L’INGOVERNABILEMOLTEPLICITÀ

La varietà dei linguaggi e delle tecniche è sorprendente e rispecchia la singolarità di ogni creatore,

che non sempre dispone di materiali canonici e per esprimersi ricorre a mezzi di fortuna con imprevedibili esiti inventivi. Né si perde d’animo per le capacità tecniche carenti o maldestre, alle quali supplisce con il proprio estro. Per esempio, uno degli autori storici della collezione di Dubuffet, Guillaume Pujolle (1893-1971), ricoverato in manicomio dal 1926 dopo alcuni episodi di violenza e delirio, usa per i suoi acquerelli liquidi farmaceutici sottratti all’ambulatorio dell’ospedale, come tintura di iodio, blu di metilene e mercurocromo, e per pennello una ciocca dei propri capelli, ottenendo grazie al suo disegno anamorfico effetti di puro surrealismo.
Spesso l’immagine si presenta come una materializzazione spontanea del metodo paranoico-critico elaborato da Salvador Dalí: in La morte del vecchio boero e del suo cavallo (1940) i contorni del cappello e del mantello del cavaliere configurano il profilo dei monti lontani e nel gruppo di forme presso la sua mano si delineano allo stesso tempo una testa di cavallo e un uccello.
Stereotipia, stilizzazione, decorativismo ossessivo, ripetizione seriale, “horror vacui”, combinazione di scrittura e immagine sono caratteri frequenti ma non esclusivi. L’ossessione dell’autoritratto è un modo per riprendersi un’identità negata dalle circostanze e magari renderla più eroica, come il russo Alexander Lobanov (1924-2003) che si rappresenta adottando le posture di Stalin o di un fiero combattente.


Alexander Lobanov, Autoritratto (prima del 2001); Villeneuve-d’Ascq, Lam - Lille Métropole Musée d'Art Moderne, d'Art Contemporain et d'Art Brut.


Il fitto proliferare dei volti nei disegni a matita è invece espressione della paura e dell’assedio che costrinse il polacco Edmund Monsiel (1897-1962) durante la seconda guerra mondiale a nascondersi dai tedeschi in un granaio, da dove non volle più uscire neanche a guerra finita. Dietro la porta chiusa del suo rifugio-prigione, compose cinquecento disegni dove l‘affollarsi delle fisionomie varia il proprio ritmo, pur ripetendosi come un lancinante rosario.
L’“horror vacui” caratterizza molti autori: Willem van Genk (1927-2005) nelle sue tecniche miste di grande formato accosta i suoi ricordi di viaggio in vertiginose vedute urbane, fino a colmare tutto lo spazio disponibile: multiple cartoline della lontananza da una vita molto travagliata.


Guillaume Pujolle, La morte del vecchio boero e del suo cavallo (20 novembre 1940); Losanna, Collection de l’Art Brut.

Edmund Monsiel, Senza titolo (1949); Losanna, Collection de l’Art Brut.


Willem van Genk, Collage '78 (1978); Losanna, Collection de l’Art Brut.


Edmund Monsiel, Senza titolo (senza data); Losanna, Collection de l’Art Brut.


Diceva Paul Klee: «Scrivere e disegnare sono alla base attività identiche», infatti procedono dalla medesima pulsione, utilizzano lo stesso strumento, e nelle culture più antiche non appaiono dissociabili. A partire da Wölfli, sono innumerevoli gli autori brut che inseriscono nell’immagine il proprio alfabeto, nomi o elenchi apparentemente incongrui, tracce enigmatiche di racconto, criptografie, note musicali, come una lallazione magica e retrospettiva.
Se Carlo Zinelli (1916-1974) rielaborava a suo modo le proprie esperienze ambientali e di guerra con le sue tipiche silhouette bucate e seriali inframmezzate dal ritmo musicale dei suoi geroglifici, per l’austriaco August Walla (1936-2001), paziente dell’ospedale di Gugging presso Vienna, dove già alla fine degli anni Sessanta lo psichiatra Leo Navratil stimolava i pazienti al lavoro artistico fondando anche una Casa degli artisti per i più dotati (oggi l’importante Art Brut Center/Gugging), parole e immagini si combinano in un’unica griglia figurativa a celebrare un pantheon personale di dèi, demoni e profeti aureolati da giaculatorie di nomi, vocaboli stranieri e termini inventati.Né mancano i performer, le cui opere hanno una valenza teatrale e pedagogica, come Giovanni Battista Podestà (1895-1976) che, oltre a creare decorazioni e coloratissime sculture apotropaiche, predicava per le vie di Laveno, bardato come un variopinto profeta, l’avvento di una nuova spiritualità, o la trasgressiva Helga Goetze (1922- 2008) che per le strade di Berlino, nello spirito degli anni Settanta, esortava con i suoi arazzi ricamati alla rivoluzione sessuale.

