Studi e riscoperte. 1
Il giovane Raffaello in Umbria

LE IMPRONTE
DEI PRIMI PASSI

Arriva in terra umbra poco più che diciassettenne e vi rimane per circa sei anni. Un periodo breve ma ricco di stimoli durante il quale Raffaello, in un incessante avvicinarsi e allontanarsi da Perugino, realizza una serie di opere tutte purtroppo, tranne due, smembrate e finite altrove.


Erica Baciocchi

Prima di aprire il grande capitolo della Roma papalina Raffaello si soffermò con l’anima e il cuore in Umbria, terra dalle colline digradanti, battagliera ma allo stesso tempo dolce e spirituale, che lo accolse, poco più che diciassettenne, con ancora negli occhi la luce pierfrancescana della sua infanzia e nella mente le perfette geometrie architettoniche della corte federiciana.

In questa fase, meno conosciuta ai più, in un continuo avvicinarsi e allontanarsi dall’«editoriale peruginesca» (Roberto Longhi), si formò un piccolo tassello di quella “virtù visiva” che, finita la parabola breve e intensa della sua vita, fece uscire l’artista dalla storia e dalla cronaca, per innalzarlo a una dimensione mitica trasformando la sua pittura in una vera categoria estetica.

Furono proprio i cieli umbri, nitidi e luminosi, che vide affacciandosi dalle mura di Perugia o guardando gli sfondi ariosi del «divin pittore» (come Perugino fu chiamato da Giovanni Santi, padre di Raffaello) a unire come una sorta di fil rouge i primi capolavori del Sanzio, avvolgendo emotivamente le figure e diventando, come disse Berenson, una sorta di «guaina dell’anima».

Ripercorrere le orme del Raffaello umbro, è però una sorta di racconto dell’assenza. La sua presenza è viva nell’immaginario collettivo e nel pantheon locale delle città che lo hanno ospitato(1), ma le opere, vuoi per la vendita a collezionisti stranieri, vuoi per le requisizioni napoleoniche, campeggiano oggi, smembrate e decontestualizzate, come un totem del bello ideale, in molti musei del mondo.

Il giovane Raffaello, ancora in bilico tra l’imprinting pierfrancescano e la progressiva adesione a Perugino, esordisce come “magister” nell’alta valle del Tevere, a Città di Castello, erede della bottega paterna.

Perché esordisca proprio qui non lo sapremo mai, forse perché luogo di passaggio, legato commercialmente a Urbino o probabilmente perché la città dei Vitelli, partito Signorelli per l’avventura orvietana, era pronta ad accogliere un nuovo artista. Quattro sono le opere che lascia in città, tra 1500 e 1504, molto diverse fra loro, alternando le commissioni tifernati a continui viaggi tra Urbino, Firenze e Perugia, in una vorace assimilazione di qualsiasi proposta artistica incontrasse sul suo cammino.

Nell’unica opera rimasta qui, il Gonfalone della Santissima Trinità, considerata come l’incipit umbro dell’artista, leggiamo faticosamente, nelle trame rovinate delle due tele che la compongono, la voglia, ancora in fieri, di sperimentare.

Un’opera di difficile datazione(2), priva di documentazione d’archivio e apparsa sugli orizzonti storiografici solo nel XVII secolo, ma già intrisa di echi perugineschi nei nastri svolazzanti degli angeli, punteggiata di scintillii dorati alla Pintoricchio nelle quinte rocciose, e pervasa da una certa volumetria signorelliana, che pur se distante dalla sua più intima natura, affascinò, proprio in questa città, il nostro artista. La critica non è stata sempre concorde nel vedere dietro allo stendardo la mano del pittore urbinate, ma esistono almeno due disegni preparatori autografi di Raffaello riferibili al Gonfalone.

Diversamente dalla tradizione, che vede nella maggior parte dei casi le due immagini di uno stendardo dipinte su entrambe le facce della stessa tela, in questo caso l’opera è eseguita su due tele che dovevano essere in origine incollate o cucite.


Raffaello, Sposalizio della Vergine (1503), Milano, Pinacoteca di Brera.

Raffaello adotta un vocabolario più articolato e complesso, pur partendo da due prototipi del maestro


Il grande privilegio che ebbe Città di Castello è però legato alla prima opera documentata di Raffaello come “magister”: si tratta della Pala di san Nicola da Tolentino, dal 1789 smembrata e in parte perduta, commissionatagli per la chiesa di Sant’Agostino nel 1500 insieme ad Evangelista di Pian di Meleto.

Un’opera che mostra, nei quattro frammenti superstiti, un artista capace di innovare senza particolari novità iconografiche, solo attraverso la costruzione di dettagli sapienti, percepibili già nei disegni preparatori.

