a firenze: l'affermazione
di un grande ritrattista

Il ritorno a Livorno nel 1886, per il servizio militare, e il matrimonio con Emma, con la quale si trasferiva a Firenze, destinata a diventare la sua città di residenza,

non interrompevano i suoi contatti con l’estero, come quando, infatti, già nel 1887, si recava a Edimburgo con la moglie. Occasione di nuovi incontri e di stimolanti esperienze, di cui scriveva all’amico Signorini: «Per mezzo di Ly Mackay che fu il primo a venirmi a trovare, visitai moltissimi studi, fra i quali quelli dell’Hardie, giovine pieno di talento, del Gibb, illustratore perenne degli Highlanders, e del Lockart che ho trovato di una cortesia unica e di un talento rimarchevolissimo». Ma incontrò anche nuovi collezionisti, come informava il critico Yorick: «Fra pochi giorni spero aver finito i lavori che questi buoni scozzesi hanno avuto la semplicità o l’accortezza di confidarmi […] Parlando sul serio ti dirò che ho conosciuto una quantità d’artisti dei quali nojaltri italiani non ci sogniamo neppure l’esistenza, taluni dei quali con un talento personale straordinario».
I riflessi di questa curiosità li ritroviamo in opere di incantevole vivacità narrativa e formale come La visita e Leggendo il “Fanfulla”, cioè il popolare periodico “Fanfulla della Domenica” (1879-1919) fondato da Ferdinando Martini e diretto anche dall’amico Enrico Nencioni, dove comparvero come sul “Capitan Fracassa” le appassionanti cronache mondane di D’Annunzio. Vi si potevano ritrovare figure di donna rese con una tale forza evocativa da suggestionare la ritrattistica contemporanea. Anche Corcos - lo si è già ricordato - veniva identificato come il “peintre des jolies femmes”, secondo la fortunata espressione coniata per lui da De Blowitz corrispondente a Parigi del “Times”, l’interprete delle inafferrabili «creature che hanno in sé qualcosa del fantasma e del fiore», come si espresse, sottolineandone il fascino misterioso, Guido Menasci.
Intanto a Firenze aveva trovato una buona sponda nel gallerista Luigi Pisani che si può considerare per tanti versi l’equivalente italiano di Goupil, preso da lui a modello. Ritratti come quello della Contessa Frankestein Soderini nel 1889 e della Signora in nero del 1890, a figura intera ma di piccolo formato, appaiono caratterizzati dalla stessa ambientazione seducente, sulla riva del mare, dall’atmosfera ammaliante e da quel gusto del dettaglio che erano stati collaudati nelle scene galanti prodotte da Corcos per il mercante francese. Questo compiacimento descrittivo esce fuori dalle convenzioni di un repertorio che rischia la serialità, nell’estro evocativo di un dipinto che rimanda agli incanti del Grand Tour. In Visita al museo una dama elegantissima, seduta di profilo, appare assorta nella contemplazione delle antichità immerse in una magica luce dorata del Museo archeologico nazionale di Napoli. Appare la compagna di colei che se ne sta seduta nell’Interno della Cappella sistina (Parigi, Musée d’Orsay) realizzato verso il 1877 da Bonnat o delle due signore che, in Le mummie del 1875 (Napoli, Gallerie d’Italia - palazzo Zevallos Stigliano) dell’allievo di Morelli, Paolo Vetri, si fermano soggiogate dal fascino misterioso dei reperti egizi dello stesso museo.
A Firenze le relazioni intellettuali intessute dal pittore si riflettevano in una serie di strepitosi ritratti maschili, realizzati uno dietro l’altro. Il primo di questi protagonisti messi a fuoco in maniera straordinaria dal suo pennello è nel 1889 il vecchio Silvestro Lega fermato di profilo, mentre camminava, con la testa china, il cappello ben calcato sulla fronte, il bavero del grande cappotto marrone alzato e abbottonato per il gran freddo. Era un omaggio senza retorica al vecchio ribelle macchiaiolo ormai solo e ridotto in miseria, ma i cui quadri continuavano ad apparirgli «esempi meravigliosi di semplicità». Nel 1926, commemorandolo su “Il Marzocco” in occasione del centenario della nascita, ricorderà di averlo rappresentato dimesso, ma fiero, quando «qualche cosa conservava ancora di quella ricercatezza di un tempo».


Leggendo il “Fanfulla” (1887-1890 circa).

