Un aspetto trascurato e qui riportato alla luce nelle tre esperienze dal titolo Hélène, Grace e Ada, uniche ma sinergiche l’una con l’altra e fondate tutte su fotografie d’archivio riproposte dall’artista con tecniche e supporti differenti.
Hélène è l’emblema delle “cutters” ovvero delle donne addette a montare le pellicole, che venivano composte tagliando e mettendo insieme le varie parti senza che fosse impartita alle operaie alcuna istruzione in merito.
Ampia autonomia, dunque, e grande spazio alla loro creatività. Echeverría, ingrandendo e solarizzando i dettagli degli scatti stampati su lastre di vetro, mette a fuoco e «cristallizza», come leggiamo nel catalogo espositivo, il prezioso lavoro manuale.
Grace, dedicata a Grace Hopper, scienziata e informatica americana, programmatrice del computer Harvard Mark I e ammiraglio della Marina degli Stati Uniti, si avvale di una tenda led su cui compare un’animazione ispirata da una fotografia di Berenice Abbott (1898-1991), Woman Writing an Early IBM Computer, accompagnata da una serie di tracce sonore originali realizzate da Daphne Oram (1925-2003), pioniera del Graphical Sound. Uno spettacolo suggestivo che ci affascina e quasi ci ipnotizza.
Ada, infine, è un omaggio ad Augusta Ada King-Noel, contessa di Lovelace (nata Byron, 1815-1852), la matematica ritenuta da molti la prima programmatrice della storia. In questo caso ci troviamo a osservare un enorme mosaico murale con scene e ritratti d’archivio legati alla tecnologia informatica e riprodotti con procedimenti diversi quali la stampa su vetro, la solarizzazione e la gelatina d’argento.
Un racconto per immagini corposo, Apparent Femininity, che stimola domande e riflessioni sulle qualità femminili e sul concetto di femminilità da ridefinire, secondo Echeverría, anche in virtù della “quarta rivoluzione industriale”, dove la spinta sempre più incalzante all’uso e alla fusione di varie tecnologie apre uno scenario dalle potenzialità tutt’altro che prevedibili.
Coinvolgenti pure i progetti degli altri partecipanti, a partire da Chloe Dewe Mathews (1982), che ha puntato il dito sullo sfruttamento del suolo a sudovest di Almería, nella Spagna meridionale, dove si estende per circa duecento chilometri quadrati il cosiddetto “Mar de Plástico” (mare di plastica), gigantesco “orto” artificiale in cui si produce metà della frutta e della verdura destinata a rifornire ogni anno i mercati europei (For a Few Euros More). E ancora Aapo Hutha (1985) che fa interpretare a software di riconoscimento delle immagini, basati su algortitmi di intelligenza artificiale e accompagnati da un sintetizzatore vocale, fotografie tratte dal suo archivio personale (Sorrow? Very Unlikely), con esiti piuttosto limitati e stereotipati. Invece Pablo López Luz (1979), con la serie Baja Moda (letteralmente bassa moda), immortalando alcune vetrine di Cuba, Ecuador, Messico e Cile, rimaste a oggi inalterate e in apparenza indifferenti alla globalizzazione, si concentra su due fattori chiave della cultura latinoamericana: identità e resistenza. Per finire, Maxime Guyon (1990) con Aircraft presenta attraverso fotogragfie di grande impatto estetico pezzi di velivoli tutti in primo piano, dove ogni elemento è riprodotto con meticolosità e nitidezza. Immagini attraenti e nello stesso tempo alienanti rispetto alle quali la percezione di controllo dei singoli frammenti non esclude la possibilità, secondo quanto ricaviamo ancora dal catalogo della mostra, di una «visione totale, artificiale, quasi feticista».
Il Mast offre, nello stesso periodo, l’esposizione Inventions, a cura di Luce Lebart, con una cospicua carrellata di fotografie, provenienti dall’Archive of Modern Conflict di Londra e dagli Archives nationales francesi, sulle creazioni più bizzarre e geniali realizzate tra le due guerre mondiali presso l’Office des inventions su iniziativa del rivoluzionario Jules-Louis Breton (1872-1940), inventore lui stesso, a capo del Sous-secrétariat d’État aux inventions. Immagini prodotte con lo scopo di valutare le invenzioni e di contribuire altresì a conservarne memoria. Scatti che ci sorprendono per la loro cura stilistica, per la loro “mise en scène” benché anonimi e privi di intenzioni artistiche. Tra l’umoristico e il poetico, tra l’assurdo e il tragico, tra semplicità e complessità, fantasia ed emozione.