Grandi mostre. 3
Donne artiste e identità ebraica a Roma e a Milano

tradizione
e innovazione

Tra Otto e Novecento inizia a emergere, anche in Italia, una presenza femminile nel mondo delle arti. Molte delle protagoniste erano di famiglia ebraica e portavano con loro punti di vista, tradizioni, approcci legati a quella cultura. Una mostra romana e un festival a Milano, in occasione della Giornata della cultura ebraica, propongono alcuni aspetti e alcune protagoniste di questa vicenda, tra inizio Novecento e i giorni nostri.

Daniele Liberanome

madre o moglie ebrea è da sempre sinonimo di donna dal carattere dominante. La tradizione ebraica è ricchissima di queste figure, che fungevano e fungono da colonne portanti della famiglia, ricche di forza d’animo e di talenti usati senza troppo dare nell’occhio. Basta pensare a Sara che obbligò Abramo a scacciare l’amata Agar, oppure alla moglie del rabbino Akivà, che gli impose di studiare la Torà fino a diventare punto di riferimento nel Talmud, o alla madre di Woody Allen in Edipo relitto (episodio del film collettivo New York Stories, 1989), che dal cielo continua a prendere decisioni al posto del figlio. Le intellettuali ebree di inizio Ottocento conservavano appieno queste caratteristiche, mettendole al servizio di un mondo europeo diventato meno maschilista e meno antisemita dopo la Rivoluzione francese. È il periodo di Rachel Vernhagen, di Dorothea Mendelssohn e delle altre promotrici dei salotti intellettuali di Berlino che, dall’interno delle loro case, promuovevano discretamente le grandi figure del pensiero e della letteratura europea. L’arte visuale, con cui l’ebraismo ha sempre avuto un rapporto problematico, le coinvolgeva meno.
La svolta arrivò alla fine dell’Ottocento, anche in Italia. È quello il periodo in cui alcune madri iniziarono ad assecondare le tendenze artistiche dei figli, come Eugenia Garsin in Modigliani, che non fece mai mancare appoggio economico e morale al giovane Amedeo, prima nei suoi viaggi alla scoperta dei capolavori italiani, e poi all’inizio del soggiorno parigino. Non le fu facile, sia perché le fortune familiari erano in netta decadenza, sia perché Amedeo si era gettato in una vita e in un’arte lontana anni luce dall’etichetta borghese italiana del tempo.
In quegli anni comparvero anche da noi le promotrici culturali, come Margherita Sarfatti, chiacchierata “amica” del duce e prima sua biografia, oltre che sponsor illustre dei futuristi dal suo salotto di corso Venezia a Milano. Anche lei non si tirò indietro nel seguire le spinte più innovative, pur restando ancorata alla sua casa, tanto che non si separò mai dal marito.
Comparvero poi le artiste vere e proprie, che solo gradualmente uscirono dal solco della tradizione. Rimasero cioè inizialmente legate alla sfera familiare di cui erano protagoniste: tendevano a ritrarre paesaggi visti dall’intimo delle loro case oppure i loro familiari, specie se impegnati nella vita pubblica. Tipica è la biografia di Amelia Almagià Ambron (1877 - post 1937) e tipiche sono le sue opere, esposte nella mostra Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica allestita alla Galleria d’arte moderna di Roma Capitale in occasione della Giornata della cultura ebraica 2014 (il 14 settembre). Amelia Ambron, da un lato si dedicò a sviluppare un salotto intellettuale frequentato da Marinetti e soprattutto da Giacomo Balla, che la ritrasse in un dipinto pure esposto a Roma. Ma parallelamente sviluppò il suo talento creando bei ritratti di sapore verista, alla moda, come quello dedicato al padre; lo dipinse con sigaretta in mano, scarruffato e vestito informalmente, tanto da sembrare più un signorotto di campagna che un raffinato borghese di alto rango qual era. La Ambron ebbe la solita, ebraica, influenza sul figlio che finì anche lui per diventare artista.
Non meno emblematica la figura di Annie Nathan, coetanea di Amelia Ambron, e figlia di Ernesto Nathan, sindaco di Roma fra il 1907 e il 1913. È il famoso padre che ritrasse in un bel pastello su cartoncino, riprendendolo in una posa informale mettendo in risalto particolare l’anello che portava al dito, simbolo della famiglia che l’aveva portato alla grandezza. Le altre opere di Annie Nathan sono dedicate a squarci di vita campestre colti nei momenti di ritiro estivo. Molto simile è la prima fase del percorso di Adriana Pincherle (1905-1996), che concentrò la sua attenzione sul celebre fratello minore, Alberto Moravia.