Visita al museo (1890-1895 circa). Questo dipinto, che è un omaggio allo spirito del Grand Tour, rappresenta la VII sala del Museo archeologico nazionale di Napoli dove una dama elegante è seduta in assorta contemplazione dei marmi antichi bagnati da una luce dorata. Si scorgono al centro una grande base scolpita dell’età di Tiberio, mentre in corrispondenza del profilo della donna appare un rilievo celebre, copia romana di un originale attico, con il commiato tra Orfeo ed Euridice. Corcos dimostra una straordinaria capacità di rendere l’atmosfera di un luogo dove il tempo appare come sospeso in un alone di mistero.

La contessa Frankestein Soderini (1889).


Signora in nero (1890).


Giosuè Carducci (1892); Bologna, Casa Carducci.

Giosuè Carducci (1892); Bologna, Università.

Ma dove Corcos superava davvero se stesso, in uno dei più clamorosi ritratti dell’Ottocento, era nella impressionante istantanea in cui aveva fermato un grande amico livornese, il feroce giornalista, un vero mastino che infliggeva i suoi colpi sotto lo pseudonimo di «Yorick figlio di Yorick». Della implacabile ironia di Pietro Coccoluto Ferrigni avevano fatto le spese soprattutto i poveri macchiaioli, come quando aveva osato definire il solare capolavoro di Signorini, quel Pascoli a Castiglioncello che nel 1861 appariva quasi un manifesto della Macchia, una «frittata piena di vacche in gelatina». Del suo sarcasmo dava prova anche in questo caso. Compose lui stesso i versi trascritti dal pittore al centro verso destra nel muro giallo che fa da sfondo alla figura: «Se l’uomo qui dipinto al naturale / Non è giovin grazioso ed alto e snello / Se ne accusi il pennello / Non ci ha colpa, per Dio, l’originale». In geniale contrappunto compaiono dall’altra parte del muro, a sinistra, una serie di sgorbi infantili con sotto una firma che è quella della figliastra dell’artista, Ada, come se il patrigno le avesse permesso di intervenire nel suo lavoro. Questo dettaglio ci colpisce perché è un omaggio alla creatività infantile che sembra anticipare i disegni di Vamba, il grande Luigi Bertelli fondatore nel 1906 di “Il Giornalino della Domenica” e autore del popolarissimo Giornalino di Gian Burrasca. Rimane l’impressionante sagoma quasi ritagliata di Yorick che come in sovraimpressione, assorto e con la sigaretta accesa in mano - si intravede anche il fil di fumo - sembra voler uscire dal quadro, come se questo non riuscisse più a contenerne la mole. Rappresentando l’amico pittore Francesco Gioli - che col fratello Luigi aveva lo studio al piano terra del villino di via Marsilio Ficino 8 dove al primo piano si trovava quello di Corcos - mentre osservava questo ritratto, aveva forse inteso rendere omaggio a questo suo capolavoro. Boldini aveva fatto la stessa cosa con il proprio Pastello bianco.
Seguivano nel 1892 i due ritratti di Carducci, ripreso seduto con i fogli in mano durante una conferenza. L’impostazione dei due dipinti è simile, cambiano invece la posa, gli oggetti e la loro disposizione. La moglie Emma, ricordandoli nel 1907 in un articolo, Il Carducci in posa, pubblicato nel “Giornalino della Domenica”, noterà come nell’uno «il Poeta somiglia, ma è colto in un momento di tutta calma che non rivela il suo carattere», mentre nell’altro, quello conservato in Casa Carducci a Bologna, «c’è il Poeta che afferma, che vuole, che impone». L’arrivo di Carducci nell’atelier fiorentino di Corcos fu un vero evento cui presero parte Telemaco Signorini, Enrico Nencioni e il poeta, prosatore e critico Enrico Panzacchi, per lungo tempo segretario e docente di storia e critica d’arte, poi direttore e presidente dell’Accademia di belle arti di Bologna e infine professore di estetica e storia dell’arte moderna nell’Ateneo bolognese. Sarà lui stesso, due anni dopo, a essere a sua volta ritratto, con una soluzione più originale - che ricorda in qualche misura il precedente di Yorick -, in piedi con il pastrano sottobraccio e il cappello in mano. Questo, rovesciato, avanza in primo piano con un’evidenza che ne fa il perno compositivo di un’immagine caratterizzata da un pungente realismo come fotografico. La dedica che precede la firma, «Al mio buon Panzacchi», rivela una consuetudine affettuosa; mentre le due incisioni appese in alto sulla parete, di cui compare solo la parte finale con le scritte «Mars et Venus» e «La rose defendue », sembrano un omaggio al Settecento rococò tra Watteau e Greuze o al neoclassicismo più estenuato tra la Vigée-Lebrun e Gérard, un gusto riproposto dagli scritti dei Goncourt del quale Corcos appare un raffinato interprete.
Sono proprio queste atmosfere, sensuali e raffinate, a emergere, cambiando completamente registro rispetto ai dipinti precedenti, in una fortunata produzione di figure che non sono ritratti, ma piuttosto immagini emblematiche della frivola femminilità “fin de siècle”, come La colomba del 1890. Le seduzioni di questa pittura vaporosa, che conserva i riflessi e le delicatezze del pastello, devono molto alla riconsiderazione della ritrattistica, anch’essa oggetto di revival, del Settecento inglese tra Gainsborough e Lawrence. Il suo ritrovato incanto seduceva negli stessi anni anche Boldini e Sargent. Del resto Corcos continuava a guardare le cose dall’osservatorio parigino dove lo ritroviamo, con lunghi soggiorni, anche dopo il ritorno in Italia. Riusciva così ad aggiornarsi, frequentando le esposizioni e riferendone sulla stampa italiana, come quando nel maggio del 1896 sul “Fanfulla della Domenica” osservava: «Ai Campi Elisi emerge la maniera classica, non già fossilizzata da vecchie teorie o esageratamente accademia; è un classicismo, dirò così fin de siècle, dove il moderno indirizzo si va bensì manifestando, ma con una specie di rispettoso riguardo verso la tradizione. Il Campo di Marte invece è un vero campo aperto ad ogni scuola» dove «vediamo accanto ai più accentuati simbolisti, largamente trionfare la pleiade degli impressionisti, dei luministi, dei vibristi».