August Walla, Dèi (1986); Losanna, Collection de l’Art Brut.

Carlo Zinelli, Senza titolo (1968); Losanna, Collection de l’Art Brut.


Giovanni Battista Podestà, L’uomo degli specchi (1969-1994); Parigi, Centre National des Arts Plastiques.


Zdenek Košek, Senza titolo (1980-1990).


Giovanni Battista Podestà, Mantello, cappello e ombrello decorati e dipinti (senza data); Losanna, Collection de l’Art Brut.


La scultura nei materiali più diversi, a partire dalla pietra e dal legno, costituisce un ambito ricco di invenzione, dando vita a bestiari, macchinari misteriosi, corpi e teste, e perfino a vaste opere ambientali, come il Castello incantato del siciliano Filippo Bentivegna (1888-1967) a Sciacca (Agrigento), formato da centinaia di teste disposte a semicerchio o ammassate in concrezioni piramidali tra gli ulivi del suo podere. Si conservano anche totem e bastoni multifallici in legno, e altre sculture più piccole in pietra calcarea con figure metamorfiche. Si avverte nelle opere un’ispirazione arcaica: non a caso i contadini suoi contemporanei lo ritenevano posseduto dagli spiriti degli antichi progenitori e, ancora oggi, la visita del luogo trasmette un’energia perturbante che pare riconnetterci alla parte sommersa e rimossa, perfino mostruosa, delle nostre radici culturali.
Se la pietra e il legno hanno in sé una dimensione materica archetipale, che in molti di loro trova risonanza, questi artisti manipolano ogni sorta di materiali dal sughero alla mollica di pane ai ritagli di lamiera, dalla terracotta fino al cemento usato per bassorilievi o modellato su armature di ferro e in seguito dipinto a colori vivaci con esiti spesso giocosi e pop.
L’attitudine ludica al bricolage è spesso presente, si vedano le ingegnose costruzioni mobili in legno di Émile Ratier (1894-1984), contadino diventato quasi cieco, tra i primi artisti scoperti da Dubuffet nel mondo rurale, o i mascheroni arcimboldeschi fatti con conchiglie di Pascal Maisonneuve (1863-1934), collezionato inizialmente da André Breton.


Helga Goetze, Mytho Sophie (1970-2007); Losanna, Collection de l’Art Brut.


George Liautaud, Possessione (1959-1960 circa).

Filippo Bentivegna, Scultura in pietra, anni ‘50.

Theo Wiesen, Barriera, uomo, diavolo, donna (1972-1977); Villeneuve-d’Ascq, Lam - Lille Métropole Musée d’Art Moderne, d’Art Contemporain et d’Art Brut.

Auguste Forestier, Senza titolo (1935-1949); Losanna, Collection de l’Art Brut.

Del resto, il riciclaggio di elementi trovati è uno dei procedimenti oggi più frequenti, rivelando abilità e fantasia straordinaria nel trasmutare gli scarti quotidiani: con scatole di conserve, lampadine usate, vecchie rotelle, pezzi di legno recuperati, stoffa, chiodi, fil di ferro e scotch, André Robillard (1934) fabbrica dal 1964 i suoi fucili e le sue armi simboliche.
A volte gli esiti sono inquietanti, come nel caso di Michel Nedjar (1947) creatore di molteplici bambole-feticcio utilizzando vecchi brandelli di stoffe intinte di terra e sangue: imprescindibile il rapporto di queste opere con il vissuto dell’artista, la cui famiglia ebrea di sarti e commercianti di tessuti fu decimata dall’Olocausto.
Come si è detto, l’uso di stoffe, ricami e materiali tessili è molto diffuso, e non solo tra le donne. In alcuni casi, come quello di Judith Scott (1943-2005) che usa grossi fili colorati, spaghi e fibre per avvolgere oggetti quotidiani fino a occultarli e a trasformarli in scultura tessile, la differenza con l’arte del “mainstream” (si pensi a Christo) non è immediatamente percepibile: più che nell’opera in sé, infatti, sta nella storia che sta dietro e nel contesto in cui è stata realizzata.
Le storie personali degli artisti sono fondamentali per una buona comprensione delle opere.
Accertata preliminarmente la loro qualità estetica, conoscere l’origine e l’ambiente della loro genesi è fondamentale: se si tratta di “mitologie individuali”, per usare la felice definizione di Harald Szeemann, è necessario partire dalla singolarità dell’individuo e dalle sue “pieghe” esistenziali.


