Intervista
William Kentridge

OMBREIN CAMMINO

Abbiamo intervistato William Kentridge, artista di fama internazionale, che con le sue opere dà voce tanto alla sua storia personale quanto a quella politica e sociale.
Una conversazione ampia, in cui si parla di segni, monumenti abbattuti, vanità e attivismo.

Sara Benaglia, Mauro Zanchi

William Kentridge, dalle sue opere pare emergere una predilezione per ciò che è imperfetto. La sua arte è vicina alla sofferenza umana e rifugge ciò che è eccessivamente intellettualizzato. Ama la semplicità sintetica del disegno a carboncino, il segno derivato dalla pressione di un torchio sulla carta e dà consistenza alla presenza effimera delle ombre. Ci può raccontare come è nata l’idea di far convivere la complessità del segno grafico tradizionale con i cortometraggi animati, trovando una maniera molto poetica di raccontare metafore, visto che per sua ammissione lei si ritiene uno che preferisce disertare le avanguardie? 

I cortometraggi, realizzati attraverso una tecnica di cancellazione e ridisegno di tratti a carboncino, non sono nati con l’intenzione di produrre film d’animazione, ma da un processo costituito da numerosi disegni. Mi interessava registrare questo procedimento, in particolare volevo mostrare il momento in cui un disegno scompare e poi ritorna con altri segni. In un certo senso la tecnica conduce sempre al significato, in questo caso ha dato significato all’incorporazione della storia, della memoria, nel foglio di carta.


Frame dal video Shadow Procession (1999), proiettato in occasione della mostra William Kentridge, Respirare (Alba, Cuneo, chiesa di San Domenico, fino all’8 dicembre).

Ci può parlare di quel filo sottile che tiene uniti (creando percorsi, collegamenti e labirinti) il teatro della memoria, le ombre che camminano, i collage di carte nere su pagine di libri, le ombre cinesi e i disegni animati? 

Devo ricostruire quel filo. Le tecniche migrano e così fanno anche le immagini nel passaggio da una forma all’altra. È uno spostamento richiamato dalla narrazione di un pezzo teatrale a cui stavo lavorando insieme alla Handspring Puppet Company. Nella transizione tra una scena e l’altra abbiamo creato delle sagome d’ombra, adottando una tecnica teatrale molto comune, dove vengono utilizzati strappi di carta con piccole giunture necessarie per farle muovere. Questo processo ci ha condotto fuori dal contesto teatrale e portato sul tavolo in studio. Se prendi dodici diverse forme o sagome casuali di carta bianca e le allarghi, mentre ti muovi attorno a esse inizi a riconoscere un’azione, lo zoppicamento di una persona, una gobba, diversi gesti che vengono suggeriti e visti senza poter essere immaginati in anticipo. E questo passa attraverso molte forme: ombre cinesi, collage di carta nera, ombre che camminano. 


Nello studio tutto è permesso, inclusa la politica


I modelli della sua formazione sono artisti che hanno fatto i conti con l’impegno attivo di denuncia sociale: Dumile, Goya, Beckmann, Grosz, Daumier, Kollwitz, Hogarth. A quali artisti contemporanei rivolge il suo interesse ora? Intrattiene con qualcuno di loro dialoghi a distanza? 

Non sono impegnato in alcun dialogo specifico con altri artisti. C’è una sorta di dialogo continuo con il lavoro di Dumile nei miei disegni a carboncino, rispetto alle forme, sebbene lui sia morto da quasi trent’anni. L’ho incontrato solo per qualche giorno, quando avevo quattordici o quindici anni. Quindi, si tratta di una sorta di conversazione teorica o immaginaria. Oggi ci sono diversi artisti di cui ammiro molto il lavoro, da Alfredo Jaar, alle prime opere storiche di Anselm Kiefer, ai film di Shirin Neshat. Mi intriga la pittura tarda di Philip Guston, e suppongo che ciò abbia a che fare con la trasformazione della sua espressione astratta in una strana forma di figurazione, e con la semplificazione che era in grado di fare. Dunque, si tratta di conversazioni abbastanza tecniche e formali, piuttosto che di conversazioni di senso. 


In che modo, nelle sue opere, la storia personale e quella politico-sociale si fondono scambiandosi dati e metafore? 

Si fondono nel senso che nello studio tutto è permesso, inclusa la politica. Nello studio, nella progettazione artistica, le immagini di monumenti rifiutati vengono abbattute, frammentate e riordinate, mescolate insieme a ricordi e pensieri personali. E quest’apertura rispetto a ciò che può essere elaborato in studio - e quindi nell’opera - è determinata dal modo in cui la storia personale e quella politicosociale si fondono, piuttosto che cercare di trovare un’immagine politica come metafora delle domande che nascono in uno studio o soluzioni di uno studio a una questione politica. Quando lavoro, queste specifiche domande politiche su cosa fare con i vecchi monumenti scompaiono e si trasformano in altre domande sull’incertezza, il dubbio, la stabilità fisica degli oggetti, come si fanno sculture che sono provvisorie ma non monumentali. Cosa serve per fare un’immagine che solo da una posizione puoi vedere come una forma specifica? E in qualsiasi altra posizione percepirlo come una strana altra costruzione? Queste sono le domande che nascono dallo studio e rispondere a esse significa rispondere alle domande più grandi, come, per esempio, cosa fare con i monumenti? Alcune risposte possibili si trovano attraverso queste grandi domande.