Francesco Gioli che guarda il Ritratto di Yorick (1889).

Silvestro Lega (1889); Milano, Civica Galleria d’arte moderna.

Le istitutrici ai Campi elisi (1892); Carpi (Modena), collezione palazzo Foresti. Questa straordinaria istantanea di vita moderna, firmata «Paris 1892», conferma che Corcos, anche dopo il definitivo ritorno in Italia nel 1886, continuò a frequentare la capitale francese per aggiornarsi, visitando le mostre e facendo nuovi incontri, e per prendere nuovi spunti per i suoi quadri. Qui si confrontava nuovamente con la pittura “en plein air” di De Nittis e degli impressionisti, escogitando soluzioni originali e di grande effetto come nella visione dall’alto che proietta le figure sul suolo del celebre parco ricoperto dalle foglie morte e con le sedie ormai vuote nella malinconica giornata autunnale, quando fioriscono i crisantemi collocati in primo piano.


Pagliaccio (1885-1890 circa).


Ritratto di bambino nel costume di Pierrot (1897).

Sempre a Parigi dipingeva opere singolari come il Pagliaccio, un tema alla Tissot o anche alla Toulouse-Lautrec reso con uno stile sperimentale che ricorda il linguaggio aggressivo e concitato dei manifesti pubblicitari, che lui stesso aveva ideato, e poi ripreso nel magnifico Ritratto di bambino nel costume di Pierrot. Il mito di Pierrot, o Gilles, il “pagliaccio triste”, iniziato nella malinconia di Watteau e finito nello strazio di Gérôme (il popolarissimo Duello dopo il ballo mascherato del 1857-1859), veniva riproposto adesso in una dimensione struggente, quella dei Pagliacci di Leoncavallo, rappresentati per la prima volta al teatro Dal Verme a Milano nel 1892. Lì il protagonista Canio indossa proprio il costume bianco di Pierrot, reso ora da Corcos con una evidenza ottica stupefacente. Mentre la smorfia appena dolorosa del bambino è qualcosa che tocca il cuore, per sempre. Firmato “Parigi 1892”, Le istitutrici ai Campi elisi è un capolavoro emblematico. Strano che questo dipinto sia stato usato come testimonial della recente rassegna di Rovigo e Bordeaux dedicata a La Maison Goupil. In realtà Corcos si ricollegava alla fase più libera e sperimentale del suo primo lungo soggiorno parigino, quando si era confrontato con De Nittis e in certa misura sembrava avere guardato anche agli impressionisti. In questa incantevole istantanea di vita moderna non c’è nulla della meticolosa leziosaggine e dell’insistenza aneddotica delle scenette di genere, che pur avevano fatto la fortuna sua come quella di tanti altri sostenuti dall’abile mercante. Con un taglio compositivo superbo le tre figure risultano come riprese dall’alto. Di solo una di esse appare il volto, assorto con le palpebre abbassate, e si staglia al centro del quadro. L’altra donna, anche lei vestita di scuro, occupa di spalle il primo piano a destra. Un poco più avanzata a sinistra entra prepotentemente nel campo visivo la bambina inginocchiata, nascosta sotto la grande cuffia che è una vera esplosione di bianco e di luce in contrasto con gli abiti delle due istitutrici. Le protagoniste di questo colloquio silenzioso e come sospeso si accampano sullo sfondo che è poi il suolo del parco disseminato di foglie morte nella malinconica luce dell’autunno. Mentre le eleganti sedie dorate compongono un’inedita natura morta moderna.
Contemporaneamente Corcos raggiungeva risultati altrettanto alti - sicuramente i vertici del suo percorso creativo - nel ritratto, destinato a diventare un’occupazione quasi esclusiva. È del 1891 quello di Pietro Mascagni, rappresentato a ventotto anni, reduce dal trionfo ottenuto al teatro Costanzi di Roma con il suo capolavoro Cavalleria rusticana. L’originalità di questo dipinto veniva spiegata dal suo autore in una lettera a Enrico Nencioni, del dicembre dello stesso anno.