Pascal-Désir Maisonneuve, L’eterna infedele (1927-1928); Losanna, Collection de l’Art Brut.


André Robillard, Fucile (1980 circa).

Per capire il senso del lavoro incessante della Scott, occorre infatti sapere che, bambina down e sordomuta, viene separata dalla famiglia e dalla amatissima sorella gemella sana, e vive per trentasei anni in istituto, finché la gemella diventata adulta non la prende con sé. Sarà solo allora che la Scott, frequentando il Creative Growth Art Center di Oakland, recupera una forma di comunicazione con l’esterno creando i suoi bozzoli, come un rituale di seppellimento e resurrezione, un’azione forse inconsapevole di simbolizzazione e autoterapia. L’esperienza della Scott rende anche chiara la funzione maieutica svolta dagli atelier protetti di creazione.
L’Art Brut più visionaria può materializzarsi anche in forma di grandiosa opera ambientale: una costruzione spontanea e non canonica, un giardino o un edificio caratterizzato da un insieme decorativo e sculturale originale, parchi di sculture e assemblaggi realizzati spesso con materiali di recupero, opere totali nate dalla dedizione e ossessione di un creatore autodidatta e autosufficiente.
Una fenomenologia ampia con punte d’eccellenza, dove sembra esprimersi - ancora oggi al massimo grado - la libera creatività individuale dell’uomo comune e il paradigma poetico di Dubuffet.

André Robillard, Il cervo indiano (1995-2003); Losanna, Collection de l’Art Brut.


Judith Scott, Senza titolo (1991 circa); Losanna, Collection de l’Art Brut.


Michel Nedjar, Senza titolo (prima del 1976); Dicy (Francia), La Fabuloserie.
L’ispirazione di Robillard è essenzialmente ludica. Se in altri autori, come Nedjar, il riciclaggio degli scarti assume una coloritura drammatica, Robillard assembla materiali, cercati anche nel bidone della spazzatura dell’ospedale in cui vive, adattandoli ai propri scopi e realizzando i desideri della sua infanzia: macchine spaziali, animali giocattolo e «fucili che non sparano», anche se nelle intenzioni riproducono, per quanto possibile fedelmente, modelli da armeria, «per uccidere la miseria».

La storia iniziata con Ferdinand Cheval e il suo Palais Idéal prosegue in Francia all’ombra della cattedrale di Chartres con Raymond Isidore detto Picassiette (1900-1964), custode del cimitero, che decide dal 1937 in poi di decorare interno ed esterno della propria abitazione, compresi i mobili, con mosaici che realizza con cocci di ceramica recuperati nelle discariche e incrostati nel cemento, ispirato dai propri sogni e dalla propria devozione: «La mappa delle Meraviglie del mondo, che si poteva credere perduta, era là, sotto il cuscino», ha scritto André Breton.
Dall’altra parte dell’oceano, un altro eroe della costruzione solitaria è un emigrante italiano negli Stati Uniti, Sabato Rodia (detto anche Sam, 1879-1955), che nella zona di Watts alla periferia di Los Angeles erige nell’arco di trentatre anni un complesso di guglie e strutture a torre, dove le più alte raggiungono trenta metri di altezza. Costruite senza un progetto e senza attrezzature sofisticate, con cemento e acciaio recuperato e abbellite con formazioni musive di tegole rotte, piatti, bottiglie, e una varietà di oggetti ritrovati, le strutture piene di colore furono fabbricate con un’abilità che stupisce gli architetti e ingegneri contemporanei e hanno resistito a vari terremoti. Entrate nell’immaginario americano, citate da molti scrittori, definite perfino «una cattedrale del jazz» (De Lillo), da poco sono anche un sito protetto dall’Unesco.

Picassiette (Raymond Isidore), Maison Picassiette (1938-1962); Chartres.


Sabato “Simon” Rodia, Watts Towers (1921-1954); Los Angeles.
Il complesso trionfale delle Watts Tower, diciassette strutture di altezza diversa, è stato incluso da storici dell’architettura come Bruno Zevi o Reyner Banham nella storia ufficiale dell’architettura. In anni recenti, l’opera è stata messa in relazione con la tradizione dei Gigli di Nola, alte costruzioni di legno a obelisco e guglia che vengono portate in processione. Nato e vissuto fino all’adolescenza in Campania a Serino, distante pochi chilometri da Nola, è probabile che Rodia abbia partecipato alla festa, conservandone una reminiscenza.