Frame da Shadow Procession (1999); nella pagina a fianco, due frame da Breathe (2008).

Frame da Breathe (2008).

Frame da Breathe (2008).

Se ci è concessa un’associazione un po’ ardita, cosa lega i personaggi presenti in due momenti della sua ricerca, ovvero Ubu a Zeno Cosini? 

È una domanda molto interessante a cui è difficile rispondere. Zeno ha una vita che mi è molto vicina nella sua incertezza e nella sua miscela di completa cecità a quello che sta facendo. L’impotenza della sua decisione su cosa fare della sua vita e la sua autoironia sulla morte mi sembrano una forma di instabilità molto vicina alla mia. Ubu non si vede (o percepisce) come è realmente ma, al di là dell’autocommiserazione e dell’autocelebrazione, è una figura molto simile a quelle della Commedia dell’arte, che possono essere usate per raccontare molte storie diverse. Ci sono tanti Ubu nel mondo, e naturalmente una delle loro caratteristiche è la vanità, l’autocompiacimento. Non posso affermare di essere completamente immune da questi fattori. Nessuno di noi può dirsi del tutto diverso da Zeno e Ubu. 


In Shadow Procession (1999), nella pausa tra le due processioni, compare la figura inquietante di Ubu Roi, personaggio creato da Alfred Jarry, l’inventore della pa tafisica, da lui definita come scienza delle soluzioni immaginarie. Che cosa rappresenta Ubu in questo periodo storico e come si può arginare la sua tracotanza? Come si può applicare ora la scienza delle soluzioni immaginarie? 

La patafisica di Jarry è arrivata più tardi, dopo la commedia di Ubu, che in realtà è l’invenzione di un ragazzo di sedici anni che si prende gioco del suo insegnante di fisica o di storia. La patafisica è interessante perché prende sul serio l’assurdo, sia che si tratti dell’assurdità della scienza, sia che si tratti dell’assurdità della storia politica. Si tratta di logiche che vanno oltre, e Ubu ne è la dimostrazione. «Come possiamo arginare la sua travolgente potenza?» è una domanda enorme. Ci sono domande “dentro” lo studio e domande che ne stanno fuori, per esempio: «Come si fa a fermare l’ascesa del populismo nel mondo?». Non ho soluzioni migliori di qualsiasi altro attivista politico. Non ho strategie politiche interne che dovrebbero o non dovrebbero essere utilizzate. E una delle benedizioni dello studio è che si può lavorare con soluzioni immaginarie, che si può lavorare senza il vincolo immediato dell’azione politica diretta nel mondo. Quindi io non so come fermare i Bolsonaro, i Trump, i Putin di questo mondo. Ci sono pochissimi luoghi al mondo che sono privi di figure come queste e ho capito che il mio temperamento non fa di me una delle persone in grado di fermarli. Tutto ciò che posso fare è quello che faccio. Ciò che vediamo, che leggiamo, la musica che abbiamo ascoltato, le conversazioni che abbiamo avuto, è tutto parte di ciò che forma la nostra persona. Ciò che determina la nostra trasformazione in attivisti o meno è una domanda a parte.


I disegni a volte funzionano quasi come la scrittura di un diario


Anti-Entropy (2011).

Lei ha affermato che, nel caso del paesaggio, è particolarmente interessato a come esso nasconda la propria storia e su come ciò si rifletta nel funzionamento della memoria. Come il paesaggio conserva vaghe tracce di ciò che accadde, il suo lavoro è teso a conservare il ricordo degli individui, a considerare i processi della dimenticanza, a costruire monumenti di memoria alle figure anonime degli scomparsi? 

È evidente che il mio lavoro è costruzione, posa di segni per notare cose che sono scomparse o che potrebbero scomparire, sia che si tratti dei minatori che sono stati uccisi a Marikana in un massacro della polizia nel 2012, o delle persone che sono morte durante la “transizione alla democrazia” negli anni Novanta. I disegni a volte funzionano quasi come la scrittura di un diario, la registrazione di un audio. Prendono nota delle cose che sono scomparse. La questione più vasta della memoria e della dimenticanza è ovviamente molto complicata. 