Enrico Panzacchi (1894); Bologna, Accademia di belle arti.


La colomba (1890).


Pietro Mascagni (1891).

Questo passaggio ci appare come una straordinaria dichiarazione di poetica: «Dato il modo di fare spigliato», scriveva, «e libero di lui, non potevo raffigurarlo in una posa rigida né tampoco severa, ecco perché l’ho posto a cavalcione di una fumeuse. E per far sì che su tutto l’individuo ed intorno al medesimo spirasse una certa tal quale aria di misteriosa poesia, ho scelto l’ambiente della penombra assoluta, lasciando solo le mani delicate ma virili, in pienissima luce. Il ritratto in queste condizioni poteva forse riescire ordinario, anche perché l’abito che indossa di consueto il Maestro può sembrare un po’ rozzo, se non avessi pensato ad attirare l’attenzione del pubblico su certi dettagli che particolarmente studiati fanno capire che siamo davanti ad un uomo elegante nel vestire e che ha cura della persona. Infatti il fiore all’occhiello, secondo la moda inglese, e le mani, e i piedi calzati in scarpe di pelle lucida più eseguiti che il resto della figura, credo rendano abbastanza questa mia intenzione. In quanto poi alla fattura generale del quadro, porta (o dovrebbe portare) l’impronta di una pittura fin de siècle. Nessuna preoccupazione di speciale maniera nell’eseguirlo, disprezzo di chic nella pennellata, una trascuratezza voluta in certe parti poste a contatto di certe altre eseguitissime; così l’occhio destro che sembra fatto a miniatura tanto che è lavorato, mentre il sinistro è ottenuto con due o tre pennellate. Da questa studiata diversità di tecnica apparisce l’aria di vero sorpreso su tutto il lavoro, e mi pare sia perciò ottenuta la mobilità del modello che per sua natura fantastica è molto più mobile di molti altri individui. A destra del quadro vi è dipinta una poltrona su cui sta buttato il pardessus, cappello e bastone del Maestro. Ebbene, questa roba che è necessariamente immobilissima è trattata a contorni duri e marcati, mentre tutta la figura del Maestro ha i contorni più perduti ed in parte perdentesi nel fondo». Queste caratteristiche, dalla posa poco convenzionale al diverso trattamento dei particolari, ritornano in Sogni che, esposto con grande successo di pubblico e di critica all’importante mostra allestita a Firenze nel 1896 in occasione della Festa dell’arte e dei fiori, finirà con il perseguitare con la sua inossidabile popolarità, favorita anche dal suo acquisto per la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, lo stesso autore. Questo dipinto “modernissimo” rimane tra le immagini più emblematiche della donna emancipata, protagonista della Belle époque, quale era apparsa anche nei racconti dello stesso Corcos. Ma è pure il ritratto reale di una giovane donna di ventitré anni, Elena Vecchi, la secondogenita dell’amico scrittore Jack La Bolina, rimasta orfana della contessa Honorine Tesauro di Meano. La figlia maggiore, Lucia, come si è già detto, era stata ritratta nel 1888. Con un’audacia mai vista lo “sguardo sicuro e consapevole” è puntato sullo spettatore. Alla posizione sconveniente delle gambe accavallate fa come da contrappeso l’attitudine più nobile del braccio che regge il mento, derivata dall’iconografia della musa Polimnia. Ma vi sono dei precedenti più vicini. Se la posa della mano al mento era presente nella Giovane donna in barca del 1870 di Tissot, i due gesti insieme li ritroviamo in Canzoni di primavera del 1889 di Bouguereau e nell’Aracne del 1893 di Carlo Stratta (Torino, Civica Galleria d’arte moderna), immagine altrettanto icastica nel rievocare le atmosfere “fin de siècle”.


