattista; I ritratti di corte e gli idoli della mondanità. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.