LE ORIGINI

“Brut” come lo champagne, cioè senza aggiunta di zucchero.“Brut” significa grezzo ma anche “puro”, indenne da influenze e additivi, non addolcito per mimetizzarsi e compiacere il gusto.

Nel caso dell’arte si riferisce a creazioni spontanee e non acculturate ma di grande originalità, prodotte fuori dal sistema ufficiale degli artisti di professione, delle mostre, delle gallerie e dei musei. Il progressivo riconoscimento estetico di queste opere anarchiche e irregolari è strettamente intrecciato con la storia dell’arte del XX secolo, che ha progressivamente spostato i confini e destabilizzato la visione, implicando una trasformazione dello sguardo che ai canoni classici preferisce la “forma perturbante“.
A inventare nel 1945 la dirompente nozione di Art Brut, in polemica con la cultura artistica ufficiale, è un artista francese, non a caso anche commerciante di vini: Jean Dubuffet, al termine di un celebre viaggio “iniziatico” in Svizzera, in compagnia di Le Corbusier e dello scrittore Jean Paulhan, alla ricerca dei “primitivi del XX secolo”, le cui opere scopre all’interno degli ospedali psichiatrici e, in seguito, nelle prigioni o nelle campagne più isolate. In comune con altri grandi artisti dell’età contemporanea, Dubuffet ebbe un atteggiamento di sfida verso l’eredità illuminista, amplificato dalla necessità di ripartire da zero dopo la catastrofe bellica. E, nel solco delle esplorazioni esotiche e africane che, da Gauguin alle avanguardie storiche, avevano rinnovato i linguaggi artistici dell’Occidente, decise di indagare se anche nei margini della società europea si celassero dei “valori selvaggi”, persuaso che solo l’innocenza del gesto artistico, sovvertendo i canoni, potesse restituire verità all’arte.


Séraphine de Senlis (Séraphine Louis), Bouquet (1927-1928 circa); Bönnigheim (Germania), Sammlung Zander.


Jean Dubuffet fotografato a Parigi nel 1943.

Un’attitudine romantica di cui si può rintracciare la radice nel contesto storico e culturale francese: già dal XIX secolo negli ambienti letterari, prima ancora che artistici, si diffondono l’interesse per l’eccentrico e la moda dell’esotismo geografico o temporale, a cui segue presto l’esotismo dell’interiorità (infanzia o follia). Con il positivismo si avvia anche l’interesse scientifico per le produzioni degli alienati mentali: inizialmente solo da un punto di vista psichiatrico o antropologico, che in seguito, all’inizio del XX secolo, con i progressi della psicologia, la nascita della psicoanalisi e il terremoto artistico delle avanguardie, andrà maturando in un riconoscimento estetico.
Nel frattempo la Parigi dei pittori si lascia sorprendere dal fenomeno dell’autodidatta Henri Rousseau (1844-1910), che affascina poeti, critici e artisti. Paradigmatico è il caso di di Séraphine de Senlis (1864-1942), che fa parte con Rousseau della scuderia di artisti naïf promossi con successo dal critico Wilhelm Uhde, il quale ha scoperto per caso nell’oscura e ruvida figura della sua domestica un’imprevedibile pittrice spontanea e la sua fiammeggiante botanica dell’anima. Un’opera visionaria e inclassificabile, in realtà molto lontana dalle vedute idilliache e moderatamente realiste dell’universo naïf. Solitudine, clandestinità, ignoranza, misticismo, e infine la follia sopraggiunta negli ultimi anni, fanno della storia di Séraphine, che dipinge la notte parlando con gli angeli, un modello anticipatore delle tante artiste protagoniste, spesso inconsapevoli, dell’Art Brut.
Altro paradigma della creazione imprevedibile, vulcanica ed eroica è il Palais Idéal a Hauterives edificato in trentatre anni di lavoro notturno, tra il 1879 e il 1912, da un solitario postino di provincia, Ferdinand Cheval: incantata e babelica, la costruzione mescola fantasie architetturali di tutto il mondo, dal tempio indù allo chalet svizzero, a un eccentrico bestiario.
La diffusione della sua immagine nelle cartoline d’epoca testimonia, se non altro, la curiosità verso questa grandiosa bizzarria individuale, che negli anni Trenta ammalierà i surrealisti. Con il tempo la sua opera sincretista sarà considerata un capolavoro di architettura spontanea, nel 1969 viene iscritta nel registro dei monumenti storici di Francia e sottoposta a tutela, oggi è un’attrazione turistica che porta circa centocinquantamila visitatori all’anno a Hauterives.
Inoltre, un fattore culturale di cui tener conto è il grande interesse, anche scientifico, per lo spiritismo e i fenomeni medianici che comprendono il disegno.
Diffuso soprattutto in Francia tra il XIX e gli inizi del XX secolo, ha un carattere socialmente trasversale, coinvolgendo sia il ceto intellettuale, come Victor Hugo, sia le classi più popolari, operaie e rurali.
Tutte pratiche, la trance e la scrittura automatica, che poi il surrealismo esalterà prendendole a modello, insieme alla “follia creatrice”, nel suo famoso Manifesto del 1924. Né saranno poche le opere create apparentemente in stato medianico che entreranno a far parte della storica collezione di Dubuffet, come esempi di Art Brut.
Il primo caso di medium-pittore scoperto sia dall’artista francese che dai surrealisti, è Fleury-Joseph Crépin (1875-1948), operaio zincatore in un paese di provincia dove era noto anche come guaritore con l’imposizione delle mani, che dal 1938 inizia a eseguire piccoli disegni automatici non convenzionali, che poi, obbedendo a una misteriosa volontà a lui estranea, traduce in una serie di dipinti ad olio: sono templi di sapore orientale, scranni e baldacchini, simmetrici e molto decorati anche con un ritmo di piccole perle colorate in rilievo. «Sorgono in uno spazio dove ciò che si presume sia “dietro” comunica, al punto da fare una cosa sola, con ciò che si presume sia “davanti”, come ciò che si presume “sopra” con ciò che affascina poeti, critici e artisti. Paradigmatico è il caso di di Séraphine de Senlis (1864-1942), che fa parte con Rousseau della scuderia di artisti naïf promossi con successo dal critico Wilhelm Uhde, il quale ha scoperto per caso nell’oscura e ruvida figura della sua domestica un’imprevedibile pittrice spontanea e la sua fiammeggiante botanica dell’anima. Un’opera visionaria e inclassificabile, in realtà molto lontana dalle vedute idilliache e moderatamente realiste dell’universo naïf. Solitudine, clandestinità, ignoranza, misticismo, e infine la follia sopraggiunta negli ultimi anni, fanno della storia di Séraphine, che dipinge la notte parlando con gli angeli, un modello anticipatore delle tante artiste protagoniste, spesso inconsapevoli, dell’Art Brut.