Sogni (1896); Roma, Galleria nazionale d'arte moderna. Presentato alla mostra organizzata nel 1896 a Firenze per la Festa dell'arte e dei fiori e acquistato dallo Stato per la Galleria nazionale, questo dipinto, accolto con grande favore ma anche molto discusso dalla critica e dal pubblico, è diventata l'opera più famosa di Corcos e una delle rappresentazioni più emblematiche di una nuova femminilità inquieta, moderna, emancipata. L'originalità di questo ritratto fuori genere sta nella disinvoltura della posa, con le gambe accavallate, al tempo giudicata sconveniente per una donna, nell'intensità del gesto di sostenere con la mano il volto, nello sguardo che cattura lo spettatore coinvolgendolo nel mistero di questa giovane e inquieta lettrice che non si sa bene cosa stia pensando, cosa stia sognando.


Le due colombe (1897).


Le tre sorelle (1899).


Nerone ferito (1899).

Il volto intenso di questa signorina così sicura di sé appare caratterizzato dagli occhi segnati, affaticati dalla lunga lettura e ora concentrati nello sguardo perduto e lontano; dalle labbra volitive accese dalrossetto; dalla chioma spettinata, dopo che si è tolta la paglietta. Questa giace sulla panchina, accanto all’ombrellino chiuso e ai libri sgualciti dalla copertina gialla, i romanzi sentimentali editi da Flammarion (o da Treves) che ritorneranno, protagonisti, anche nel Pomeriggio in terrazza e in Lettura sul mare del 1910. I dettagli aiutano a raccontare la storia e allora non dobbiamo trascurare il valore simbolico della rosa disfatta i cui petali sono caduti a terra.

