Ci può parlare di quel filo sottile che tiene uniti (creando percorsi, collegamenti e labirinti) il teatro della memoria, le ombre che camminano, i collage di carte nere su pagine di libri, le ombre cinesi e i disegni animati?
Devo ricostruire quel filo. Le tecniche migrano e così fanno anche le immagini nel passaggio da una forma all’altra. È uno spostamento richiamato dalla narrazione di un pezzo teatrale a cui stavo lavorando insieme alla Handspring Puppet Company. Nella transizione tra una scena e l’altra abbiamo creato delle sagome d’ombra, adottando una tecnica teatrale molto comune, dove vengono utilizzati strappi di carta con piccole giunture necessarie per farle muovere. Questo processo ci ha condotto fuori dal contesto teatrale e portato sul tavolo in studio. Se prendi dodici diverse forme o sagome casuali di carta bianca e le allarghi, mentre ti muovi attorno a esse inizi a riconoscere un’azione, lo zoppicamento di una persona, una gobba, diversi gesti che vengono suggeriti e visti senza poter essere immaginati in anticipo. E questo passa attraverso molte forme: ombre cinesi, collage di carta nera, ombre che camminano.
Nello studio tutto è permesso, inclusa la politica
I modelli della sua formazione sono artisti che hanno fatto i conti con l’impegno attivo di denuncia sociale: Dumile, Goya, Beckmann, Grosz, Daumier, Kollwitz, Hogarth. A quali artisti contemporanei rivolge il suo interesse ora? Intrattiene con qualcuno di loro dialoghi a distanza?
Non sono impegnato in alcun dialogo specifico con altri artisti. C’è una sorta di dialogo continuo con il lavoro di Dumile nei miei disegni a carboncino, rispetto alle forme, sebbene lui sia morto da quasi trent’anni. L’ho incontrato solo per qualche giorno, quando avevo quattordici o quindici anni. Quindi, si tratta di una sorta di conversazione teorica o immaginaria. Oggi ci sono diversi artisti di cui ammiro molto il lavoro, da Alfredo Jaar, alle prime opere storiche di Anselm Kiefer, ai film di Shirin Neshat. Mi intriga la pittura tarda di Philip Guston, e suppongo che ciò abbia a che fare con la trasformazione della sua espressione astratta in una strana forma di figurazione, e con la semplificazione che era in grado di fare. Dunque, si tratta di conversazioni abbastanza tecniche e formali, piuttosto che di conversazioni di senso.
In che modo, nelle sue opere, la storia personale e quella politico-sociale si fondono scambiandosi dati e metafore?
Si fondono nel senso che nello studio tutto è permesso, inclusa la politica. Nello studio, nella progettazione artistica, le immagini di monumenti rifiutati vengono abbattute, frammentate e riordinate, mescolate insieme a ricordi e pensieri personali. E quest’apertura rispetto a ciò che può essere elaborato in studio - e quindi nell’opera - è determinata dal modo in cui la storia personale e quella politicosociale si fondono, piuttosto che cercare di trovare un’immagine politica come metafora delle domande che nascono in uno studio o soluzioni di uno studio a una questione politica. Quando lavoro, queste specifiche domande politiche su cosa fare con i vecchi monumenti scompaiono e si trasformano in altre domande sull’incertezza, il dubbio, la stabilità fisica degli oggetti, come si fanno sculture che sono provvisorie ma non monumentali. Cosa serve per fare un’immagine che solo da una posizione puoi vedere come una forma specifica? E in qualsiasi altra posizione percepirlo come una strana altra costruzione? Queste sono le domande che nascono dallo studio e rispondere a esse significa rispondere alle domande più grandi, come, per esempio, cosa fare con i monumenti? Alcune risposte possibili si trovano attraverso queste grandi domande.