Il Palais Idéal di Ferdinand Cheval in una cartolina del 1907.


André Breton in visita al Palais Idéal di Ferdinand Cheval a Hauterives nel 1931.


Fleury-Joseph Crépin, Senza titolo (1939); Londra, Museum of Everything.

Altro paradigma della creazione imprevedibile, vulcanica ed eroica è il Palais Idéal a Hauterives edificato in trentatre anni di lavoro notturno, tra il 1879 e il 1912, da un solitario postino di provincia, Ferdinand Cheval: incantata e babelica, la costruzione mescola fantasie architetturali di tutto il mondo, dal tempio indù allo chalet svizzero, a un eccentrico bestiario.
La diffusione della sua immagine nelle cartoline d’epoca testimonia, se non altro, la curiosità verso questa grandiosa bizzarria individuale, che negli anni Trenta ammalierà i surrealisti. Con il tempo la sua opera sincretista sarà considerata un capolavoro di architettura spontanea, nel 1969 viene iscritta nel registro dei monumenti storici di Francia e sottoposta a tutela, oggi è un’attrazione turistica che porta circa centocinquantamila visitatori all’anno a Hauterives.
Inoltre, un fattore culturale di cui tener conto è il grande interesse, anche scientifico, per lo spiritismo e i fenomeni medianici che comprendono il disegno.
Diffuso soprattutto in Francia tra il XIX e gli inizi del XX secolo, ha un carattere socialmente trasversale, coinvolgendo sia il ceto intellettuale, come Victor Hugo, sia le classi più popolari, operaie e rurali.
Tutte pratiche, la trance e la scrittura automatica, che poi il surrealismo esalterà prendendole a modello, insieme alla “follia creatrice”, nel suo famoso Manifesto del 1924. Né saranno poche le opere create apparentemente in stato medianico che entreranno a far parte della storica collezione di Dubuffet, come esempi di Art Brut.
Il primo caso di medium-pittore scoperto sia dall’artista francese che dai surrealisti, è Fleury-Joseph Crépin (1875-1948), operaio zincatore in un paese di provincia dove era noto anche come guaritore con l’imposizione delle mani, che dal 1938 inizia a eseguire piccoli disegni automatici non convenzionali, che poi, obbedendo a una misteriosa volontà a lui estranea, traduce in una serie di dipinti ad olio: sono templi di sapore orientale, scranni e baldacchini, simmetrici e molto decorati anche con un ritmo di piccole perle colorate in rilievo. «Sorgono in uno spazio dove ciò che si presume sia “dietro” comunica, al punto da fare una cosa sola, con ciò che si presume sia “davanti”, come ciò che si presume “sopra” con ciò che si presume “sotto” e dove mai nulla crea ombra», scrive André Breton nel 1954.
Altre gemme dell’arte medianica nella collezione di Dubuffet sono le opere di Augustin Lesage (1876-1954), ex-minatore che dipinge sotto “dettatura degli spiriti” decoratissime architetture immaginarie fondate sul principio di simmetria e sull’“ horror vacui” additivo, un caso molto studiato anche dagli appassionati di metapsichica e parapsicologia dell’epoca.
Nella genesi concettuale dell’Art Brut ha ovviamente un ruolo fondamentale il mutamento del parametro estetico affermato dalle avanguardie storiche, radicalizzato dal surrealismo che contrappone la libertà dell’inconscio al mestiere. Anche se poi, tra le macerie della seconda guerra mondiale, la ricerca di autenticità e profondità assume con Dubuffet un altro, e più polemico, significato anticulturale. La dissidenza dell’artista francese nei confronti delle convenzioni di una cultura giudicata «asfissiante» passa attraverso la valorizzazione dei “militi ignoti” dell’arte, quei creatori che vivono ai margini e che nei loro manufatti trasferiscono di peso il proprio delirio, senza la zavorra dell’intenzione e del sapere artistico, ma con una spiccata originalità formale.