Chiudono il cerchio tifernate la Crocifissione Mond e lo Sposalizio della Vergine, due veri capolavori giovanili, datati e firmati. Il primo, eseguito per Domenico di Tommaso Gavari a San Domenico, è la dimostrazione, pur nel grande nitore formale e nell’assoluta padronanza della tecnica pittorica, di quanto Raffaello in questa fase fosse uno dei miglior copiatori del Perugino, tanto che Vasari stesso ricordò che se non ci fosse stato il nome dell’autore inciso «nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro». Ben altro troviamo nello Sposalizio della Vergine, realizzato nel 1503 per la famiglia Albizzini in San Francesco; Raffaello adotta in questo caso un vocabolario più articolato e complesso, pur partendo da due prototipi del maestro(3).


Perugino, Sposalizio della Vergine (1501-1504), Caen, Musée des Beaux-Arts.

(1) Città di Castello, Perugia e Foligno.

(2) La datazione oscilla tra il 1499, anno di una terribile pestilenza, e il 1501- 1502. Data la presenza dei santi Rocco e Sebastiano e l’usanza di portarlo in processione, si ipotizzava la realizzazione dello stendardo a protezione della città.

(3) La consegna delle chiavi (1481-1482) nella Cappella sistina e lo Sposalizio della Vergine ( 1501-1504) per la cattedrale di Perugia.

La sapienza prospettica, il senso di uno spazio pieno, arioso, avvolto da una luminosità diafana, trasuda di quell’umanesimo ideale, di quel sogno della città ideale che proprio a Urbino aveva preso avvio. Quell’universo delle perfezioni geometriche, dato dall’equivalenza tra costruzione, spazialità e figure, è pervaso qui da un’atmosfera sospesa: un’unione di idealità e decoro, che sancì l’inizio di una nuova concezione dell’arte. Il Quattrocento era finito. Sarà l’avvio di una conversione rapida e totale, la delicata crisalide umbra verrà dispersa in una sorta di folgorazione toscana, così Verrocchio, Leonardo, Fra Bartolomeo entreranno prepotentemente, a partire dal 1504, nella vita artistica dell’Urbinate.

È alla luce di questo nuovo equilibrio, tra forma e contenuto, che possiamo ripercorrere i passi di Raffaello nella scoscesa e turrita città di Perugia; attraversando vicoli e piazzette ritroviamo, nelle storie di palazzi e monasteri, l’aura di piccoli e grandi capolavori: una presenza forte per la quantità e la qualità delle opere realizzate nel giro di pochi anni.

Le vicende della Pala Colonna per le monache di Sant’Antonio a Porta Sant’Angelo si intrecciano così con l’incompiuta Incoronazione della Vergine, per il monastero di Monteluce, commissionatagli, nonostante la giovane età, nel 1505 perché era «el maestro el migliore si fosse consigliato da più cittadini: et anco dalli nostri reverendi padri, che avevano visto le opere sue»(4). Nello stesso anno ecco uscire dalla sua mano la dolcissima Madonna Conestabile, un piccolo tondo dai colori invernali, che immaginiamo conservato gelosamente fino alla partenza per San Pietroburgo, nel 1871, nelle stanze dell’imponente palazzo Conestabile(5), e ancora la Pala Ansidei per la chiesa di San Fiorenzo. Contemporanea eppure di tutt’altra fattura: una grande sacra conversazione, dalla composizione piramidale e dalla luminosità diafana che riunisce in sé la spazialità di Perugino, la finezza di Pintoricchio e la possanza donatelliana.


Perugino, Pala di Monteripido (1502), verso, Perugia, Galleria nazionale dell’Umbria.


Raffaello, Trinità e santi (1505-1521), Perugia, cappella di San Severo.


Raffaello, Pala degli Oddi (1502-1503), Città del Vaticano, Pinacoteca vaticana.

(4) L’opera, commissionatagli insieme a Berto di Giovanni nel 1505, venne terminata successivamente da Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, oggi ai Musei vaticani.

(5) Per la prima volta viene citata in un libro di ricordanze di un certo Alfano di Diamante, zio di Domenico Alfani, collaboratore di Raffaello e autore della cimasa nella famosa Deposizione Baglioni.

Ci sono tracce della memoria di Raffaello in quasi tutti i rioni della città: un Raffaello sempre diverso, sempre in divenire, che guarda al passato e al futuro.

Qualcosa di tangibile però, pur se lacunoso, è fortunatamente rimasto: siamo nel rione di Porta Sole, nel luogo cantato anche da Dante; in una piazzetta solitaria, si affaccia la piccola cappella di San Severo, che custodisce l’unica opera, la Trinità tra santi, ancora in città(6). Entrando in questo ambiente, ci si trova, inaspettatamente, in un confronto diretto tra maestro e allievo: difficile sbagliarsi, il divario tra i due è qui palpabile.

Nel registro superiore, il giovane artista avvia l’opera con la Trinità attorniata da santi camaldolesi e benedettini che si impongono, dipinti in scorcio, nello spazio celeste, mostrando una nuova monumentalità: figure eleganti ma allo stesso tempo grandiose e possenti, che rimandano all’esempio di Fra Bartolomeo(7): epurate da quei languori sentimentali di retaggio peruginesco e cariche di una sensibilità nuova, reale, che anticipa già la Disputa del Sacramento nella Stanza della Segnatura in Vaticano.


