I luoghi comuni, d’altra parte, poggiano spesso su inconfutabili considerazioni, e tuttora sarebbe difficile negare i caratteri di “luce, colore, pennellata veneziana” a fronte del “disegno” centroitaliano.
Per Veronese in particolare non si può far a meno di rievocare una pittura atmosferica, teatralmente concepita nel contesto «sereno della Serenissima». Non a caso Roberto Longhi, che amava Veronese («uno dei grandi pittori del mondo»), e detestava Tintoretto, riteneva che agli occhi di Paolo il mondo apparisse semplicemente «come in un arazzo sontuoso e lieve che per un alito di vento, sollevandosi dalla parete, cangi colore» e che «sarebbe stato difficile con tali occhi veder passare, svariando, altro che trionfi e apoteosi». Nel suo Viatico sulla pittura veneta, saggio memorabile ma per molti versi non più condivisibile, Longhi pare leggere la pittura veronesiana principalmente nella chiave pomposa e lieve della quale già parlava Carlo Ridolfi nel 1648: «Paolino [seconda] la gioia, [rende] pomposa la bellezza, più festevole il riso». Eppure Veronese era schivo, a dispetto di questa sua pittura “mondana”, anche se risoluto nel difender le licenze «dei poeti e dei matti», come nel noto episodio, indagato con nuovi indizi da Maria Elena Massimi (2012), dell’Ultima cena per il monastero veneziano dei Santi Giovanni e Paolo (ora alle Gallerie dell’Accademia), ritenuta non in sintonia con la morale controriformistica, e reintitolata in modo più consono Cena in casa di Levi. Ma questo non basta a capire Veronese. Ed ecco, a soccorrerci in una visione assai più ampia e problematica del grande artista e della sua officina, la splendida mostra di Verona, curata con passione e competenza da Paola Marini e Bernard Aikema, la più vasta dopo quella del 1939.
Nel palazzo della Gran Guardia sessantuno dipinti testimoniano ogni aspetto e periodo dell’attività di Veronese. Altrettanti disegni stanno in puntuale confronto con le tele: allegorie, temi religiosi ma anche ritratti, come il Gentiluomo del Getty Museum, ultimo dipinto importante di Caliari ad aver lasciato Verona, nel secondo Ottocento, come ci dice Paola Marini: «Abbigliato con una luminosa sinfonia di neri, contro uno sfondo architettonico che è una firma dell’autore, dimostra l’accostabile naturalezza dei ritratti del Veronese, orgogliosi e operosi protagonisti di una società i cui valori furono illustrati dallo stesso artista nei soffitti di Palazzo ducale. Lo spadino e l’immagine sfatta della basilica di San Marco in basso a sinistra escludono possa trattarsi, come voleva la tradizione, di un autoritratto». Sono molti i nuovi spunti critici su questo grande artista, che seppe mediare la cultura della sua terra con la conoscenza dell’arte centroitaliana, e che di recente è stato oggetto di un’altra grande mostra, in collaborazione con i curatori veronesi (Londra, National Gallery, a cura di Xavier Salomon). Come spiega Paola Marini, Veronese mostra non solo altissime qualità pittoriche ma anche un impegno di contenuto religioso e un «uso consapevolissimo e simbolico del partito architettonico». Lo si vede, fra l’altro, nella Cena in casa di Simone (Torino, Galleria sabauda), che «segna il punto d’arrivo del decennio di formazione e il primo esempio del genere dei conviti, poi specialità riconosciuta di Veronese».
Oppure nell’incombente Marco Curzio, «quasi ignorato dalla critica, che dopo il restauro ha rivelato qualità inaspettate», come ci dice Bernard Aikema: qui «l’illusionismo mantovano è rielaborato sulla falsariga del Giulio Romano di palazzo Te, con grande effetto sullo spettatore, come schiacciato dal cavallo che gli salta addosso ». Esempio poi di un tema caro a Veronese, la Fuga in Egitto, che illustra il concetto del “pellegrinaggio della vita”, molto attuale all’epoca delle Riforme religiose in Europa. Ben indagati anche i rapporti con Verona e il territorio, cruciali per comprendere certi orientamenti. Inoltre, le aperture sull’armonioso lavoro di équipe dell’officina, guidata dopo la morte improvvisa del maestro dagli «Haeredes Pauli» (il fratello e due figli). Lo si vede nel Convito in casa di Levi ora restaurato (da tempo in deposito presso il Comune di Verona dalle Gallerie dell’Accademia). Qui Paolo dovette far in tempo a dare lo schema generale e a metter mano solo alla parte destra.