Sembra una fiaba anche la storia di Nek Chand (1924 -2015), che per cinquant’anni costruisce da solo nella foresta presso Chandigarh (India) con pietre, cemento e cocci il Rock Garden, una favolosa città alternativa abitata da una popolazione di centinaia di sculture seriali - principi, soldati e animali di ogni tipo. Il sito, che si estende per dieci ettari, fu prima clandestino, poi accusato di abusivismo, oggi è una delle maggiori attrazioni turistiche dell’India settentrionale.


Nek Chand, Rock Garden (1958-2015), veduta panoramica parziale; Chandigarh (India).

Nek Chand, Rock Garden (1958-2015), particolare col Corteo dei principi; Chandigarh (India).


Filippo Bentivegna, Castello incantato (1920/1930-1967), veduta parziale dopo il restauro; Sciacca (Agrigento).

Queste imprese creative straordinarie non sono un’eccezione: in tutto il mondo esistono individui positivamente visionari che, da soli e senza alcuna patente professionale, decidono di sfuggire al pragmatismo utilitario dedicando la loro vita alla costruzione di una casa dell’anima e intercettando la risonanza di un “genius loci”. In Francia ne sono stati censiti recentemente da Bruno Montpied ben trecentocinque. Anche in Italia sono numerosi, catalogati progressivamente sul sito dell’associazione Costruttori di Babele. Notevole è la Cattedrale dei sassi presso Verona, enorme e poetico inventario tassonomico di pietre raccolte sul greto dell’Adige, a cui Luigi Lineri (1937) continua tuttora a lavorare.
Se il già citato giardino di sculture di Filippo Bentivegna è tra gli esempi italiani più noti, condivide dal 2015 il vincolo ministeriale di tutela con un altro luogo babelico del Meridione: il santuario della Pazienza a San Cesario di Lecce, una installazione imponente di figure e totem in cemento incrostato di cocci, vetri, ferro e molteplici materiali di scarto, che Ezechiele Leandro (1905-1981), artista poliedrico e di mestiere riparatore di biciclette, ha realizzato nel cortile adiacente alla sua casa, mescolando ispirazione sacra e profana. Come gran parte di questi monumenti indisciplinati, quando privati della manutenzione del loro autore, presenta grossi problemi di degrado.

Luigi Lineri, La Ricerca (La Cattedrale dei sassi), "work in progress" dal 1964; Zevio (Verona).

Allestimento museale di sassi raccolti sul greto dell’Adige. Da quarant’anni Lineri raccoglie le pietre levigate dall’acqua e secondo lui anche dalla mano di antiche popolazioni, classificandole e impaginandole secondo morfologie ricorrenti che vanno dalle punte di freccia a forme di pesci, agnelli, bovidi, falli, donne gravide, “onfalos” e uova cosmiche, interpretate come sassi votivi. Oggi l’enciclopedica raccolta di pietre archetipali, che ha invaso parte della sua casa oltre al fienile adiacente, è la scenografica materializzazione di una verità poetica.

Ezechiele Leandro, santuario della Pazienza (1955-1975); San Cesario di Lecce.

La Pazienza, a cui Leandro dedica la sua opera monumentale, è «la pazienza del fare», nonostante la propria fatica, il sarcasmo altrui, i materiali di risulta. Decine di gruppi scultorei dall’aspetto di concrezioni fossili affollano un terreno di settecento metri quadri, trasformato in un labirinto di macerie risorte dove si concentrano inferno e paradiso: figure grottesche, animali bizzarri, mostri e scene religiose, il cui registro espressionista oscilla perennemente tra burlesco e tragico.


ART BRUT
ART BRUT
Eva di Stefano
Grezzo, puro, naturale, senza edulcoranti... Brut, insomma, come lo champagne. Nel nostro caso come l’arte prodotta al di fuori dei contesti professionali, scolastici, culturali e commerciali prestabiliti, opere di artisti irregolari e a volte perturbanti. La definizionedi Art brut è del pittore francese Jean Dubuffet, che alla metà del XX secolo cerca e promuove i prodotti creativi dei pazienti psichiatrici, dei carcerati, degli incolti, di quei “nuovi primitivi” che, liberi da condizionamenti, possono restituire all’arte un bagliore di verità. Non parliamo qui di arte naïf – che, nata come movimento spontaneo, è stata poi fortemente condizionata dalle spinte del mercato – ma di manifestazioni marginali che nascono da un impulso creativo interiore.