Figure eleganti ma allo stesso tempo grandiose e possenti epurate da quei languori sentimentali di retaggio peruginesco


Fra Bartolomeo e Mariotto Albertinelli, Giudizio universale (1499-1501), Firenze, Museo nazionale di San Marco.

(6) Datato e firmato 1505, l’affresco fu commissionato dai commendatari della chiesa: Troilo Baglioni, committente di Pintoricchio a Spello, per la cappella Baglioni, e il cardinale Gabriele Gabrielli di Gubbio, vescovo di Urbino.

(7) In particolare il Giudizio universale realizzato nel 1499 per la cappella del cimitero dell’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze.

L’occhio scivola poi nel registro inferiore: una sfilata di santi, allineati e silenziosi, ci osservano con sguardi laconici e un po’ vaghi, simulacro di un Perugino stanco, ripetitivo, che, ironia della sorte, nel 1521, si trovò a terminare l’opera del suo allievo migliore.

C’è un luogo però, sigillo del suo passaggio in città, che sembra racchiudere più di ogni altro l’anima di Raffaello: la chiesa di San Francesco al Prato: un tempo “tempio del più aulico francescanesimo” e sacello delle famiglie nobili di Perugia.

Qui, accanto alla Pala degli Oddi, uscita dalle mani di un giovane ancora alle prese con i modelli e le movenze peruginesche, come dimostra il parallelismo con L’incoronazione della Vergine (verso della Pala di Monteripido di Vanucci)(8), campeggiava la potente, quasi epica Deposizione Baglioni, intimamente legata alle vicende politiche della città e sottratta ai perugini in modo tristemente rocambolesco, causando una vera e dolorosa assenza nel “genius loci” della città.

Un’opera unica, spartiacque tra giovinezza e maturità, che chiude nel 1507 la fase umbra di Raffaello, spalancandogli le porte di Roma. Quel respiro universale che aleggia nel dipinto, celebrazione di un “pathos” divino e umano insieme, fu voluto fortemente da Raffaello, per sacralizzare in modo nuovo, teatrale e potente la morte drammatica di Grifonetto(9). Un senso di quieta elegia, raggiunto tratto dopo tratto nei segni rapidi e sapienti dei tanti disegni prepararatori nei quali la metamorfosi del suo pensiero si fa strada, dal tema lirico e contemplativo del compianto alla drammatizzazione “classica” del Trasporto. La bellezza della sua discontinuità, del suo essere sempre in divenire, è racchiusa magistralmente negli sguardi, nelle movenze, nei piani smaltati che si perdono all’orizzonte. I tempi sono ormai maturi: nella mente e nell’arte di Raffaello non si distingueranno quasi più il bello di natura dal bello artistico e la breve parentesi umbra sarà assorbita nel meraviglioso enigma che fu la sua vita.


Raffaello, Pala Baglioni (1507), Roma, Galleria Borghese.

(8) La Pala di Monteripido fu realizzata nel 1502 da Perugino per la chiesa di San Francesco a Monteripido, sempre a Perugia.

(9) Rampollo della famiglia Baglioni, Grifonetto venne ucciso durante una faida tra famiglie nel 1500 in occasione delle famose “Nozze di sague”: all’origine del dipinto, il desiderio della madre Atalanta di ricordare e celebrare questa tragica morte.

UN LIBRO PER RAFFAELLO
Raffaello Sanzio, con Leonardo e Michelangelo, è entrato nell’immaginario globale come un modello imprescindibile del Rinascimento italiano. Questo libro ne racconta la vita, ne analizza e presenta visivamente con dovizia di dettagli l’intera produzione, indaga sulla sua personalità e i suoi rapporti umani, ricostruisce l’ambiente in cui si formò e visse seguendone l’irresistibile ascesa, dalla prima esplosione del suo talento di pittore fino alla fama raggiunta nella Roma dei papi e alla costruzione del mito che accompagnò la sua prematura scomparsa. Tutto questo senza trascurare aspetti meno evidenti, come gli studi per le costruzioni geometriche delle sue opere, l’attenzione all’anatomia e a un simbolismo colto, sottile e complesso. Marco Bussagli, Raffaello. Nell’arte, un dio mortale, 320 pp, 85 euro, Giunti Editore.

ART E DOSSIER N. 381
ART E DOSSIER N. 381
NOVEMBRE 2020
In questo numero: LUOGHI MAGICI: Il castello del Buonconsiglio a Trento. Le nuove gallerie del Museo scienza e tecnologia di Milano. Le beatitudini del Romanico. IN MOSTRA: Untitled, 2020 a Venezia. Accardi a Milano. Van Gogh a Padova. Tiepolo a Milano. Gentileschi a Cremona.Direttore: Philippe Daverio