Fleury-Joseph Crépin, Quadro n. 5 (1939).

Concetto mutante, che descrive non tanto la peculiarità estetica delle opere, quanto la loro genesi e il contesto, l’Art Brut, scrive Dubuffet, «designa opere realizzate da persone indenni da cultura artistica, nelle quali il mimetismo, contrariamente a ciò che avviene negli intellettuali, abbia poca o nessuna parte, in modo che i loro autori traggono tutto (argomenti, scelta dei materiali, tecnica, ritmo, modi di scrittura etc.) dal loro profondo e non da stereotipi dell’arte classica o dell’arte di moda […] Questi lavori creati dalla solitudine e da impulsi creativi puri e autentici - dove le preoccupazioni della concorrenza, l’acclamazione e la promozione sociale non interferiscono - sono, proprio a causa di questo, più preziosi delle produzioni dei professionisti».
Non va confusa con l’arte “naïve”, che con le ricerche coeve di Anatole Jakovsky rappresenta all’epoca un’altra opzione di creazione marginale. Divergenti sono infatti mezzi espressivi e contenuti. Se hanno in comune l’origine popolare, la spontaneità fantasiosa, il primitivismo e l’infantilismo tecnico dell’autodidatta, l’arte “naïve” ha però le sue convenzioni costanti mutuate dall’arte colta, così come ne imita i mezzi usando tecniche e materiali tradizionali; si presenta idilliaca, esteriore, mimetica, gradevole, rassicurante, adeguandosi alle richieste del pubblico e del proprio mercato, è in definitiva la sorella povera dell’arte ufficiale. L’Art Brut invece si presenta come un’orfana ribelle che non conosce parenti, ascendenze e discendenze, non si adegua, si nutre solo di se stessa e della propria ossessione, ed è fondamentalmente perturbante.
Dubuffet ne fece la propria gelosa missione, raccogliendo più di cinquemila opere che espose nel 1949 a Parigi, fondando un’associazione, scrivendo monografie ed editando dei quaderni. Infine donò la collezione e il suo prezioso archivio alla città svizzera di Losanna, dove nel 1976 fu inaugurata la Collection de l’Art Brut, un museo-antimuseo secondo la concezione del suo primo direttore Michel Thévoz, che ancora oggi sorprende e scuote in profondità. Un lascito straordinario per l’arte del XX secolo che mette in moto il riconoscimento di creazioni nate nell’ombra, che con il loro modello di libertà creativa hanno costituito una sorgente d’ispirazione per molti artisti celebri, tra cui: Alfred Kubin, Paul Klee, Max Ernst, Jean Arp, il Gruppo Cobra, Jean Tinguely, Arnulf Rainer, Daniel Spoerri, Annette Messager, Georg Baselitz, Julian Schnabel, Jonathan Borofski.


Augustin Lesage, Senza titolo (1925); Villeneuve-d’Ascq, Lam - Lille Métropole Musée d’Art Moderne, d’Art Contemporain et d’Art Brut.


Jean Dubuffet fotografato da Jean-Jacques Laeser con Slavko Kopacˇ (a sinistra) e Michel Thévoz all’apertura della Collection de l’Art Brut a Losanna, davanti a un’opera in legno di Émile Ratier (febbraio 1976); Losanna, Collection de l’Art Brut.

ART BRUT
ART BRUT
Eva di Stefano
Grezzo, puro, naturale, senza edulcoranti... Brut, insomma, come lo champagne. Nel nostro caso come l’arte prodotta al di fuori dei contesti professionali, scolastici, culturali e commerciali prestabiliti, opere di artisti irregolari e a volte perturbanti. La definizionedi Art brut è del pittore francese Jean Dubuffet, che alla metà del XX secolo cerca e promuove i prodotti creativi dei pazienti psichiatrici, dei carcerati, degli incolti, di quei “nuovi primitivi” che, liberi da condizionamenti, possono restituire all’arte un bagliore di verità. Non parliamo qui di arte naïf – che, nata come movimento spontaneo, è stata poi fortemente condizionata dalle spinte del mercato – ma di manifestazioni marginali che nascono da un impulso creativo interiore.