Se queste artiste del primo Novecento rimasero perlopiù legate al ruolo tradizionale della donna ebrea, anche se svolto in un ambiente aperto ai movimenti artistici in voga, Antonietta Raphaël in Mafai (1895-1975) compì un ulteriore balzo in avanti grazie al superiore talento. I suoi primi passi furono legati alla sfera familiare ma con accento su temi religiosi, perché proveniva dall’ambiente ortodosso di Kaunas in Lituania (come la famiglia dello scrittore Amos Oz) e aveva frequentato Ossip Zadkine, Jacob Epstein e altri noti artisti dalle origini simili. Esemplare è il suo Mia madre che benedice le candele all’entrata dello Shabbat, degli anni Trenta, dipinto con un piglio quasi chagalliano e tavolozza molto intensa. Più tardi, all’inizio degli anni Quaranta, scelse come soggetto il compagno e famoso artista in Mafai con i pennelli, ma già allora, e certamente dal 1945 in poi, ruppe gli schemi tradizionali e uscì decisamente allo scoperto. Non fu tanto lo stile a cambiare, restò sempre corposo, plastico, da tipica scuola romana; nuovi furono i soggetti - come lo splendido La giocatrice, in mostra a Roma -, ormai estremamente vari, e nuovo il percorso di affermazione artistico, ormai svincolato dai legami affettivi e familiari.
Grazie al movimento di emancipazione femminile, di cui Antonietta Raphaël fu protagonista, oggi numerose sono le artiste ebree di valore e di successo, specie in Israele. Il festival Jewish & the City, organizzato a Milano sempre in concomitanza della Giornata della cultura ebraica, ospita Sigalit Landau, una delle più eclettiche, creative e giustamente famose fra loro. Al centro del lavoro della Landau si trova il legame, anche critico, con il suo paese, con il suo popolo. Nel suo video DeadSea del 2005, ripreso con un elicottero, si vedono cerchi concentrici di angurie unite da un filo che galleggiano sul Mar Morto. L’artista, nuda, galleggia allungata su un fianco fra una fila e l’altra, entrando a far parte di un cerchio. Mentre le angurie si aprono una dopo l’altra e il succo rosso e dolce dei frutti si mischia con le acque scure e salatissime, i frutti si srotolano fino a liberare l’artista e a indicarle un percorso dritto, una meta. Evidenti sono i riferimenti alle enormi difficoltà che Israele affronta in un ambiente ostile, al prezzo da pagare in termini di sangue ma anche in termini di cambiamento di atteggiamento per rendere l’ambiente più vivibile. Ma interessante è anche il riferimento al luogo senza vita, desertico e “morto”, in cui si può creare la libertà. E Jewish & the City si occuperà appunto della libertà vista in senso ebraico e in rapporto alla festa di Pesach (pasqua) che ricorda l’antica liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Non meno toccante è l’installazione Il Paese, del 2002. La Landau ha creato, con carta di giornale bagnata e asciugata, figure e strutture verosimili ma poste in situazioni assurde, come gli alberi con radici che sfondano il soffitto o figure rosso sangue che raccolgono frutti - sempre rossi - e li trasportano con difficoltà sulla schiena. La vita in Israele è stimolante, ma non facile, e il ruolo dell’artista men che meno. Emblematico anche il recente Masik, un video sulla raccolta delle olive, che cadono nelle reti perché apposite macchine scuotono con forza gli alberi e perché lavoratori palestinesi colpiscono i rami con gesti quasi rituali. L’olivo è albero dal forte carattere simbolico nell’ebraismo, tanto che secondo la Mishnà (testo del II secolo d.C.) ciascun albero doveva avere un nome che non andava dimenticato. Per l’artista l’olivo - la terra di Israele -, e i suoi frutti - le olive -, sono sottoposti a un continuo terremoto e possono cadere a terra in modi più o meno sofisticati. La Landau, da ebrea contemporanea, non teme di affrontare temi scottanti, di sentirsi pienamente responsabile per la loro soluzione, guardando alla realtà con tutto il portato della propria cultura.

Antonietta Raphaël, La giocatrice (1942).

Annie Nathan, Ritratto di Ernesto Nathan (1913).

Paola Consolo, Autoritratto (1932);

Donna giapponese che cammina (1911-1912).

Adriana Pincherle, Natura morta con rose e fichi d’India (1947-1949), Roma.


Casa-museo Alberto Moravia; Silvana Weiller, Muri in Ghetto nuovo (1959).


Un’immagine del video DeadSea (2005), di Sigalit Landau.

ART E DOSSIER N. 313
ART E DOSSIER N. 313
SETTEMBRE 2014
In questo numero: L'EBRAISMO E L'OCCIDENTE; CHAGALL E I SUOI MODELLI Primo Novecento: i collezionisti; Ebraismo e Rinascimento; Roma: le catacombe israelitiche; Gli affreschi di Europos-Dura. IN MOSTRA: Chagall, Artiste ebree, Equilibrium.Direttore: Philippe Daverio