Nel mio lavoro si è sempre trattato di memoria piuttosto che di virtuosismo dell’oblio. Ma ci sono certamente dei virtuosi dell’oblio. Alcune persone possono vivere solo nel trauma e non sono in grado di sfuggirvi, sia che si tratti di un trauma storico o personale. E questo diventa intollerabile. Ma fingere di non avere una storia, di poter dare un senso al mondo senza che l’arte incorpori questa storia è altrettanto sciocco. Vorrei davvero che le tecniche che ho scelto di utilizzare negli ultimi trent’anni fossero quelle che conservano traccia di ciò che è accaduto, piuttosto che avere una cancellazione perfetta, come si potrebbe avere in un mondo digitale. Un pixel deve avere tracce di dove si trovava nel millisecondo precedente. 


Ad Alba abbiamo visto due sue opere, Shadow Procession e Breathe installate all’interno di una chiesa dedicata a San Domenico in occasione della mostra William Kentridge. Respirare (fino all’8 dicembre). Questo santo è stato anche il fondatore dell’ordine dei domenicani, i quali hanno avuto un ruolo di prim’ordine nell’Inquisizione, con tutte le conseguenze che questo movimento di terrore in Europa ha avuto sull’inferiorizzazione della donna e dell’altro, e soprattutto sulla vittoria della proprietà privata rispetto al bene comune. Non è la prima volta che in Italia una mostra d’arte contemporanea viene allestita in una chiesa, ma la forza del suo lavoro in questo specifico contesto ha risvegliato dei fantasmi. Ci ha ricordato le leggi promulgate dalla Chiesa in favore della compravendita di schiavi in Europa, nel Vecchio continente che “scoprendo” il resto del mondo decideva le sue gerarchie, inclusa quella di chi avrebbe potuto essere umano e chi no, un subumano che ancora oggi cammina nella Shadow Procession. Come si è relazionato nella sua vita con la “cultura del gusto”, quel buon gusto di una classe i cui privilegi sono sempre andati a braccetto con la schiavitù? 

Devo confessare che non ho pensato alla specificità di questa chiesa, non avevo nemmeno sentito dire che fosse una chiesa domenicana. Il grande progetto di Roma, Trionfo sul Tevere, ha qualcosa a che fare con l’imbalsamazione delle gerarchie ecclesiastiche, dei disastri e delle celebrazioni, con il patrocinio di una notevole opera d’arte che è andata di pari passo con la più brutale repressione prima, durante l’Inquisizione e molto tempo dopo di essa. Essere un artista bianco di mezza età, un artista bianco in Sud Africa, significa affrontare la questione del privilegio, che è stato il fondamento dell’esistenza qui: quali sono le responsabilità del privilegio? Che cosa ti chiedono? Bisogna capire le manifestazioni della complicità nella storia in cui viviamo. Ci sono molti sudafricani, bianchi sudafricani della mia generazione e della generazione dei miei genitori, che hanno scelto di lasciare il Sud Africa proprio per non sentirsi più imbevuti nella nostra storia, ossia nelle conseguenze di questa storia. 

E quel tentativo di trovare la cordialità, l’idea di trovare una via d’uscita dalla contaminazione, di non essere toccati o sporcati dalla storia mi sembra impossibile e un compito non particolarmente onorevole da realizzare. Ho dovuto considerare la complicità e la responsabilità come dati di fatto, come punti di partenza, e lavorare dal mondo dell’arte in termini di trasformazione. Suppongo che sia ancora così che la vedrei. Non aspettarsi da un’istituzione artistica di essere pulita e non toccata dalla storia, bensì aspettarsi che qualsiasi storia sia anche una storia terribile. Non sono uno di quelli che chiedono di chiudere la Tate perché costruita con i proventi derivati da schiavismo nelle piantagioni di zucchero o il British Museum perché è un monumento all’imperialismo britannico. Ma non è solo questo. Mi interessa l’unica speranza che si ha in più rispetto a tutte queste cose. Altrimenti saremmo condannati a un’esistenza molto cupa e vuota. C’è già un enorme puritanesimo che urla nel mondo insieme al populismo. E una delle cose che si possono fare è cercare di resistere. E celebrare il lavoro artistico come un luogo per la libido, per l’eccesso, per il non sapere, per l’incomprensione, per l’errata traduzione.


Drawing from Stereoscope (1998-1999), New York, MoMA - Museum of Modern Art.


Frame dal video The Refusal of Time (2012), proiettato in occasione di Documenta 13 (Kassel, 9 giugno - 16 settembre 2012).

ART E DOSSIER N. 382
ART E DOSSIER N. 382
DICEMBRE 2020
In questo numero: ATTIVISMO, ARTE E SOCIETA': Intervista a William Kentridge. Banksy: l'artista invisibile. IN MOSTRA: Banksy a Roma, Enzo Mari a Milano, Cartier-Bresson a Venezia, Derain/Le Corbusier a Mendrisio, I Macchiaioli a Padova, Michelangelo a Genova.Direttore: Philippe Daverio