Sogni è un titolo evocativo che rimanda al mistero racchiuso in quello sguardo, su cui si accanirono pubblico e critica. Vittorio Pica trovava nell’«atteggiamento della fanciulla fin-de-siècle» e nel «suo volto voluttuoso dalle carnose labbra porporine» una «non comune efficacia espressiva, che vi obbliga ad arrestarvi dinanzi ad essa ed a cercare d’indovinare i caldi desideri ed i torbidi pensieri, che par quasi luccichino in fondo alle sue grandi pupille sognatrici». Anche Ojetti avrebbe voluto penetrare il segreto di quell’anima, se riposto nel dolore per un «amore morto» o nel fremito per un «amore nascente».
Guido Menasci, il quale sottolineava «gli occhi, i libri, la posa: ecco tutto il quadro», era convinto che se Paul Bourget e Marcel Prévost, i campioni del romanzo psicologico, fossero stati pittori, avrebbero realizzato un dipinto come questo. Corcos doveva essere d’accordo, se in una lettera da Parigi a Guido Biagi, proprio del 14 maggio 1896, aveva scritto che Prévost gli era «corso incontro come ad una vecchia conoscenza, lamentandosi» che fossi «divenuto così avaro delle cose mie giacché da gran tempo nessuna delle mie demi vierges è comparsa riprodotta sui giornali illustrati. Chiamare demi vierges le mie mezze figure non mi par trovato male, ed in bocca di Prevost la cosa non manca di originalità». Il termine corrispondeva al titolo di un suo romanzo del 1894 (Les demi-vierges, appunto), dove lo scrittore francese sosteneva che «innocente o perversa, riservata o provocante, la fanciulla, soprattutto per chi l’ama è una sfinge». Convinto che «in un ritratto quel che conta sono gli occhi; se quelli riescono come vogliono, con l’espressione giusta, il resto viene da sé», Corcos aveva cercato nello sguardo della protagonista di Sogni nuove suggestioni verso quell’inespresso che andava caratterizzando il nuovo clima simbolista cui il dipinto si avvicina. Vi si riferiva probabilmente Biagi, recensendo la mostra fiorentina dove appariva ormai come l’arte dovesse parlare «all’anima, al cuore», nell’esigenza che la «sensazione estetica risvegli il sentimento, l’idea: l’arte vuol essere umana e deve aver pur essa un contenuto ideale. I pittori di anime fan dimenticare i pittori di cavoli, dacché l’arte non deve consister soltanto nella fedele riproduzione del vero, e la fotografia colorita non sarà mai pittura». Suonava allora il “de profundis” per quel naturalismo così vivo nella Toscana della seconda metà del secolo cui aveva pagato il suo tributo lo stesso Corcos nei dipinti di soggetto contadino, come Stella e Piero (1899), La convalescente (1891), A spasso, ispirati alle popolari Veglie di Neri dell’amico Renato Fucini.
Diventerà sempre più il pittore delle anime e degli sguardi, come in un altro ritratto, questa volta idealizzato, della Vecchi intitolato Le due colombe (1897) per il confronto tra la colomba vera in volo e la fanciulla ora celestiale che, diventata simbolo di purezza, se ne sta seduta tutta vestita di bianco sotto la Fonte del leone che si trova sulla facciata di palazzo Pitti. Quasi esclusivamente giocato sul rapporto tra i bianchi è Le tre sorelle del 1899, una variazione sul tema delle Grazie dove il ritmo lineare basato sulla iterazione di una stessa figura, colta di fronte, di profilo e di tre quarti, assume una cadenza ormai liberty.
Un gusto più aneddotico, quasi un ritorno ai quadri alla Goupil, caratterizza la grazia intrigante di Nerone ferito del 1899, che ci ricorda le adolescenti inquiete di Bouguereau, e l’erotismo di La morfinomane che è stato accostato a quello delle Femmes damnées di Baudelaire. Un gusto romanzesco, dannunziano, pervade La Maddalena dove una giovane dai capelli rossi, vestita a lutto che stringe nella mano guantata un fascio di crisantemi, è messa in posa nell’atelier dell’amico scultore Attilio Formilli con le pareti tutte schizzate di gesso davanti al monumentale Crocifisso, opera dello stesso Formilli. Si trattava di un’opera discussa, esposta, come Sogni, alla mostra fiorentina del 1896. Il dipinto di Corcos intendeva essere la trascrizione moderna e un po’ provocatoria della tradizionale iconografia della Maddalena ai piedi della croce. Questo vale anche per l’Annunciazione del 1904 per cui aveva fatto posare la figlia Maria Luisa. Abbandonata in una posa languida e con un ginocchio disinvoltamente sollevato, la singolare Vergine se ne sta in attesa dell’angelo che compare appena sul fondo contro la quinta luminosa del pergolato inquadrato dall’arco del portico in primo piano. Il motivo “en plein air” dovrebbe essere stato ripreso dalla Madonna della pergola di Dagnan Bouveret di cui aveva parlato in un articolo pubblicato nel 1896 sul “Fanfulla della Domenica”. L’opera risente anche delle suggestioni di Alma Tadema, molto noto in Italia grazie alla formidabile promozione da parte di Gabriele d’Annunzio che lo aveva citato continuamente nelle sue cronache d’arte, nelle liriche e nei romanzi. Richiami che ritornano, insieme a quelli a Leighton, in La vestale la cui diafana figura emerge in tutta la sua raffinata luminosità dal fondo scuro.

L’Annunciazione (1904); Fiesole (Firenze), convento di San Francesco.


La vestale (1895-1900 circa).

CORCOS
CORCOS
Fernando Mazzocca
Un dossier dedicato al pittore Vittorio Matteo Corcos (Livorno, 4 ottobre 1859 - Firenze, 8 novembre 1933). In sommario: Vittorio ed Emma Corcos tra Carducci e Pascoli; La formazione e i primi successi: Firenze, Napoli e Parigi; A Firenze: l'affermazione di un grande ritrattista; I ritratti di corte e gli idoli della mondanità. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.